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Dopo il Carnevale, la Quaresima

di Mario Pezzella

Rispondo con ritardo e con qualche osservazione alla lettera di Anna Pizzo, dopo aver letto anche le considerazioni più recenti di Pierluigi Sullo e Marco Revelli.

Quando una democrazia finisce o rischia di finire, anche se si tratta di quella democrazia spettacolare, svuotata, che abbiamo conosciuto negli ultimi anni, trovo che ci sia poco da festeggiare e che sia normale una grande tristezza: perché nelle più oscene caricature della democrazia è pur sempre presente almeno un ricordo della sua origine, della sua richiesta di diritti e di uguaglianza, un immaginario non del tutto riducibile alla sua figura attuale. Era vero per la Repubblica di Weimar ed è vero per l’Italia e per la Grecia oggi. Non viviamo solo una crisi della politica, ma una catastrofe dell’immaginario politico che ci ha accompagnato nel corso della nostra vita.

Secondo Hegel, un regime politico in declino può mantenere intatta la sua facciata per un tempo relativamente lungo, anche se è roso internamente da una contraddizione non risolvibile; l’apparenza del suo potere resiste al vuoto che internamente si propaga sempre di più, finché – oltre una certa sogli a- basta un leggero colpo di dito e tutto l’edificio crolla al suolo in pochissimo tempo.

Alcuni anni fa, nella “Carta della democrazia insorgente”, riprendendo un’idea di Guy Debord, scrivemmo che il regime politico democratico parlamentare sopravviveva solo più come uno spettacolo e una messa in scena, mentre i veri luoghi di potere e di decisione si spostavano in organismi paralleli, ufficiosi, segreti. Questo declino della democrazia ha preso inizio all’inizio degli anni ottanta del Novecento ed è ora giunto al suo termine. Di segretezza e di associazioni nascoste non c’è più bisogno.

Quelle che sopravvivono –per esempio la così detta P4 – sono semplici combriccole criminali, prive di progetto politico. I luoghi dove oggi vengono prese le decisioni sono sotto gli occhi di tutti e non lasciano più nemmeno l’ombra e l’illusione di un controllo pubblico: la BCE, l’ERT, le superbanche e i club di grandi imprenditori europei. Il governo degli stati nazionali riceve “lettere di comando”, a cui è costretto ad obbedire, pena lo strangolamento economico. I parlamenti, le elezioni, le parti sociali, sono apertamente denunciate come un intralcio. Il passaggio dichiarato dal regime parlamentare a una Società Autoritaria è possibile e imminente.

Dopo il Carnevale si annuncia ora la Quaresima. Sarà capace di raccogliere su di sé un’identificazione collettiva, un consenso generale? In una trasmissione televisiva alla presenza di Mario Monti, nuova icona del potere tecnocratico e punitivo, un banchiere ha sintetizzato in questi termini l’opinione dei “tecnici”: “Finché i pastori devono inseguire le pecore per richiuderle nell’ovile, non hanno tempo di prendere decisioni”. Descriveva così la democrazia, e il fastidio esplicito nei confronti dei suoi rituali. Un’ansia indiscriminata di autorità, disciplina e rigore sembra diffondersi con la stessa irrazionalità con cui prima si propagandava lo sperpero, il consumo e il libertinaggio. Dovremo subire una nuova rivoluzione passiva, dopo quella che ha colpito il termine federalismo, e sentiremo parlare di decrescita da parte dei nuovi poteri? Una decrescita ridotta alla miseria condivisa da quasi tutti e all’arricchimento folgorante di pochissimi?

Lo Stato nazionale, con la sua antica immagine di mediatore dei conflitti sociali, di gestore delle contraddizioni, neutrale fra le classi e le parti, condivide il declino della democrazia rappresentativa. Il nuovo autoritarismo si concretizza in un passaggio diretto del potere finanziario sovranazionale a potenza politica; lo stato nazionale si identifica sempre più con la polizia, necessaria a mantenere con la forza l’ordine pubblico.

E’ possibile che il tentativo di imporre un potere così diretto dell’economia sulla politica produca reazioni, che per ora è difficile prevedere; in mancanza di un movimento di democrazia insorgente forte e organizzato, è pensabile che una disperata resistenza dei ceti medi impoveriti e umiliati possa assumere forme populiste e neofasciste. Certo è che il nuovo potere tecnocratico si propone esplicitamente come regime neocoloniale, e si accinge a comprare a basso prezzo lavoro, banche, strade, ponti nei paesi dell’Europa del Sud, mentre ormai non riesce più a farlo in altre parti del mondo. Per contrastare il proprio inevitabile declino, i poteri finanziari e imprenditoriali che si riconoscono nella BCE, stanno per scatenare senza ritegno una selvaggia accumulazione primitiva nei paesi del Mediterraneo.

Secondo le migliori tradizioni coloniali, una élite locale si appresta a fiancheggiare sul campo i poteri forti europei, come accadeva in America del Sud durante il dominio del neoliberismo più sfrenato. E’ in corso la gara per assicurarsi un posto di prima fila e la divisa della servitù volontaria.

Di fronte a tutto ciò, qual è stato il rimprovero della sinistra parlamentare all’ormai ex governo? Quello di non essere abbastanza lesto, efficiente e pronto ad obbedire alle “lettere di comando” della BCE, che chiedono un letterale massacro sociale. E’ un po’ come lamentarsi perché le forze dell’ordine berlusconiane non sapevano usare in maniera tecnicamente efficiente gli idranti e il manganello.

Diceva Mario Monti in una intervista televisiva che i greci dovrebbero apprezzare l’opportunità che hanno per pentirsi dei propri errori e convertirsi alla “stabilità” economica. Qui lo spirito del capitalismo ritrova le sue radici morali e teologiche: senso di colpa e peccato per gli sconfitti, mentre la grazia di dio bacia in fronte gli eletti (che fanno di virtù rapina).

Il Presidente Napolitano, incolore migliorista del PCI, è diventato da qualche tempo un’icona della sinistra. A lui si rivolgevano accorati appelli negli editoriali del manifesto, Asor Rosa gli chiese niente meno che un golpe democratico, i suoi moniti spianano la strada ai comandi della BCE, così graditi al suo ex-partito e soprattutto a quel che rimane della sua ex-corrente. Peccato che si debba proprio a Napolitano la salvezza di Berlusconi e del suo governo, nel corso dell’anno passato. A settembre del 2010, subito dopo l’uscita di Fini dal PDL, se si fosse votata subito la fiducia, il Cavaliere sarebbe caduto. Napolitano lo impedì e il voto fu spostato a dopo l’approvazione della finanziaria, portando alla ridicola votazione del 14 dicembre e alla nascita dello scilipotismo. Sempre al suo “autorevole” intervento si deve l’approvazione del rifinanziamento delle missioni militari italiane all’estero.

Forse Napolitano agisce in proprio, obbedisce alle “lettere di comando” dalla BCE, certo è che opera in modo autoritario, al di fuori e al di sopra delle competenze assegnate dalla Costituzione al Presidente della Repubblica. Nello spettacolo declinante dello Stato, egli tenta di impersonare ancora una volta la mediazione super partes, lo spirito pubblico capace di interpretare la volontà generale e di placare i conflitti; peccato che lo faccia a senso unico, favorendo la volontà dei poteri finanziari europei, e dimostrando di essere non l’ultimo rappresentante dello Stato Nazione, ma il primo esponente dello Stato-funzione dei mercati. Inutile dire che a questo compito non è stato eletto da nessuno. Ma ormai il meccanismo stesso della delega rappresentativa è divenuto superfluo.

Non si pensi che dopo lo spettacolo carnevalesco del berlusconismo il nuovo potere emergente dirà la “verità” agli Italiani, ritornerà a un capitalismo più “reale”, materiale e produttivo. Si annuncia, questo sì, un cambio di scena e di attori, una menzogna modificata.

Austerità e crescita sembrano essere le nuove parole chiave: ma crescita – nel linguaggio dei nuovi potenti – significa smantellamento radicale di quel che resta dello stato sociale, abolizione dei contratti di lavoro nazionali, asservimento dei sindacati, subordinazione coloniale. Il dominio dell’attuale capitale finanziario sarà tanto più generale e incontestabile. Sulla base di questa violenta rapina organizzata, una élite di ricchi (non più del 10 per cento del paese) “crescerà”, cioè si arricchirà spudoratamente: gli altri, i miserabili, la nuova plebe, plagiati dai media, dovranno anche festeggiare quando il PIL passerà dallo 0,3 allo 0,4. L’ imprenditore serio e produttivo, il banchiere onesto, il milionario favorevole a una patrimoniale che gli farà perdere qualche millesimo percentuale di ricchezza, sono le nuove parti che si annunciano in commedia. Ma a noi non importa la “morale” del potere: che sia gaudente o puritano, cristiano o libertino, sadico o masochista, queste varianti etiche non sono che le maschere del movimento delle merci, nel suo passaggio sempre più rapido e vertiginoso dal consumo sfrenato alla crisi e viceversa, fino a quando questo moto inconsulto non rischierà di diventare contraddizione irrisolvibile con i “normali” mezzi della democrazia. Lo spettacolo attuale insiste sul concetto di sviluppo e crescita della ricchezza, secondo un moto lineare e progressivo; mentre in realtà si assiste a un ciclo, che prima produce troppa ricchezza e poi la distrugge, rimanendo sostanzialmente à piétiner sur place. La stagnazione, che è condizione generale dell’Occidente, non appena si guardi a un periodo almeno decennale, è mascherata da una frenetica – e inesistente – mobilità verso l’alto. Questa decrescita di fatto –ma non voluta, non gestita, non controllata da un soggetto insorgente – diverrà tra non molto regressione, sul piano economico e civile.

In un noto film di C. Chaplin compare la figura di un milionario schizofrenico. Quando è ubriaco si dà alla baldoria, butta i soldi dalla finestra, dice “siamo tutti uguali ed amici”; quando è sobrio si barrica in casa, vicino alle sue casseforti, rimprovera chi spende un centesimo, tratta tutti da servi. Di notte è democratico, di giorno diviene un banchiere. La genialità di Chaplin è di aver unito questi aspetti in un’unica figura, creando così un’immagine indelebile del movimento del capitale, dall’euforia del consumo alla depressione della crisi.

La nascita dello Stato moderno è stata interpretata – da Hobbes a Schmitt – come una necessaria riconduzione dei molti all’Uno. Solo una cessione radicale e definitiva della sovranità a un potere sovraordinato e centrale poteva permettere di controllare la violenta lotta di tutti contro tutti che si era palesata – più che nell’ipotetico stato di natura di Hobbes – nelle contemporanee e devastanti guerre di religione. Lo stato era il necessario mediatore, super partes, che arrestava l’aggressione di una parte contro l’altra e cristallizzava l’ordine sociale (anche se poi questo compito era –fin dall’inizio – solo illusoriamente neutrale: e in realtà piuttosto stabilizzava il diritto secondo le esigenze dei vincitori e dei più forti). E’ il panico di fronte all’abisso di conflitti sregolati, che fa scegliere ai molti la servitù piuttosto che la libertà e li rende incapaci di far a meno di un’istituzione da cui – in teoria – dipende il mantenimento di una pace relativa. Con la trasformazione attuale dello Stato in funzione del mercato, esso è però divenuto incapace di svolgere il compito per cui era stato pensato e realizzato: esso è divenuto complice e produttore di conflitti irrisolvibili. La sua storia plurisecolare volge al termine e si rende necessaria una nuova idea di contratto sociale.

 

In margine a un articolo di Rossana Rossanda sulla Grecia. Fra la dittatura tecno-finanziaria in via di formazione e la democrazia rappresentativa esiste un rapporto paragonabile a quello tra il potere economico cinese e la scenografia del comunismo. Nella società spettacolare integrata descritta da Debord la democrazia era solo spettacolo, ma la massa dei telespettatori era destinata a non esserne consapevole: ora questa falsa coscienza non è più possibile o non è più utile. Tutti sanno che parlamenti ed elezioni sono pura rappresentazione, destituita di ogni potere reale: allo stesso modo si conserva in Cina il fondale dipinto del comunismo, e il ritratto di Mao appeso ovunque, dagli stadi alle latrine.

Quando il premier greco Papandreu ha tentato di attivare un referendum, cioè una procedura democratica, per chiedere al suo paese l’approvazione delle misure imposte dalla BCE, si è visto in quale conto la nuova Società Autoritaria tenga la democrazia. Papandreu è stato minacciato, considerato un traditore, venduto dai membri del suo stesso partito, e costretto a fare marcia indietro.

Le “lettere di comando” della BCE obbediscono a un Führer Prinzip di nuovo conio: esse si presentano come l’emanazione indiscutibile di una Verità, che procede dalle leggi inviolabili e superiori del Mercato, entità trascendente e indominabile, come la razza pura di Hitler o la Storia di Stalin. Dalla Val di Susa alla Grecia, chiunque faccia minimamente da ostacolo deve essere schiacciato.

Il regime spettacolare integrato descritto da Debord, e che è ancora alla base delle considerazioni contenute nella Carta della democrazia insorgente, sta per finire, lasciando il posto a un dominio che vuole imporsi con brutale immediatezza, senza più ricercare forme di consenso nel mondo dei sogni e delle immagini. Che questo sia possibile, è ancora da dimostrare. Il nuovo potere tecno-puritano realizza una grottesca caricatura della dialettica hegeliana, in una continua e distruttiva autocontraddizione: crescere, ma anche tagliare i consumi; imporre un potere federale, ma anche il dominio coloniale dell’europa del Nord su quella del Sud; chiedere sacrifici per tutti, ma anche privilegi per le banche e per le elites che le dirigono. E’ lo spirito del mondo a cavallo fra due sedie. Neanche gli aristocratici dell’Ancien Régime, prima della rivoluzione francese, hanno potuto continuare indefinitamente a mangiare brioches, lasciando agli altri la carestia.

Se non si crea un vero federalismo europeo non è per incapacità o resistenza passiva dei vecchi poteri nazionali; è per volontà politica precisa, per spianare la strada al nuovo potere e all’immediato comando della finanza sulla politica. Ben lungi dall’essere una deformazione provvisoria, questo è il nuovo modello di dominio, che liquida ogni mediazione democratica e ogni messa in scena parlamentare. Un potere come questo esibisce come un merito la propria ingiustizia, così come quello berlusconiano la propria illegalità. Esso non può esercitarsi se non su un popolo ritrasformato in plebe, con  la coercizione e l’umiliazione.

 

Scrive Marco Revelli che sta crollando la “realtà immaginaria, parallela, fantasmagorica e totalizzante” diffusa dal berlusconismo; ma non si dovrebbe dimenticare il rischio che sia distrutta insieme ad essa la più elementare e generale immaginazione democratica. Come unica alternativa alla democrazia spettacolare si propone il radicale ascetismo del nuovo potere tecnocratico; a cui si dovrebbe sacrificare tutto, anche gli embrioni di democrazia insorgente che si erano diffusi negli ultimi mesi, dal referendum in poi. La “dittatura commissaria” di Monti viene accettata come il male minore e necessario, per “riallineare” l’Italia agli altri paesi europei, permetterci di trattare da uguali con Francia e Germania. Ma è questo il compito della attuale dittatura commissaria? O non piuttosto quello di gestire una colonizzazione e una subordinazione accettate come inevitabili, evitandoci (forse) gli estremi rigori riservati alla Grecia? Monti dovrebbe – dice Revelli – “riavvicinarci alla crisi degli altri”, a una “temporanea normalità”. Ma come riconosce egli stesso questa temporanea normalità è in realtà una corsa verso la catastrofe, mentre lo spread degli “altri” (Francia e Spagna, ad esempio), in rialzo pauroso, rischia di vanificare qualsiasi misura economica presa dal nostro governo nazionale. Cosa vuol dire temporaneo  in queste condizioni? Un giorno, un mese, forse due?

Vale la pena di evocare Schmitt, e la sua teoria dello “stato d’eccezione”, che serviva in realtà a giustificare la dittatura non commissaria ma permanente di Hitler? O non si dovrebbero piuttosto immaginare nuove forme di istituzione democratica, capaci di ostacolare la corsa veloce e autodissolutiva dei mercati verso la fine di ogni sovranità popolare? L’urgenza primaria è quella di creare un governo che accetti il comando immediato del mercato o piuttosto quella di dar vita a un soggetto politico, che chieda di mettere sotto controllo la speculazione finanziaria e i profittatori del debito pubblico? E’ pensabile vietare e sanzionare penalmente la speculazione al ribasso sui titoli del debito pubblico?

Non credo che la “cittadinanza che dovremmo riconquistare nel nostro continente” sia davvero possibile: forse i poteri sovranazionali e finanziari seguono un progetto politico che prevede proprio e innanzitutto la perdita da parte dei paesi del Sud Europa di ogni forma di cittadinanza paritaria. Se così fosse questo disegno neocoloniale andrebbe svelato e combattuto, come iniziano a capire i movimenti che fanno capo ad Occupy Wall Street. E compito nostro sarebbe quello di elaborare un ordine simbolico e categorie politiche in grado di sostenerli e di evitare che si disperdano nel nulla, dare voce ai “senza parte”, che stanno prendendo coscienza della loro esclusione. Porre un ostacolo e fare opposizione alle forze speculative oggi dominanti non aumenta, credo, il pericolo di un disastro economico, ma anzi lo allontana e lo rende non ineluttabile. Lo stato d’emergenza di cui abbiamo bisogno non dovrebbe oggi sospendere le libertà politiche, ma le libertà distruttive di un’economia speculativa, che segue la logica del dominio totale. Però bisogna fare presto.

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