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Dubbi sulla salute giuridica di Giorgio Napolitano

di Rodolfo Ricci

E’ difficile comprendere il comportamento del Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano. “La figura del Presidente non si attacca mai, perché rappresenta l’unità della Nazione”: questo si insegnava nelle scuole della politica della prima Repubblica. A parte i casi, previsti dalla Costituzione, in cui sussistano evidenze di alto tradimento o di manifesta incapacità per i quali sono previste le procedure di impeachment oppure di necessaria sostituzione. Ciò che reca sempre più dubbi sulla capacità del Presidente Napolitano è il suo continuo, insistente e progressivo interventismo sul tavolo di gioco della politica nazionale, decisamente squilibrato a favore del Governo Monti e delle sue misure e a contrasto di ogni posizione critica che venga da pezzi di politica, dei sindacati, dei movimenti sociali.

Il Presidente, che ha manifestato un equilibrio fin troppo attento nei primi due anni del Governo Berlusconi,  ormai da diverso tempo entra direttamente nell’agone e nella discussione politica nazionale esprimendo posizioni che valicano il limite delle sue funzioni di arbitro super partes, a partire dall’acceso sostegno all’interventismo nella guerra alla Libia con relativi bombardamenti effettuati degli aerei italiani, che considerò “la naturale evoluzione di decisioni prese dalla comunità internazionale”.

In quell’occasione ha operato una forzatura oggettiva sulle prerogative del governo allora in carica, molto restio, come si ricorderà, ad intervenire; una forzatura che, stando all’attuale evoluzione post bellica in Libia, contraddistinta dalla spaccatura del paese, dallo scorazzare di bande jihadiste, qaediste, dalla manifesta violazione dei diritti dell’uomo recentemente denunciata da Amnesty International e dalle stesse agenzie ONU, è stata sbagliata e scorretta in sé,  oltre che per la evidente perdita dell’ importante posizione strategica dell’Italia nel paese nord africano, ed ha comportato l’ennesima violazione dell’Art.11 della Costituzione.

Quando a violare questo articolo sono i governi, come è accaduto in Serbia, in Afghanistan e in Iraq, la questione è gravissima. Quando ad incitare alla violazione dell’art. 11 e a prendere le redini delle operazioni è il Presidente della Repubblica, la cosa diventa sconcertante, perché significa che si è già entrati in uno spazio storico e giuridico completamente diverso da quello configurato dalla Carta Costituzionale.

Molti hanno sorvolato con grande leggerezza su quell’ evento, salvo stupirsi e restare basiti, con grave ritardo, nelle ultime settimane,  del sempre più scoperto, martellante ed arrogante incedere delle parole presidenziali a sostegno della sua ultima creatura, il Governo tecnico dei professori e delle misure da esso messe in atto, che redarguiscono di volta in volta il Movimento No Tav, i manifestanti della Sardegna,  il Movimento dei Forconi, la Fiom, la CGIL ed infine il Partito Democratico, per posizioni tacciate con gli epiteti di localismo, corporativismo, conservatorismo, e in ultimo di non tenere in dovuto conto dell’”interesse generale”.

Nella giornata di ieri e di oggi, intorno alla vicenda centrale della riforma del mercato del lavoro e dell’abolizione dell’Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, il buon segretario del PD, Pierluigi Bersani, ha dovuto rendere manifesta la sofferenza e il fastidio per le incursioni di Napolitano, con un messaggio molto duro inviato a Monti, affinché suocera (nel caso suocero o padrino) intenda: “se il Parlamento non deve discutere, che facciamo, lo chiudiamo ?”

Siamo così giunti ad uno snodo cruciale della situazione politica nazionale: il Presidente prende partito direttamente e unilateralmente per una particolare opzione di gestione della crisi, rispetto ad altre che, a rigore, dovrebbero avere pari rispetto e dignità istituzionale.

Il Presidente ritiene che solo il percorso portato avanti da Monti e Fornero, sia quello che rappresenti l’interesse generale, corroborato, in questo giudizio, dalle indicazioni delle note lettere della BCE, la cui sostanza democratica è nulla e inesistente, e delle varie centrali europee: Commissione, Eurogruppo, Consiglio, altrettanto prive di legittimazione democratica e di altri organi del tutto esterni alla Unione Europea, come l’ FMI, per arrivare a quell’entità che aleggia sull’orbe intero chiamato con il buffo termine di “mercati”, una sorta di oggettività sistemica plurale, senza identità né nominalistica, né giuridica, lo spirito santo post-democratico.

A tutto ciò fa riferimento il Presidente Napolitano quando emette le sue sentenze. Cioè a qualcosa che non ha alcun riferimento nella Costituzione, che invece, ben altri soggetti ed entità definisce a suo fondamento, a partire dall’Art. 1: “L’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro”.

Quando il Presidente della Repubblica, superiore garante della Costituzione, orienta la propria azione non alla Carta, ma ad entità o poteri esterni alla Costituzione, come potremmo definire il suo comportamento ?

Come definire questo fornicare con poteri o entità esterne al Popolo italiano, che a questo Popolo dettano l’unica via percorribile, quando invece la figura del presidente esiste solo per garantire l’attuazione della carta costituzionale e della sovranità popolare ?

Sussistono o no elementi che possono configurare un imminente o già consumato stato di attentato o di tradimento della Costituzione ?

Sono possibili alcune interpretazioni dell’atteggiamento e dell’azione del Presidente:

la prima è che egli ritenga che il gravissimo rischio (un autentico baratro alla greca), che sta correndo il paese è evitabile solo con una attenta e sottile azione di convincimento dei poteri forti internazionali i quali debbono essere edotti che l’attacco speculativo all’Italia è sbagliato. Questa azione di convincimento ha implicato la devoluzione del potere esecutivo a uno dei massimi esponenti internazionali di questi medesimi poteri ed implica ora l’attuazione di tutta una serie di riforme che vadano incontro al loro gradimento. A tutto ciò, partiti, Parlamento, forze sociali debbono mestamente sussumere identità, progettualità e natura per un periodo che può essere anche molto lungo, sospendendo la loro azione di interfaccia e di rappresentanza di parte, poiché le parti, i corpi intermedi, in quanto tali, rappresentano solo parzialità localistiche, di classe, o addirittura nazionali, che mal si conciliano con l’unico ordine  globale possibile, quello che, probabilmente, il Presidente ritiene vincente, nostro, o suo malgrado.

Questa interpretazione implica la fine, ad esempio, della cosiddetta concertazione, per due motivi: uno perché è un processo troppo lungo e farraginoso rispetto ai tempi richiesti dalle decisioni e due perché dalla mediazione che ne risulta non può mai scaturire la cristallina trasparenza richiesta dai parametri con cui funzionano le macchine cibernetiche che chiamiamo mercati. Vi sono quindi problemi di tempistica e di sinteticità delle sue tradizionali soluzioni che sono fuori registro. Ciò è anche quanto afferma Mario Monti, il Ministro Fornero e lo stesso Marchionne.

La seconda ipotesi è che Giorgio Napolitano, abbia già da tempo abiurato alla funzione che gli riserva la Costituzione e sia ormai parte integrante e dirigente dei medesimi poteri transnazionali di cui stiamo parlando, configurandosi non come diplomatico protettore del Bel paese, ma come esecutore nazionale delle direttive di quella che potremmo chiamare la grande Borghesia finanziaria globale, nei cui ambiti siede come capo della frazione Italiana. Mario Monti, in questo caso, sarebbe davvero il “Suo” esecutore tecnico che segue le direttive impartite dal Colle.

Questa ipotesi troverebbe qualche conferma nel fatto che alcune scelte operate e in corso d’opera (tra queste già fatte, l’operazione in Libia e, tra quelle da operare, la privatizzazione di ciò che resta del patrimonio industriale strategico nazionale), configurano una oggettiva ed evidentissima perdita di influenza dell’Italia sullo scenario geopolitico.  Allo stesso tempo, la definizione della posizione dell’Italia nella futura divisione internazionale del lavoro, contraddistinta da una auspicata competitività che sarà fondata sull’ulteriore abbassamento del costo del lavoro e dalla distruzione dei corpi intermedi, (fotografata dalla riforma del mercato del lavoro che stiamo per varare), dalla fuga e dalla devoluzione dei nostri cosiddetti cervelli ad altri paesi nord europei e oltre atlantici, dalla espulsione dal sistema di conoscenze e di saperi di milioni di giovani che, più che studiare, dovranno sostituire le manovalanze troppo costose dei “garantiti”, dalla nuova emigrazione di massa che quindi si annuncia, configura una svendita della capacità di effettiva concorrenza dell’Italia rispetto agli altri paesi avanzati ed emergenti; uno scenario, rispetto al quale, l’elite di quello che fu un grande paese, sarà preservata nelle sue prerogative e nelle sue funzioni, solo in quanto garante nazionale dello status quo che si annuncia.

In questo caso, Re Giorgio, come qualcuno lo ha definito, è solo il primo dei sovrani che si succederanno alla guida del nuovo Regno d’Italia e che condivideranno i corridoi della corte imperiale in corso di assemblamento, assieme ad altri regnanti dei paesi di media potenza.

La terza ipotesi è che Giorgio Napolitano sia mal consigliato. La sua veneranda età, al di là di indubbie ed evidenti qualità soggettive, lo espone a incursioni di consiglieri nazionali ed internazionali la cui capacità di plagio tecnico può essere alta e fuori del controllo e della verifica del Presidente.

Questa ipotesi, oltre al fattore età, troverebbe conferma nelle caratteristiche soggettive dell’uomo, che nel corso della sua storia, ha manifestato continui scarti laterali e non ha costituito certo, un esempio di linearità: fascista fino al 1942, alla fine della guerra si è iscritto al PCI. Nel 1956 sostenne l’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe sovietiche; firmò anche, pare, prefazioni ai libri di Ceausescu. Poi virò, nella sua funzione di ministro degli esteri del PCI, verso la Nato, il cui ombrello diventò preferibile a quello sovietico alla fine degli anni ’70. All’inizio degli ’80 si schierò contro Berlinguer sulla vicenda della Scala Mobile e fu l’artefice dello sdoganamento atlantico dell’ultimo PCI.

Salito al soglio presidenziale in chiave sostitutiva rispetto al candidato del centro sinistra Massimo D’Alema, il quale, pur avendo gestito la prima delle guerre umanitarie, non risultava ben accetto ad Israele, ha finito per acquisire i maggiori riconoscimenti internazionali come principe dell’Occidente, da parte anglosassone ed israeliana.

Sebbene il percorso degli anni recenti sarebbe in linea con l’ultima fase del suo pensiero, è individuabile tuttavia una connaturata abitudine, nella lunga vita di Napolitano, a schierarsi sempre col più forte, una qualità che può essere assimilata di volta in volta a grande realismo, oppure a pavidità, oppure ad una genetica capacità di galleggiamento tipica dei politici di razza, rafforzato, nei primi anni 2000 dai massaggi culturali operati dalla sondaggistica – nuova scienza del controllo del corpo sociale – sull’opinione pubblica.

Quest’ultima interpretazione, darebbe conto di una caratteristica abbastanza frequente nella vita dei personaggi politici più in vista e non solo: in questo caso, si tratterebbe di una confusione tra la propria credibilità a livello internazionale e quella dell’intero paese, invertendo in un classico gioco psicopatologico, la realtà con la soggettività, cosa che sarebbe in parte giustificata dagli antecedenti berlusconiani, anch’essi caratterizzati, in altro modo, dalle medesime dinamiche.

Il taglio del nodo gordiano dei tanti dubbi intorno al Presidente, può essere sciolto solo con l’intimazione del suo immediato riposizionamento nel ruolo che la Costituzione gli riserva, oppure con la precisa richiesta della sua uscita di scena, secondo quanto previsto dalla stessa Costituzione.

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