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Contro le primarie*

di Rino Genovese

Sono radicalmente contrario alle primarie. E provo a spiegare perché. Anzitutto, come nascono le primarie in Italia? Le volle Romano Prodi, che non aveva alcun partito alle spalle e, in quei tempi che sembrano ormai lontani, guidava una variegata coalizione di centrosinistra in chiave antiberlusconiana. Come spesso accade per le cose italiane, erano una merce d’importazione dagli Stati Uniti. Laggiù sono una cosa relativamente seria (per esempio ci s’iscrive alle liste elettorali un annetto prima), e la più tipica espressione di un presidenzialismo da sempre molto personalizzato, organizzato attorno a due grandi partiti che in realtà, più che partiti politici nel senso europeo, sono dei giganteschi comitati elettorali. Contro il berlusconismo politico-televisivo e il suo plebiscitarismo senza plebisciti (basato sulla macchina della propaganda, sull’uso dei sondaggi che anticipavano costantemente il risultato elettorale trionfalistico, ecc.), parve a Prodi che la sua figura di tecnico o intellettuale prestato alla politica, e di leader di una coalizione virtualmente rissosa (come poi si ebbe modo di vedere), avesse bisogno di un di più d’investitura popolare, che gli consentisse di non ripetere la brutta esperienza che gli accordi e i disaccordi tra le segreterie di partito gli avevano riservato nel 1998, ai tempi del suo primo governo. Di pari passo, Prodi spinse moltissimo verso la costituzione di un partito di centrosinistra, il Pd, che avrebbe dovuto essere il suo partito nato dalla fusione della parte maggioritaria della sinistra erede del vecchio Pci con quella frangia centrista o popolare di sinistra, che era un pezzo del mondo cattolico-sociale interno alla vecchia Dc.

Come sappiamo, le cose andarono molto diversamente da come Prodi aveva immaginato: al punto che oggi egli non è più nulla nel partito che pure aveva voluto, e finanche il suo messia, Arturo Parisi, è praticamente scomparso dalla scena.

Che cosa c’era di sbagliato in quella prospettiva? A ben vedere, un po’ tutto. I partiti non sono pezzi da costruzione di un patchwork che darebbe come risultato proprio il partito desiderato. I “capi” o i notabili della politica precedente (che, nel caso di Prodi, andavano dai Marini ai Rutelli, dai D’Alema ai Veltroni) non lasciano il campo facilmente all’intelligenza di un pensiero ingegneristico (Prodi ebbe a definirsi una volta un professore in “scienza delle coalizioni politiche”, o qualcosa del genere), e neppure gli alleati esterni (della sinistra narcisistica come Bertinotti, o del centro clientelare come Mastella) si lasciano guidare a piacimento solo perché c’è stata un’investitura popolare sul leader della coalizione.

Lo strano risultato di tutto il confuso processo che, negli anni – bisogna dirlo -, ha dato oggettivamente una mano al berlusconismo vincente, è l’ircocervo, come l’avrebbe chiamato Croce, che abbiamo davanti agli occhi: un aggregato di sensibilità politiche e personalità diverse, il Pd appunto, che forse solo la pazienza della segreteria Bersani – di ciò gli va dato atto – ha salvato finora dalla scissione o dalla dissoluzione.

Ora, questo singolare partito, nato da una “fusione a freddo” (come fu anche definita), è oggi l’unico partito bene o male organizzato presente sul territorio italiano. Ciò può apparire del tutto stravagante – ma la politica, in Italia, ci ha abituato a così tante stravaganze che stupirsene non serve. Le classi dominanti del nostro paese (uso a bella posta questa espressione sommaria e piuttosto desueta, per brevità, e anche con una piccola dose di provocazione) sono state storicamente organizzate per consorterie, per clan, per lobbies (ma il termine è già troppo moderno), non per partiti politici. Un partito liberale italiano lo avete mai visto? Sì, c’erano i liberali, prima del fascismo, ma non organizzati in partito (e avete visto poi il bel pasticcio che combinarono); ai tempi della mia fanciullezza, un certo Giovanni Malagodi dirigeva un partitello liberal-conservatore, che si oppose al centrosinistra di allora e progressivamente si esaurì. No: con l’eccezione proprio del fascismo, le classi dominanti non hanno mai avuto un loro partito politico: e anche quello fascista, alla fine, che seccatura, con quel vecchio capopopolo socialista che metteva becco dovunque! Quando si è trattato di affrontare il periodo repubblicano, con i suoi scioperi, i suoi movimenti di piazza, e purtroppo le necessarie “riforme”, ci si è affidati alla Dc, al “gioco” delle sue correnti mostrato sadicamente da Leonardo Sciascia in Todo modo (e resta famoso, negli anni sessanta, il tentato o minacciato colpo di stato in chiave antisocialista, e anti-sinistra democristiana, messo a punto dal presidente della repubblica di allora, il democristiano Segni, esponente della destra conservatrice). Ma un partito politico vero e proprio, Dio ce ne liberi! Meglio qualche mazzetta a Craxi, la distruzione del più antico partito italiano, il Psi, e poi – perché no? – il neopopulismo televisivo, che idea! una trovata fantastica, da prolungato autoapplauso petroliniano.

È in questa situazione di storica scombinatezza che cala l’invenzione del Pd. Di un partito che dovrebbe rappresentare le passioni e gli interessi di una generica “parte migliore” del paese, quella che vuole una politica decente, di un centrosinistra moderatamente riformista, e soprattutto non ne può più delle nuove forme carismatiche plebiscitarie, nutrite di promesse mirabolanti, di protervia, e di sostanziale immobilismo. Questa “parte migliore” vuole partecipare? Le primarie sono fatte per questo. In qualsiasi passaggio elettorale, ovunque sia possibile, si scelgono direttamente i candidati. A Milano come a Napoli. Solo che a Milano esce fuori un’ottima persona come Pisapia, ma a Napoli – dove, si sa, sono sporchi e cattivi – un pasticcio che dev’essere in fretta annullato.

Le primarie sono una roulette. Certo, con le ultime modifiche procedurali, grazie all’introduzione del doppio turno per esempio, lo sono un po’ meno: ma resta il fatto che sono state pensate per un partito non caratterizzato ideologicamente, democratico in senso generico, che deve di continuo rilegittimare se stesso, e le proprie lotte interne (anche semplicemente tra gli “ego”), con quel di più d’investitura di cui già Prodi era alla ricerca.

Un personaggino come Renzi, per dire, l’allievo di Mike Bongiorno che sembra uscito da una scatola con un meccanismo a molla, è in effetti un prodotto delle primarie. Le primarie sono perfette per simili personaggini. Senza la divisione tra il candidato veltroniano e quello dalemiano, che si elisero a vicenda nelle primarie fiorentine per l’elezione del sindaco, oggi Renzi non esisterebbe. E ancora le primarie lo vedono in finale, la volta successiva, addirittura per la leadership nazionale. Chiunque può. Le primarie possono determinare il successo di chiunque. Sono in se stesse – per la maniera in cui sono state concepite in Italia – una “risposta” al berlusconismo che, in fondo, è una prosecuzione del berlusconismo con altri mezzi.

Spiace quindi che uno come Vendola si sia consumato nel tentativo d’inseguirle. Aggiunge stranezza a stranezza il fatto che il leader di un raggruppamento di sinistra che vuole  allearsi con il partito maggiore di centrosinistra, grande quattro o cinque volte più di lui, voglia assumere la leadership della coalizione. Come sarebbe? Se vuoi essere il capo dell’alleanza, diventare il presidente del consiglio e così via, allora entri in quel partito e fai tutta la trafila interna: però questo allora vorrebbe dire che, almeno all’ingrosso, ne condividi la linea. Se invece quella linea non la condividi, se trovi quel partito un po’ troppo a destra, se il governo Monti non ti va giù e al massimo lo sopporti per carità di patria, beh, allora nulla vieta che tu proponga un patto tra il tuo raggruppamento e il partito in questione, ma non puoi presentarti alle primarie che sono il “rito fondativo” di quel partito: perché, se anche vincessi, che cosa vinceresti? avresti soltanto aumentato il casino.

Meglio, molto meglio, avrebbe fatto Vendola in questi anni a costruire il suo partito: in primo luogo cambiandone il nome, perché quello attuale è un piccolo elenco di cose anche giuste ma che non trovano l’indicazione di una sintesi; poi muovendo tutte le pedine disponibili sul territorio nel senso della partecipazione democratica effettiva, quella a partire dalle “sezioni” e dai circoli; ancora, sviluppando una “cittadinanza attiva” in rete che potesse tenere il confronto con l’uso neoqualunquistico che ne fa Grillo; e infine alleandosi, sì, con il centrosinistra, ma cercando di allargare il suo raggruppamento in direzione dei movimenti, così da anticipare le mosse di una sinistra puramente sociale che ora dichiara di presentare liste elettorali “fai da te” con la quasi certa dispersione dei voti.

Per concludere, da tutte le prospettive da cui le si guardi, le primarie appaiono qualcosa che sarebbe stato meglio non fare, e che sarebbe meglio abolire. Accordi chiaramente di vertice, tra i gruppi politici, sono preferibili a una partecipazione democratica contraffatta. Che cosa si sceglie in realtà con le primarie? Che Bersani fosse il favorito, lo si sapeva già. Che Renzi, sempre che non avesse vinto proprio lui, aveva già vinto per il semplice clamore intorno alla sua persona, era altrettanto noto. Che il centrosinistra, comunque vada, sia costretto dalla situazione economica, da un’Europa che è quella che è, persino dai rapporti di forza, ad avere una politica grosso modo montiana (ammesso che non sia lo stesso Monti a proseguirla), lo si sa già.

Le primarie sono il rito vuoto di un centrosinistra, purtroppo anche di una sinistra, che ha perso se stessa nel corso degli anni, cioè la propria “ragione sociale”, e si aggrappa alla personalizzazione e all’investitura popolare come a una zattera.


*[Questo articolo è uscito su «Il ponte»].

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