Print Friendly, PDF & Email

Il teatrino di Stato

di Walter G. Pozzi

Malgrado la solennità con cui è stata presentata, la rielezione di Giorgio Napolitano, alla fine dei conti, non può che apparire per quello che è: un giochino ben orchestrato. Una lunga narrazione iniziata con le ripetute dichiarazioni del protagonista di non avere alcuna intenzione di accettare una sua ricandidatura alla presidenza, e conclusa con la cerimonia ufficiale del suo rinnovato giuramento di fedeltà alla nazione.

Se è vero che la realtà è ciò che rimane una volta sfrondato l’intero impianto simbolico, di reale in questa vicenda resta ben poco: il vuoto politico degli ultimi vent’anni, la malafede dei suoi attori, il congelamento del Movimento 5 stelle e l’autodafé politico, definitivo, del Pd, esemplificato dall’insediamento del governo Letta in stretta complicità con Berlusconi. Occorre ammettere, a giochi conclusi, che desta sempre una certa impressione notare l’impatto positivo sui cittadini che riesce a ottenere la solennità di un atto ufficiale di Stato. Il Parlamento gremito, le telecamere, la diretta televisiva, gli stralci dei discorsi trasmessi nei telegiornali; la capacità che ha tutto questo di creare un consenso acritico, totalmente pre-razionale, nei suoi spettatori.

Forse qualcos’altro di reale, una volta strappate le erbacce simboliche, c’è. Ed è la rimozione. La rielezione a presidente della Repubblica di Giorgio Napolitano, e la maniera con cui è stata celebrata – un contesto ad alta tensione drammatica e con un portato emotivo costruito ad arte – appaiono un luminoso esempio della potente capacità delle forze istituzionali di azzerare il passato, anche il più torbido.

Potenza della retorica dell’ufficialità, delle vuote parole virtuose pronunciate nel nome di una moralità e di chissà quale fonte di purezza di natura quasi metafisica, teologica. Da un’ora all’altra, un’incarnazione delle istituzioni – derise, queste ultime, bistrattate, considerate ormai impresentabili solo fino al giorno prima – è in grado di compiere il miracolo, ed ecco che l’acqua sporca viene trasformata in aceto spacciato per vino.

Vengono in mente le parole di Leonardo Sciascia e il suo romanzo Il contesto. Parlando dell’inesistenza dell’errore giudiziario, a un certo punto il presidente della Corte Suprema, il giudice Riches, dimostra all’attonito ispettore di polizia Rogas, il rapporto mistico che lega il giudice al prete, partendo dal mistero della transustanziazione durante la messa: dal momento in cui il pane e il vino diventano corpo, sangue e anima di Cristo.

“Il sacerdote può anch’essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dell’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore, ma nel momento in cui celebra, non più”.


Anche al presidente Napolitano, il miracolo della rimozione delle colpe (equivalente politico del mistero religioso) è perfettamente riuscito. In una sola celebrazione, ha fatto dimenticare agli italiani: che da due anni non sono governati da un governo regolarmente eletto (e che per altri anni non ne avranno); la sua responsabilità per avere messo al potere un uomo come Monti, a fedele servizio del più feroce neoliberismo; la torbida vicenda delle sue intercettazioni telefoniche con Nicola Mancino, legate all’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, distrutte il giorno stesso del rinnovo del suo giuramento; la pagliacciata dei dieci saggi. In aggiunta, è riuscito a congelare, se non proprio rimuovere, la rabbia popolare di fronte allo spettacolo dello schifo politico, in cartellone da decenni, attraverso la sua reprimenda ufficiale, paterna, teatrale. Un successo di pubblico e di critica a dimostrare quanto ancora gli italiani amino le melodie sentimentali. Basta appellarsi alla fede, e quando non basta, alla pura creduloneria.

Ma si parlava di giochino ben orchestrato. E anche di un certo cinismo, dal momento che il giochino è stato interamente costruito sul ricatto morale, cavalcando così uno dei capisaldi del cattolicesimo: lo spirito di sacrificio. Per via dell’età, Napolitano era senza dubbio l’uomo giusto. ‘Costringerlo’ a ritornare malgrado la sua volontà, dopo che ripetutamente aveva detto di non sentirsela per ragioni anagrafiche, è indubbiamente apparso agli italiani come una violenza inaccettabile. Una dinamica emotiva che ha contribuito a rimuovere (ancora questo verbo) dalla loro percezione la violenza che in realtà essi stessi stavano subendo. Secondo Pierre Bourdieu, lo Stato non è solo, come sosteneva Weber, il luogo in cui si concentra il monopolio della violenza legittima, ma è anche il punto in cui la violenza fisica e quella simbolica s’incontrano e s’intrecciano. Ed è proprio l’assunzione del monopolio di quest’ultima a legittimare, nella testa dei cittadini, l’uso della violenza fisica.

È grazie all’insinuazione pressoché occulta di tale forma di oppressione, che lo Stato riesce a ottenere il consenso, l’adesione ai principi fondamentali dell’ordine sociale. In un altro Paese basterebbe questo, ma da noi, visto il livello di corruzione e di inettitudine dei politici, occorre l’additivo mediatico del sentimentalismo.

Sta di fatto che ha funzionato. Legittimato dal proprio sacrificio, quando Napolitano ha dichiarato senza mezzi termini di pretendere maggiore responsabilità dalle parti politiche – e, qualora questa non fosse arrivata, di trarne le conseguenze di fronte al Paese – è stato chiaro che stava arrivando una minaccia ancor più ferale dello spread. Un ricatto morale talmente vincolante che immediatamente è stato prontamente cavalcato con successo da Berlusconi che su quel ricatto ha montato il proprio, di far saltare il governo se lui non otterrà quello che vuole.

L’impianto retorico del discorso di Napolitano è stato ben costruito. Prima di arrivare al punto politico, ovvero alla ennesima fumosa richiesta delle famigerate riforme, si è appellato agli italiani, ma venendo meno alla consueta prosopopea di cui i discorsi ufficiali si ammantano; non ha, cioè, evocato (almeno all’inizio) quelle realtà che all’atto pratico brillano per la loro vuotezza, a cui in genere si appellano i discorsi ufficiali: gli Italiani, la Patria, la Nazione, i Cittadini… O meglio, lo ha fatto ma rifornendole di un corpo, di un ambiente, di un peso romanzesco, quindi: narrativo.

“[…] È un segno di rinnovata fiducia che raccolgo comprendendone il senso […] e cioè la fiducia e l’affetto che ho visto in questi anni crescere verso di me e verso le istituzioni che rappresentavo, tra grandi masse di cittadini, di italiani, uomini e donne di ogni età e di ogni regione, a cominciare da quanti ho incontrato nelle strade, nelle piazze, nei più diversi ambiti sociali e culturali, per rivivere insieme il farsi della nostra unità nazionale”.


Bello, se non fosse che da venticinque anni la parola ‘unità nazionale’ va ben oltre la frase fatta, soprattutto quando è evocata dalla politica. E il fatto che appaia in un periodo di crisi economica, politica e culturale, in quel luogo, da quella persona, ovvero dal migliorista per eccellenza, da un uomo proveniente dalla destra del Pci e che dalla morte di Berlinguer in poi ha fatto di tutto per annientare il pensiero di sinistra e la politica in difesa dei lavoratori; il fatto che la formuletta ‘unità nazionale’ appaia in tale spettrale contesto, non può che mettere in allarme qualunque persona che lavori in cambio di uno stipendio.

Che cosa significa “rivivere insieme il farsi della nostra unità nazionale”?

Si tratta di una delle tante frasi tipiche dei grandi discorsi, i quali solo apparentemente cadono sulle teste da una dimensione neutrale, e che, al contrario, parlano alle forze politiche e ai poteri economici (che agiscono come un sol uomo), e, al contempo, si indirizzano al cittadino elettore. Per i primi, la bella frase significa continuare con: la riforma costituzionale, il risanamento della finanza pubblica, il risanamento del debito pubblico, lo sviluppo, l’Europa, la defiscalizzazione, l’aumento della flessibilità, la politica industriale moderna, le privatizzazioni, il patto di fiducia, il mercato unico, i finanziamenti alle missioni di pace…

Al secondo, invece, intima di sospendere per un attimo la faziosità, di lasciare da parte le aspettative politiche di una difesa dei suoi interessi, e di sottomettersi alle esigenze collettive. Sarebbe a dire, di accettare il governo delle larghe intese che verrà, perché il momento difficile lo richiede, così come richiede sacrifici e pazienza.

Max Weber, nel suo Economia e società, definiva ‘Profeti etici’ quegli uomini che, investiti dell’ufficialità – e quella di Napolitano è la più alta forma dell’ufficialità di Stato – ricevono dalla comunità la missione di parlare a nome di tutta una nazione e delle varie forze politiche. Questi personaggi appaiono – con la propria autorità e con quelle vesti regali piene di nobiltà che i media di palazzo cuciono loro addosso sin dal momento dell’investitura – quando gli strappi tra le forze politiche si fanno troppo larghi per poter essere riparati; quando, cioè, la finzione dell’opposizione democratica, messa in scena dai partiti per blandire ognuno il proprio elettorato – necessaria per rendere credibile il Parlamento e la sua funzione di rappresentanza delle varie parti sociali del Paese – ha raggiunto un livello tale di menzogna da non poter più essere rinnegata nei fatti: pena la perdita del proprio patrimonio di voti.

In sostanza, è quanto sta accadendo al Pd che, da questo punto di vista, ha toccato il punto di non ritorno.

Se oggi le forze politiche sono state costrette a mettere in scena il teatrino della rielezione di Napolitano, lo si deve in gran parte alla difficoltà vissuta dal centro-sinistra di tenere insieme la propria storia con le nuove scelte politiche. Da questa contraddizione insanabile deriva l’incessante e sfinente ricerca di un’identità da parte di un partito gestito da dirigenti opportunisti e ipocriti che da trent’anni, dalla svolta della Bolognina in poi, tentano di tenere insieme la scelta di allearsi politicamente con Confindustria e con il potere finanziario, con la pretesa di non dilapidare la poderosa massa di manovra, costituita dal proprio elettorato (che ancora conta un 23%), ereditata dal vecchio Pci. Peccato che delle ragioni che stavano alla base dell’esistenza stessa del vecchio Pci – difesa dei diritti lavorativi e dei beni sociali – niente è rimasto vivo.

Arrivano così, oggi, fatalmente al pettine, i nodi di questo atteggiamento che – e può ben essere assunto a simbolo di una deriva – ancora viene portato avanti da Enrico Letta, nel momento in cui, all’assemblea del Pd, insistendo nell’ipocrisia, dice: “Questo non è il governo per cui ho lottato, non è il mio governo ideale e nemmeno il presidente del Consiglio ideale”. Fingendo che un governo che si rappresenta come l’equilibrio di svariati interessi privatistici, in continuità con la squadra di Monti, sia stata la realizzazione di un obbligo, e non il risultato di un progetto inconfessabile. E com’è d’uso, anche questo Profeta etico, per quanto minore, si esprime attraverso la retorica virtuosa del sacrificio, dovuto, anche per lui inevitabile. Quasi a elevarsi a esempio morale a giustificazione dei sacrifici – quelli sì, autentici – che vivono e continueranno a vivere i lavoratori italiani. E nel farlo, i dirigenti del Pd insistono con l’ipocrisia, come se l’unica scelta da giustificare fosse la formazione di un esecutivo con Berlusconi. Ma qui non si tratta solo di rendere conto di una decisione difficilmente digeribile alludendo alla gravità del momento. In fondo dall’inizio del bipolarismo, il centro-sinistra ha mostrato senza più possibilità di equivoco che l’opposizione alla destra è solamente una facciata; e che l’antiberlusconismo dei vent’anni che sono seguiti, è servito solamente a velare l’abbraccio alle politiche neoliberiste. Ormai si tratta di altro.

La solare ipocrisia dimostrata dopo l’insediamento di Enrico Letta, anche piuttosto ingenua, è più grave perché va a intaccare in profondità la fiducia degli elettori. E lo fa per un paio di ragioni ben più importanti.

Innanzi tutto perché rinnova la pessima abitudine di negare nei fatti il programma elettorale con cui ogni volta ci si presenta alle elezioni. E poi dimostra un altro atteggiamento inaccettabile perché legato a un bieco opportunismo politico, non dissimile da quello in genere attribuito alla destra.

Non ha fatto certo una buona impressione, infatti, il modo con cui il Pd ha scaricato senza indugi l’alleato Vendola, grazie ai cui voti ha potuto presentarsi da Napolitano, per quanto inutilmente (l’attuale presidente della Repubblica non ha mai dato l’impressione di gradire un esecutivo di centro-sinistra con alleanze a sinistra), come primo partito emerso dalla contesa elettorale. Un’alleanza che pure al leader di Sel è costata un consistente travaso di consensi, e che adesso, scaricato, lo costringerà a recuperare terreno nei confronti di chi gli aveva tolto la fiducia disertando le urne o buttandosi in braccio a Grillo.

La lunga e appassionata sfuriata televisiva dell’appiedato Vendola, il giorno dell’assemblea del Pd, è stata emblematica del suo livello di frustrazione, e ha fatto tornare alla mente i richiami della risicata compagine della cosiddetta sinistra radicale quando gli chiedeva, in piena campagna elettorale, cosa ci facesse insieme al Pd. Adesso la risposta è arrivata!

Difficile quindi pensare a una maniera più efficace per tracciare un’enorme distanza tra il partito e i suoi sostenitori.

Chissà se con quest’ultima mossa il Pd si è definitivamente giocato la testa, o se l’attuale scontro interno tra fazioni riuscirà a ridare speranza e fiducia in una improbabile marcia indietro al suo popolo. Certo è che le due maschere indossate negli ultimi trent’anni dagli attuali dirigenti – neoliberista nei fatti, socialdemocratica in campagna elettorale – per abbindolarlo, sono la vera causa dello stallo politico di oggi nonché l’origine e la ragione del teatrino di Stato di cui Napolitano è stato primo attore. Troppe volte la paura di una vittoria di Berlusconi ha indotto la gente di sinistra a votare turandosi il naso, per poi troppe volte scoprire di essere stata presa in giro. E l’impressione era che la ripetizione di questa dinamica, una volta di più, sarebbe stata fatale al centro-sinistra. Perché ciò non accadesse, è stato riesumato Giorgio Napolitano.

E così, il Profeta etico, con la pompa magna che lo precede, è sceso a mettere a posto le cose. Ha ristabilito l’ordine dei valori supremi coprendo per un giorno di più la realtà delle cose e mantenendo inalterato il sistema.

Sarà stato anche un gesto disperato (e non sarà l’ultimo), ma indispensabile perché la politica uscisse dallo stallo senza dare l’impressione di avere sollevato il dito medio in faccia agli italiani. Perché questi ultimi continuassero a credere nel supremo valore democratico del voto.

Add comment

Submit