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La voce del padrone

di Sandro Moiso

Una creatura nata morta. Riportata in vita e mantenuta in una sorta di coma terapeutico soltanto grazie a una incubatrice gestita, da cinquanta giorni a questa parte, da un infermiere quasi novantenne. Questo è il governo delle larghe intese di Enrico Letta. Un governo sempre più paralizzato, impossibilitato ad intervenire sulle conseguenze di una crisi economica devastante e, soprattutto, incapace di prendere qualsiasi tipo di provvedimento ispirato, anche solo lontanamente, ai bisogni di milioni di giovani e lavoratori, occupati, disoccupati e precari,  italiani.

Un mostro uscito dal peggior cinema di fantascienza giapponese oppure dalle tavole catastrofiche ed allucinate di Katsuhiro Ōtomo*. Un corpo politico e amministrativo che in tutte le sue componenti, anche le più periferiche, assume un comportamento che definire bipolare  è ancora poco. Un’attitudine comunicativa che si muove tra una falsa sicurezza per la durata del Governo e la sua capacità operativa (sempre più compromessa dalle sentenze degli ultimi giorni) e la disperazione per la situazione del lavoro e dell’economia nazionale e per le sue più che probabili conseguenze sociali.

  Il Ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni,  ha affermato che “la crisi attuale è peggiore di quella del ‘29”, ma è difficile dire se tale affermazione volesse giustificare le difficoltà del Governo, legate principalmente alla sua composizione, oppure costituisse la presa d’atto di un dato di fatto ormai scontato per numerosi economisti.

Mentre Jacopo Morelli, presidente dei giovani industriali riuniti nel convegno annuale di  Santa Margherita Ligure, ha affermato che: ”Senza prospettive per il futuro, l’unica prospettiva diventa la rivolta. Le istituzioni democratiche vengono contestate e possono arrivare alla dissoluzione, quando non riescono a dare risposte concrete ai bisogni economici e sociali”.

 Affermazioni che sono ricorse , magari in forme  e da fonti differenti, più volte nell’ultimo periodo e che, sinceramente, sembrano oggi ripetute fino alla nausea dopo l’ubriacatura di ottimismo montiano ormai seppellito con i professori della Bocconi, nonostante il ritorno, in alcune sporadiche interviste televisive, del Prof. per eccellenza. Eppure, eppure… queste parole, che sembrano voler prendere atto della gravità della crisi in atto e delle sue possibili conseguenze sociali, non nascondono altro che una seconda fase dell’offensiva contro i giovani e i lavoratori che il governo attuale, senza dubbio debole ma sicuramente autoritario, intende mettere in atto.

 Se nella Fase 1 (definizione utile ad individuare, per comodità, l’azione del governo Monti dall’autunno del 2011 ai primi mesi del 2013) si è operato a beneficio delle banche e della finanza, attaccando direttamente i risparmi e le garanzie sociali degli italiani (pensioni, sanità, etc.), con la Fase 2 (quella apertasi con il governo delle larghe intese presieduto da Enrico Letta, voluto e benedetto da Papa Giorgio) si è passati direttamente ad operare a beneficio delle imprese (piccole, medie e grandi), attaccando direttamente i costi del lavoro e le leggi che ne regolamentano le condizioni.

 Mentre nella Fase 1 gran parte dell’attenzione si era concentrata, per quanto riguardava il lavoro, intorno alla difesa o meno dell’articolo 18 (già riguardante un numero tutto sommato esiguo di lavoratori), oggi l’azione del governo è diretta a sradicare qualsiasi ostacolo alla libertà dell’impresa di assumere e licenziare chi e quando vuole, prolungando all’infinito la possibilità di promulgare i contratti a termine e abbattendo sia i costi diretti del lavoro (salario) che quelli indiretti ( oneri sociali, sicurezza). Così la tanto sbandierata azione a favore dei giovani e del lavoro, collegata al cosiddetto Decreto del Fare, non è altro che un’azione tutta rivolta a lasciare mano libera alle imprese, in tutti i sensi.

 D’altra parte cosa possono nascondere le parole di Sergio Marchionnequando afferma che “l’Italia nell’economia globale non è più interessante come mercato di consumo” oppure “chiediamo che ci lasci liberi di lavorare (NB: il governo) senza ostacoli”? Di fatto una esplicita richiesta che il nostro paese diventi un paese di produttori a bassissimo costo (come il cosiddetto terzo mondo di un tempo).

Elencare qui e, conseguentemente, commentare gli ottanta punti contenuti nel Decreto Sviluppo approvato in questi giorni, richiederebbe troppo tempo e troppo spazio. Così si è costretti a restringere l’analisi ad alcuni punti tra quelli tanto sbandierati, la cui efficacia, non ci si può esimere dal ripeterlo, tornerà soltanto a vantaggio delle imprese. Ma , per farlo, è utile tornare ad utilizzare strumenti critici immeritatamente abbandonati alla polvere da troppo tempo, a favore di un nuovo sospetto e poco efficace.

 Certo uno degli argomenti che colpiscono di più l’immaginario è quello delle difficoltà che le imprese incontrano quando devono far ricorso al credito, soprattutto se piccole. Su questa difficoltà, il cosiddetto credit crunch,  si tende a costruire una sorta di unità di intenti e di bisogni tra lavoratori, giovani e impresari tutti alle prese con le stesse difficoltà nei confronti delle banche e del credito. “Siamo tutti sulla stessa barca” può affermare così, falsamente, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Tutti preoccupati dal fatto che il credito invece di favorire mutui per l’acquisto della prima casa o prestiti per investimenti produttivi, soprattutto in una fase di crisi, finisca invece con l’essere diretto verso la speculazione finanziaria.

 Rosa Luxemburg, però, scriveva già nel lontano (?) 1898, in un articolo significativamente intitolato “Riforma sociale o rivoluzione?”:

Se le crisi, com’è noto, traggono origine dalla contraddizione tra la capacità e la tendenza espansiva della produzione e la limitata capacità di consumo, il credito è il mezzo più idoneo a portare tanto più spesso questa contraddizione alla fase critica. Anzitutto esso accresce enormemente la capacità di espansione della produzione e costituisce la forza motrice interna, che la spinge continuamente a oltrepassare i limiti del mercato. Ma esso agisce in due sensi. Dopo aver, come fattore del processo produttivo, provocato la superproduzione, durante la crisi, nella sua qualità di intermediario dello scambio, dà il colpo di grazia alle forze produttive, che esso medesimo ha risvegliato. Al primo segno di un ristagno, il credito si contrae, pianta in asso lo scambio là dove esso sarebbe necessario, si dimostra inefficace e senza scopo là dove si offre ancora e riduce così al minimo durante la crisi la capacità di consumo.

 Oltre questi due risultati più importanti, il credito agisce ancora in diversi modi in relazione col determinarsi delle crisi. Non soltanto esso offre il mezzo tecnico per mettere dei capitali altrui a disposizione di un capitalista, ma lo sprona ad impiegare con audacia e senza scrupoli la proprietà degli altri persino in speculazioni arrischiate. Non soltanto acuisce la crisi come mezzo infido di scambio delle merci, ma ne facilita lo scoppio e l’estensione in quanto trasforma tutto lo scambio in un meccanismo artificioso ed estremamente complesso, con una quantità minima di moneta aurea come base reale, e provoca così una una perturbazione per ogni minimo motivo.

 Così il credito, ben lungi dall’essere un mezzo per evitare o anche solamente attenuare la crisi è, tutt’al contrario, un fattore determinante particolarmente importante delle crisi. E del resto non potrebbe essere altrimenti. La funzione specifica del credito – esprimendoci in termini generali – non è altro infatti che quella di eliminare da tutti i rapporti capitalistici ciò che ancora rimaneva in fatto di stabilità, di introdurre dovunque il massimo possibile di elasticità e di rendere al massimo grado malleabili, relative e sensibili tutte le forze capitalistiche. Che in tal modo le crisi, le quali non sono altro che il cozzo periodico delle forze reciprocamente contrastanti dell’economia capitalistica, non possano essere che facilitate ed acuite, è cosa che salta agli occhi” ( Rosa Luxemburg, op.cit. in Scritti Politici Vol.1, pp.170 – 171, Editori Internazionali Riuniti, 2012).

 L’articolo della Luxemburg era rivolto, già allora, a criticare le posizioni riformistiche di Eduard Bernstein, uno dei fondatori del revisionismo in seno alla Socialdemocrazia tedesca e contrario all’abbattimento violento del potere dello Stato e del Capitale; ma è facile vedere come in esso fossero già rinvenibili le tracce di tutto ciò che sarebbe  avvenuto in seguito e, in particolare, nel corso dell’ultima crisi, iniziatasi nel 2008 (mutui sub-prime americani, affaire Enron, speculazioni finanziarie e chiusura attuale dei rubinetti del credito in Europa e, domani, negli USA  per opera della Fed, solo per fare degli esempi).

 Sempre gli stessi giovani di Confindustria, più sopra citati, hanno poi invitato il governo attuale “a dare un progetto  concreto di futuro, a disegnare l’Italia che sarà tra 10 anni [...] La capacità di visione per un leader è essenziale. Non un governo che faccia miracoli ma che agisca sulla competitività del Paese “. Le prime mosse dell’esecutivo non sembrano convincere però i giovani imprenditori, poiché più che l’Imu, la priorità dovrebbe essere costituita dal ”livello di tassazione su lavoro e imprese“.

 Ecco, prima di tutto le tasse e in particolare quelle sul lavoro. Altro tema coinvolgente, dal punto di vista di Squinzi. Peccato, però, che da una detassazione del lavoro salariato, poco abbiano da guadagnare i lavoratori dipendenti (poche decine di euro in più in busta paga in cambio di una ulteriore sensibile riduzione dei servizi prestati in futuro dallo Stato a causa delle minori entrate) e molto gli imprenditori che vedrebbero, di fatto, abbassato il costo del lavoro. Insomma, milioni di euro di guadagno per le imprese in cambio di pochi spiccioli per i lavoratori.

Non a caso la cosa piace a tanti, dalla Lega alla CISL e, ormai, anche alla CGIL e alla Sinistra istituzionale come abbiamo potuto ben capire dai discorsi fatti in Piazza San Giovanni, il 22 giugno scorso, in occasione della manifestazione nazionale unitaria dei sindacati. Tutti uniti nel  far fronte alla crisi. Tutti schierati con gli imprenditori. Tutti sulla stessa barca. Nessuna richiesta di aumenti salariali, nessuna richiesta di riduzione dell’orario di lavoro, nessuna richiesta esplicita di una severa patrimoniale progressiva. No, i posti di lavoro verranno creati, se saranno creati, esclusivamente a spese dei lavoratori.

 Tutti insieme appassionatamente a difendere l’economia nazionale e i diritti dell’impresa e del profitto. La società dello spettacolo portata alle sue più estreme e nefaste conseguenze: il lavoro trasformato da attività creatrice tipica della specie ad assunto dell’immarcescibilità del capitale e dei suoi sacri valori. Lavoro, lavoro! A qualsiasi costo per i disoccupati e purché scarsamente retribuito, a vantaggio degli imprenditori. Evviva! Bravi!! Solidali con le leggi del Capitale!!!

 Tanto che il vero pericolo, oggi, è costituito dal non  saper più riconoscere e denunciare l’autentica lue della borghesia italiana, da Giolitti in avanti. Una borghesia vile, profittatrice, capace di espandere i propri profitti soltanto attraverso il basso costo del lavoro e le prebende statali; capace di affondare quelle sue stesse componenti che avrebbero voluto seguire un percorso diverso, magari basato sulla ricerca, l’investimento tecnologico e un diverso rapporto con i lavoratori (Adriano Olivetti, tanto per fare un nome); incapace di liberarsi dal legame politico ed economico che la legano, a doppi e triplo filo, con le mafie locali fin dai tempi dello “statista” cuneese; capace soltanto di barcamenarsi in continui giri di valzer tra un possibile alleato e l’altro (oggi l’Europa, domani gli USA  e viceversa), senza mai potersi permettere un’autonoma politica estera (troppo impegnativa per la classe dirigente, da sempre, più vile del pianeta); capace di spacciare per machiavellismo ciò che è soltanto desiderio di abbuffarsi a spese altrui, senza correre troppi rischi; bigotta e lasciva allo stesso tempo come un programma televisivo domenicale per famiglie; che ha finito col far prevalere un’opposizione (politica e sindacale) costruita a sua immagine e somiglianza: piagnona, falsa, accattona e rapace (sempre a spese dei lavoratori).

 La legittima soddisfazione per la condanna di Silvio Berlusconi, emessa dal Tribunale di Milano,  non deve perciò far dimenticare il marciume ideologico, morale, economico e politico che caratterizza nel suo insieme l’intera classe dirigente italiana fin dalle sue origini, perché altrimenti si finirebbe col rendere credibili le bugie e le millanterie dei nomi nuovi espressi oggi dalla stessa, da Letta a Renzi passando magari attraverso le confuse proposte di Grillo. Mentre un orecchio ben allenato all’ascolto dei suoni prodotti dal vociferare degli stessi e dei fin troppo numerosi cantori  o degli pseudo-critici del regime potrebbe rivelare senza ombra di dubbio che, in fin dei conti, quella che ascoltiamo è sempre la stessa musica, incisa sempre per la stessa etichetta discografica: His Master’s Voice, la Voce del Padrone.

Proprio mentre mi accingevo a scrivere la seconda parte di questo intervento ho letto, su un supplemento mensile del Sole 24ore, che “uno studio scientifico invita a diffidare di chi propone soluzioni radicali ai problemi più delicati: di solito non sanno di che cosa stanno parlando, sono solo ignoranti**. E io che pensavo che le molotov dei manifestanti brasiliani contro i municipi e i parlamenti regionali costituissero l’equivalente, in termini di sintesi di una teoria critica della società, della formula einsteiniana della relatività ristretta (E = mc²)!?!

 Ma forte del mio ignorante estremismo, corroborato, nonostante tutto, da una bella serie storica di ignoranti ed estremisti (da Karl Marx a Rosa Luxemburg e da Friedrich Engels a Amadeo Bordiga), ho deciso di continuare lo stesso a cercare di disvelare ciò che si nasconde in alcune semplicistiche affermazioni, collegate ai problemi della crisi e del lavoro, contenute nei più recenti non-provvedimenti governativi e in alcune affermazioni di principio di sindacati e movimenti, presunti, di opposizione.

Che i provvedimenti governativi varati negli ultimi tempi siano, a tutti gli effetti, dei non-provvedimenti è ormai cosa acclarata anche da i principali organi di informazione di regime. Il gioco delle tre carte con cui il governo Letta cerca di guadagnare tempo in attesa dei mitici miliardi di euro previsti in entrata dalle casse europee per il 2014 è sotto gli occhi di tutti. Il caso del rinvio del pagamento dell’Imu e dell’aumento dell’IVA grazie ad un saldo anticipato di Irpef, Irap ed altri balzelli oppure all’aumento di tasse su carburanti e sigarette (elettroniche e non) oltre che una più che probabile ulteriore operazione autunnale di spending review ha costituito soltanto la dimostrazione più eclatante di tale modo di procedere. Una paralisi assoluta travestita da agilità.

 Le casse dello Stato sono  evidentemente vuote e il remake di “Prendi i soldi e scappa”, realizzato dal governo Monti a favore delle banche e della finanza internazionale, inizia a dare i frutti previsti, mentre nel panico generale i partiti e gli uomini di governo cercano di mantenere la calma dietro un vuoto dibattito sulle vicende giudiziarie di Berlusconi, su chi sarà il futuro segretario del PD oppure sullo scontro tra falchi e colombe nella  formazione politica berlusconiana o, ancora, con l’ennesima bufala sulla possibile estradizione di Battisti dal Brasile. Tutto, naturalmente, col più grande aplomb da parte del premier più insipido che la Repubblica abbia mai prodotto.

 Gli annunci roboanti riguardanti gli ottanta punti del Decreto del fare, i provvedimenti europei previsti per affrontare la disoccupazione giovanile e, per finire, l’ultimo decreto su IVA e Lavoro, hanno rivelato chiaramente che la montagna (l’ennesimo Governo di salvezza nazionale) ha partorito un topolino. Che lascia insoddisfatti tutti, anche coloro che dovrebbero  esserne i maggiori beneficiari.

 Che si tratti di un gioco d’azzardo simile a quello operato da bari di scarso valore sulle piazza dei mercati è rivelato da tanti particolari. Prendiamo ad esempio l’intervento sull’istruzione. Si annuncia in maniera roboante che si favorirà un nuovo avvicinamento tra scuola e impresa grazie alle attività di tirocinio nelle imprese per gli allievi delle classi quarte, soprattutto degli istituti tecnici e professionali.   Peccato che tale attività, nota come stage di formazione, sia già in atto da anni nelle scuole professionali e tecniche, sotto il nome di alternanza scuola-lavoro. L’unica vera novità, ma in realtà non lo è neanche quella, sta nel fatto che essendo esauriti da tempo i fondi assegnati per tali attività il governo in carica ha pensato bene di trovarli falcidiando ulteriormente i fondi assegnati agli insegnanti per le attività non direttamente connesse alla didattica curricolare, i cosiddetti fondi di istituto. Con buona pace della ministra carrozza e della sua “ferma opposizione a qualsiasi ulteriore taglio alla scuola pubblica”!

 Vale la pena di fermarsi ancora un momento su questa iniziativa, poiché ha raccolto il plauso soprattutto del PD, convinto di operare in vista di una scuola più attenta ai bisogni delle imprese e del lavoro, di una scuola più tedesca. Dimenticando che in Germania il rapporto tra scuole tecniche e imprese non è solo affidata ad una variazione del 20 – 25% dei programmi curriculari delle singole scuole, ma ad un fermo impegno, anche finanziario, delle imprese nei confronti degli istituti che ad esse si collegano. Qui, in compenso, ma nessuno lo dice, con la scusa della liceizzazione (a partire dalle riforme dell’allora ministro alla Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer e, forse, già anche prima con la chiusura dei laboratori di Officina nel biennio iniziale dei tecnici) si sono progressivamente ridotte le ore e le spese inerenti ai laboratori tecnici così importanti ai fini di una seria formazione tecnica e professionale. Ma si sa, in una nazione in cui l’unica aspirazione degli imprenditori è quella di avere una manodopera sempre meno qualificata e sempre più a basso costo, questa non con serve e non conta.

Anzi sempre più spesso si ha l’impressione che il lento, ma inesorabile passaggio dall’istruzione professionale statale alla formazione professionale regionale non preluda ad altro che a trasformare le attuali scuole tecniche e professionali nell’equivalente del vecchio avviamento professionale, messo definitivamente a dormire dall’avvento della scuola media unica nei primi anni sessanta. Un percorso di formazione più breve e già intriso di prestazioni lavorative sottopagate sotto forma di apprendistato. Nelle piccole e medie imprese. Di cui si continuano a cantar le lodi, dimenticando il ruolo reale assegnato loro dal percorso dello sviluppo ( ma vogliamo proprio ancora chiamarlo così?!) capitalistico. Per comprenderlo può essere utile fare riferimento, ancora una volta, a un testo di Rosa Luxemburg del 1898, già precedentemente citato.

Il medio ceto capitalistico, si trova, proprio come la classe operaia, sotto l’influenza di due opposte tendenze, una che tende ad innalzarlo ed una che tende ad abbassarlo. La seconda è nel caso in questione il costante elevarsi del livello della produzione, che supera periodicamente i limiti dei capitali medi e li esclude sempre da capo dalla concorrenza. La prima è data dal deprezzamento periodico del capitale esistente, che abbassa sempre da capo per un lasso di tempo il livello della produzione a seconda della entità del necessario capitale minimo, come pure dall’estendersi della  produzione capitalistica a nuove sfere. Il duello della media azienda col grande capitale non dev’essere immaginato come una battaglia regolare, nella quale la truppa della parte più debole si riduce sempre di più, direttamente e quantitativamente, ma piuttosto come una falciatura periodica dei piccoli capitali, che poi sempre rapidamente ricrescono per essere nuovamente falciati dalla falce della grande industria. Delle due tendenze che giocano a palla con il medio ceto capitalistico, in ultima analisi vince la tendenza depressiva. Ma essa non ha assolutamente bisogno di manifestarsi nell’abolizione numerica assoluta della media azienda, bensì in primo luogo nell’aumento progressivo del capitale  minimo, necessario alla sopravvivenza delle imprese nelle vecchie branche, in secondo luogo nel periodo di tempo sempre più breve durante il quale i piccoli capitali possono sfruttare per conto loro le branche nuove. Ne deriva per il piccolo capitale individuale un periodo di vita sempre più breve  e un trasformarsi sempre più rapido dei metodi di produzione e dei modi di impiego, e per la classe nel suo complesso un ricambio sociale sempre più rapido.

 [...] in tal modo è stabilita anche la legge medesima del movimento delle medie aziende capitalistiche. Se i piccoli capitali sono le truppe d’avanguardia del progresso tecnico, e se il progresso tecnico è il polso vitale dell’economia capitalistica, i piccoli capitali costituiscono evidentemente un fenomeno collaterale inseparabile dello sviluppo capitalistico, che può scomparire soltanto insieme a quest’ultimo. La scomparsa graduale delle medie aziende [...] significherebbe non il processo di sviluppo rivoluzionario del capitalismo, ma proprio il suo ristagno e il suo intorpidirsi” (R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, Editori Riuniti, 2012, pp. 177-178).

In altre parole, mentre la concentrazione finanziaria e industriale opera per la caduta in letargo dello sviluppo capitalistico, la piccola e media azienda, nella loro disperata battaglia per mantenersi a galla e sviluppare nuove prospettive di quote di mercato e dinamiche produttive, determinano la continuità dello stesso, in una sorta di simbiotica e complessa battaglia per la sopravvivenza. Che, però, la crisi accentua in maniera drammatica.

 Ecco allora che se per la grande azienda diventano importantissime le prebende statali, il mercato azionario e l’azione bancaria di supporto, per la piccola e media azienda diventano importantissime le azioni volte a ridurre i costi del lavoro e delle tecnologie necessarie alla produzione.  Si spiega così il piagnisteo delle PMI sui costi del lavoro e le risposte in tal senso che i governi della crisi hanno iniziato a dare. Quando sentiamo che in Albania operano ormai decine di piccole e medie aziende italiane che approfittano di salari medi intorno ai 300 euro per fornire al mercato un prodotto competitivo con quello cinese (per qualità, costo e tempi di realizzazione e consegna), capiamo qual è il destino dei lavoratori italiani.

 Non solo dal punto di vista salariale, poiché nel decreto del fare oltre che provvedimenti tesi a favorire i prestiti alle aziende per l’acquisto di nuovi macchinari o a facilitare la realizzazione di nuovi edifici ignorando i limiti di sagoma precedenti, si è inserita anche una norma che permette alle aziende di auto-certificare la sicurezza dei cantieri, anche là dove operano imprese diverse e, quindi, aumentano i rischi…ma si sa, sicurezza e prevenzione rappresentano un costo che, con questi chiari di luna, è meglio tagliare.

 Anche su scala europea, soprattutto per i giovani, le cose non sembrano andare meglio. Tutto sommato l’unica proposta concreta uscita dal vertice europeo sull’occupazione giovanile sembra essere quella di tornare a favorire, anche con incentivi dai 250 euro per un colloquio di lavoro fino a 1200 per un trasferimento per motivi di lavoro, l’emigrazione verso altri paesi europei (Germania) dei giovani disoccupati dei paesi più in crisi (Spagna, Italia, Portogallo).

 Ciò non costituisce una novità per la politica italiana, ma, anzi, un autentico ritorno alle politiche democristiane del 1947, quando, in un solo anno, l’allora Ministro del lavoro e della previdenza sociale Amintore Fanfani stipulò   cinque diversi accordi con Francia, Belgio, Svezia, Argentina e Cecoslovacchia per permettere l’invio di manodopera italiana in  quei paesi (accordi che furono all’epoca definiti come “braccia in cambio di carbone”), seguiti poi da quelli degli anni cinquanta con Germania e Gran Bretagna.

 Certo, oggi, sembra differente il target costituito dai nuovi migranti (diplomati e/o laureati), ma sostanzialmente la soluzione occupazionale non cambia, anche se forse sarebbe meglio ridefinire il tutto, invece di “Erasmus”, con “braccia e cervelli in cambio di fondi europei”. Tanto per gli esclusi rimarrà il nuovo incentivo mensile di 650 euro, per dodici mesi, per le aziende che, soprattutto al Sud, assumeranno a tempo indeterminato i giovani tra i 18 e i 29 anni privi di licenza media o di istruzione superiore, magari con persone a carico e non residenti con i genitori. Per questo motivo, nel nuovo decreto, sarebbe stato meglio parlare di “fondi per i desperados”, destinati chiaramente ad essere pagati poco più dell’incentivo offerto dallo stato alle imprese che li assumeranno.

Appare perciò veramente logora la retorica di Enrico Letta che, mentre finge di spronare le imprese ad investire ( e quando mai lo hanno fatto negli ultimi anni?), sa benissimo che il miliardo e mezzo di euro strappati all’Europa (probabilmente in cambio della fornitura di forza-lavoro intellettuale a basso costo, come si diceva più sopra, per i paesi più ricchi) finiranno coll’essere distribuiti a pioggia tra imprese “amiche” o ad hoc per contratti destinati a finire col finanziamento stesso. Altro che assunzioni a tempo indeterminato!

In tutto questo può esserci davvero qualcosa che accomuni gli interessi delle imprese, anche piccole, a quelli dei giovani e dei lavoratori? Non occorre pensarci su troppo, la risposta è semplice: NO! Proprio per questo motivo sarebbe meglio ripensare quelle parole d’ordine un po’ avventate di coloro che, pur mossi dalle migliori intenzioni, finiscono col rimanere irretiti nelle maglie dell’ideologia filo-capitalistica e nazionalista e di cui, ad esempio, le proposte di uscita dall’euro e dall’Europa costituiscono un contraddittorio aspetto.

 Se si valutassero con attenzione queste proposte ci si accorgerebbe che tra i loro fautori non  soltanto ci sono anche leghisti beceri e fascisti di ogni risma, ma pure i rappresentanti del mondo delle imprese (tra cui, indirettamente, il solito Sergio Marchionne) che da una svalutazione dell’euro o dal ritorno alla lira godrebbero di indubbi vantaggi commerciali e di esportazione del proprio prodotto. A danno di chi? Dei soliti lavoratori italiani naturalmente, il cui  lavoro sarebbe immediatamente e  ulteriormente svalutato  nel momento in cui un salario in lire non potrebbe far altro che ridurre ancora la loro capacità di acquisto  di beni di consumo. Il populismo, Grillo ne è la dimostrazione più evidente, striscia soltanto nelle vicinanze degli interessi dei lavoratori, ma alla fine tende a propendere sempre dalla parte del capitale e delle aziende .

 Non è stata vantaggio dei lavoratori la scelta di entrare in Europa e nell’euro, è chiaro, ma oggi  una richiesta di uscita non può essere considerata prioritaria da un punto di vista classista poiché servirebbe soltanto a far precipitare nella povertà e nel nazionalismo più becero i disoccupati e i lavoratori dipendenti. Separandoli dai loro compagni “di classe” europei. In fin dei conti il dittatoriale Erdogan su una cosa aveva ragione nei giorni scorsi, quando ha affermato che “in Turchia e in Brasile gli organizzatori della protesta sono gli stessi”. Sì, sono i lavoratori e i giovani stufi di soprusi, corruzione ed ingiustizie. Stufi di pagare un debito non loro, (non importa se in real, euro o lire turche), stufi di dipendere dalle promesse di leader autoritari ed inconcludenti, stufi della società del capitale, dei suoi sprechi e delle sue distruzioni.

Le parole d’ordine ci sono già tutte (sospensione o ricontrattazione del pagamento del debito pubblico accumulato attraverso i titoli di stato, sospensione delle spese e delle missioni militari, cessazione degli investimenti nelle grandi opere inutili, patrimoniale severamente progressiva, riduzione dell’orario di lavoro… solo per ricordarne alcune), non occorre cercarne altre per unificare le lotte che si muovono in questo senso dalla Val di Susa a Gezi Park, da Taranto ad Atene e da Smirne a Belo Horizonte. Perché è solo in questa unità di lotte e di intenti, e nella chiarezza che li determina, è possibile che si manifesti la difesa e l’affermazione degli interessi dei giovani, dei lavoratori  e, nel suo insieme, della comunità umana futura. 

 

* Autore del fumetto, e in seguito film di animazione, cult Akira (1988).

** Antonio Sgobba, Sei estremista? Be’, vuol dire che ti illudi di sapere, IL, giugno/luglio 2013, pag.24
 

Postilla metodologica sull’uso delle citazioni.

 L’uso della citazione di autori appartenenti alla migliore tradizione del movimento operaio e antagonista non ha e non deve avere nulla di talmudico o di sacrale. Piuttosto le citazioni, adeguatamente selezionate, devono avere la funzione di esprimere nella migliore e più chiara maniera possibile intuizioni, teorie, ipotesi e soluzioni riguardanti problemi complessi (e Dio solo lo sa se non è complesso tutto ciò che riguarda l’analisi politico-sociale delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico!), senza ricorrere ad inutili giri di parole o fumisterie filosofiche destinate soltanto a confondere le idee di chi legge. Certo, come avrebbe detto Amadeo Bordiga, “non si possono ridurre i macigni in pillole”, ma occorre tener conto che molti degli autori citati (Marx, Lenin, Engels, Luxemburg) scrivevano spesso per un pubblico di operai e di militanti e, proprio  per questo motivo, i loro scritti dovevano essere obbligatoriamente sintetici, chiari ed efficaci. Operai che spesso si erano formati o sulla stampa militante oppure, tra la fine dell’ottocento e il primo ventennio del ‘900, nelle scuole “di partito”. Spesso più efficaci e “colte” delle attuali scuole pubbliche. Un pubblico esigente e niente affatto codino, sempre pronto ad interagire nel dibattito politico e sindacale. Citazioni, quindi, come esempio di chiarezza, sintesi e intuizione rivoluzionaria, il cui contenuto e il cui stile possono risultare estremamente utili ancora oggi.

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