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Attualità del Manifesto per un soggetto politico nuovo

di Sergio Labate*

0. Premessa

A rileggerlo adesso, il Manifesto per un soggetto politico nuovo, a distanza di poco più di un anno, le cose appaiono non dico più semplici ma forse più chiare. Molti avvenimenti sono seguiti, a cominciare dalla scelta di strutturare quel percorso sotto il nome di ALBA. Dopo quella scelta c’è stata la partecipazione indiretta al progetto di Cambiare si può. Esperienza fallita, senza dubbio, ma il cui fallimento ha reso evidenti delle dinamiche che erano al centro della critica del Manifesto al sistema politico e che, ancor di più, sono emerse con forza grazie agli esiti elettorali di febbraio. È proprio da qui che bisogna partire per evocare quella chiarezza rivendicata: il Manifesto poneva direttamente al centro dell’azione politica una critica alle forme moderne della politica. Questa critica non era né ricostruttiva né riparatrice, ma radicalmente innovativa.  Per utilizzare una doppia immagine celebre[1], in quel Manifesto si sosteneva una direzione politica nel segno di un’utopia della fuga e non di un’utopia della ricostruzione. La diagnosi sulla crisi della politica era infatti impietosa e si traduceva in una altrettanto radicale prognosi: non è possibile usare le macerie del già esistente per riqualificare i soggetti politici. Resta soltanto da ricominciare da tutt’altra parte, non contando sull’agonia delle esperienze terminali. ALBA nasce proprio da qui: non dall’idea tradizionale di dover conquistare l’egemonia dello spazio politico tradizionale, ma dall’idea che gli stessi rapporti politici devono evadere dal proprio spazio o, ancor più precisamente, si sono già insediati in tutt’altro luogo. Non è una critica ai politici, ciò che emergeva, ma una radicale critica dello spazio politico.

Tra poco proverò ad attualizzare tale tesi fondativa. Intanto faccio solo due osservazioni che sull’intensa storia di questo primo anno.

Ad un primo sguardo infatti questa “utopia della fuga” che ha mosso il Manifesto poteva sembrare prematura allora ed attuale soltanto adesso, che l’implosione dei partiti tradizionali si è agita in tutta evidenza. Può darsi sia semplicemente così, in effetti. Ma temo che la natura di questa implosione sia tendenziale e non evenemenziale: c’è da contestualizzarla all’interno di un ciclo lungo che non è cominciato adesso e non è di certo ancora concluso. Per questo ogni metafora catastrofica mi lascia perplesso; perché essa tende a rassicurarci sul fatto che l’evento sia concluso: lo tsunami è passato, il terremoto ha finito le sue onde di assestamento, ecc. È invece nella forma di una tendenza che noi possiamo rivendicare al finale di partito un’irreversibilità storica – aldilà dei controsensi in cui le occasioni puntuali ci fanno precipitare.

Un’ulteriore osservazione. Il trauma dell’esperienza di Cambiare si può va letto precisamente nella prospettiva della eterogeneità spaziale rivendicata nel Manifesto e, problematicamente, può rappresentarne contestualmente una smentita e una conferma.

Una smentita, innanzitutto. Perché quel progetto non ha retto precisamente la chimica fredda di una composizione di soggetti morenti e soggetti non ancora nati. Ma a questo punto dovrebbe esser chiara anche un’altra cosa: che nella critica alle macerie non c’è affatto una semplice dimensione contingente né il rifiuto di una classe dirigente in nome di un imprecisato rinnovamento. Non è una questione di novità delle persone, ma di novità delle forme. È per questo che, laddove alcuni rivendicavano la necessità di modificare “le regole di selezione”, altri interpretavano tale necessità come una richiesta di modificare “i nomi da selezionare”. Su questo un peso rilevante ha avuto, credo sia opportuno riconoscerlo, un’ingenuità politica: non aver saputo indicare preventivamente delle regole che innovassero le forme e le pratiche di relazione politica ben aldilà della rivendicazione generica di un principio.

Una conferma, nonostante tutto. L’urgenza che ha fatto decidere di impegnarsi in quel progetto, bruciando i tempi necessari, si manifestava dinanzi all’evidente vuoto di rappresentanza credibile. Il finale di partito, a sinistra, non è certo cominciato adesso. Anche su questo, c’è un presupposto teorico che rende il progetto intrapreso, per certi versi, assai tradizionale. La rappresentanza perduta è anche una rappresentanza mancante: la critica alla democrazia rappresentativa è una critica democratica alla democrazia (e questo chiarisce i termini del posizionamento politico della proposta: rende evidente la sua distanza da ogni discorso puramente movimentista). C’è stata la necessità di svolgere una funzione vicaria, che rendesse abitate le macerie della sinistra della scena elettorale. Funzione malriuscita: pochi vogliono abitare dentro macerie così malridotte.

  1. Il tempo in cui le classi dominanti smettono di essere anche classi dirigenti

In un appunto celebre, Gramsci scriveva: «una classe è dominante in due modi, è cioè “dirigente” e “dominante”. È dirigente delle classi alleate, è dominante delle classi avversarie. Perciò una classe già prima di andare al potere può essere “dirigente” (e deve esserlo): quando è al potere diventa dominante ma continua ad essere anche dirigente»[2]

La critica alle forme di soggettività politiche consolidate può così leggersi a questo livello: se è vero quanto scriveva Gramsci, cosa succede quando le classi dirigenti, divenute dominanti, smettono di essere anche dirigenti? Gramsci suggerisce una risposta che concerne il Risorgimento ma che, credo, possa riguardare anche noi. Anche la crisi dei partiti è «uno dei casi un cui si ha la funzione di “dominio” e non di “dirigenza” in questi gruppi: dittatura senza egemonia».

È dentro questa deriva di «dittatura senza egemonia» che bisogna leggere la crisi del rapporto tra i partiti e il loro potenziale di rappresentanza. Il tentativo di ALBA parte dall’applicazione al nostro tempo della critica gramsciana, cercando però di radicalizzarla.

Ciò è tanto più vero quanto si riesca a riconoscere che siamo dinanzi ad un doppio fallimento con cui fare i conti: quello dei partiti novecenteschi ma anche quello dei partiti post-novecenteschi. La distinzione è assai preziosa, anche in prospettiva attuale. Per esempio, solo tenendo a mente contemporaneamente questo doppio livello si può giungere a capire quanta distanza vi sia tra la proposta di ALBA e quelle di Barca e di Vendola. Esse tendono a consacrare un modello di partito che è ancora quello post-novecentesco.

C’è un’ulteriore complicazione. Se ci si propone di contribuire alla costruzione di un soggetto politico nuovo, è proprio perché la doppia critica non è equidistante. In un certo senso vi è una maggiore simpatia per il partito novecentesco, piuttosto che per i suoi indegni eredi. Quest’ultimi si sono caratterizzati per la leaderizzazione che ha messo tra parentesi ogni prassi democratica all’interno della vita associata, per una governance centralizzata che ha sacrificato la tessitura di reti territoriali. Han preferito ritirarsi dalla carne viva della società. Hanno a tutti gli effetti esercitato un dominio senza proporre alcuna direzione. Tutte caratteristiche che sono oggetto di critica diretta dei documenti proposti da ALBA.

Sintetizzando: i partiti post-novecenteschi hanno sacrificato la rappresentanza in nome della delega (versione tardomoderna della dittatura senza egemonia). La condanna che emerge nei loro confronti, rileggendo il Manifesto, è senza appello. Al contrario, nei confronti dei partiti novecenteschi la condanna è altrettanto decisa e irrevocabile, ma forse sentimentalmente meno impietosa. Credo sia dovuto a un motivo di fondo.  La situazione attuale è tale che anche la democrazia costituzionale appare rivoluzionaria. È un paradosso teoricamente complesso, ma politicamente assai semplice. Non si tratta di fare una mitologia della costituzione, ma di riconoscerne la funzione di argine alla minaccia più evidente, che non è l’uscita dal moderno, ma il ritorno al pre-moderno (e che la lotta di classe stia scivolando sempre di più verso forme di schiavitù regolativa e di feudalesimo nemmeno troppo mascherato è sotto gli occhi di tutti). Allo stato attuale, persino la democrazia parlamentare rappresenta una teoria critica della società.

Ora, uno degli elementi più problematici di quest’avventura si annida in questo paradosso. Perché si tratta di salvare la centralità della rappresentanza senza decadere nel paradigma giudicato anacronistico del partito. Si tratta, come si annuncia sempre, di costruire un soggetto politico nuovo, la cui novità è garantita dal non essere un nuovo soggetto politico. E come si fa? Le indicazioni iniziali erano tutte estremamente suggestive: si fa partendo dalla vita intima dei soggetti e dei loro discorsi, adottando la differenza di genere come ritmo della vita politica, modificando i tempi dei discorsi e dei dialoghi, ripensando il significato stesso della decisione politica. Si fa trasformando-si, innanzitutto. Ma è evidente che su questo siamo, credo inevitabilmente, in difetto d’immaginazione. Le accuse che spesso vengono fatte ad ALBA di “comportarsi come un partito” sono così del tutto corrette, ma forse non sono veramente delle accuse. È chiaro che la costruzione di questo percorso abbia come suo rigido principio di verificazione quello di non divenire un partito, ma è altrettanto evidente che questa costruzione non può sacrificare il suo movente iniziale: contribuire a rifondare un modello di rappresentanza che limiti il più possibile il meccanismo della delega. Una democrazia integrata, per evocare un termine olivettiano. Riuscire in questo intento non è solo cosa difficile, ma è soprattutto cosa oscura. Le analisi teoriche sono assai indietro e non abbiamo modelli da imitare, a meno che non si scelga di imparare fedelmente dalle esperienze dell’America latina. Cosa del tutto ammissibile ma che io personalmente non condivido, perché se c’è un apporto specifico di ALBA mi pare essere precisamente quello di tentare di uscire dalla rappresentanza dei partiti senza però fuggire dall’eredità politica della modernità, che è anche l’età dei diritti: la trasformazione-conservazione della categoria di rappresentanza non è ancora una condizione necessaria per le rivendicazioni dei diritti?

Legittimamente, una parte della cultura politica di sinistra si sta orientando verso una “soppressione dello Stato” (non come momento conclusivo del processo rivoluzionario, piuttosto come punto d’inizio di forme di autogoverno e di autonomia). Tutt’al più esso appare un attore puramente antagonista, mai neanche neutro: sottrae diritti, peggiora le forme di vita, depaupera i territori, svilisce i rapporti di lavoro. Se una democrazia c’è, essa appare oggi contro lo Stato. Ecco, mi pare che la via che ALBA vorrebbe indicare è piuttosto quella di valorizzare la democrazia senza essere definitivamente contro lo Stato. E ciò segnala il motivo della distanza siderale tra questo progetto e le critiche indifferenziate alla politica. La politica appare oggi come corresponsabile della crisi sociale, ma la sua responsabilità non ne delinea un surplus di sovranità, piuttosto ne indica l’impotenza. La falsificazione delle responsabilità rischia di essere funzionale all’impunità trionfante dei veri mandanti. Così criticare la politica per la sua impotenza e non per la sua eccessiva pre-potenza (la pre-potenza è delle istituzioni economiche, ovviamente) è un ottimo modo per riconnettere, all’interno del progetto di un soggetto politico nuovo, le forme della politica con le trasformazioni della società. La politica non è adesso che una funzione di un ordine capitalistico che parla e decide in prima persona. Non c’è modo di rigenerare le forme della politica se non si modificano le utopie sociali che ad essa appartengono. Ma su questo, a mio avviso, non c’è da chiedere alcun supplemento d’immaginazione, ma solo uno sforzo di comunicazione e una mutazione dei linguaggi.

  1. Anticapitalismi regressivi o progressivi

Uno dei commenti più severi nei confronti del soggetto politico nuovo fu quello di Rossana Rossanda, su Il Manifesto[3]. In quell’articolo l’accusa mossa era duplice. Da un lato l’idea di sostituire la democrazia rappresentativa con una generica apologia della partecipazione. Accusa legittima, se non fosse che è altrettanto legittima, come spero di aver dimostrato, anche l’accusa contraria: e cioè che tra gli intenti iniziali ci fosse soprattutto quello di ancorare la democrazia partecipativa ad una qualche forma di rappresentanza. L’esperienza di quest’ultimo anno – compresa la scelta d’essere tra i promotori di Cambiare si può – mi pare sia un’indiretta smentita della preoccupazione espressa in quell’articolo.

Ma è assai più interessante la seconda critica, per il discorso che sto proponendo. Che si può sintetizzare nella preoccupazione che ho espresso poche righe fa: che il soggetto politico nuovo fallisca il bersaglio, fissandosi sulla crisi della politica e non sulla crisi della società. Che dunque esso stemperi le contraddizioni e annacqui in un formalismo politico la dialettica materiale del nostro tempo. Che in tempi di lotta di classe dopo la lotta di classe, esso si sia dimenticato proprio di ciò che è strutturale e non contingente, la lotta di classe appunto. Non mi interessa tanto difendere il progetto di ALBA da queste critiche. Credo però che in questa critica – che è una critica al paradigma dei beni comuni come orizzonte dentro cui rigenerare la cultura di sinistra – manchi il riconoscimento del fatto che mentre la politica taceva e ostacolava, vi è stato progressivamente e lungamente da parte di molti territori (e forse anche di qualche intellettuale) un ripensamento radicale della società, che ha prodotto di fatto visioni resistenziali. I territori, partiti col difendere particolari diritti o particolari beni comuni, hanno finito per proporre in forma eretica utopie sociali all’altezza della sfida lanciata dal capitalismo contemporaneo. Hanno fatto proprio ciò che è l’azione politica per eccellenza: hanno universalizzato i discorsi, trasformandoli da rivendicazioni territoriali a tendenze sistemiche.

Ciò è tanto più evidente oggi, che la critica al capitalismo finanziario è diventata pressoché unanime. Così, nell’epoca degli anticapitalismi regressivi, in cui la critica alla finanza appare come posseduta da una nostalgia per i modelli produttivi tradizionali (come se il difetto dell’austerity fosse il restringimento del mercato, e tutto si potesse risolvere col capitalismo con più mercato), mi pare che, se da qualche parte si può trovare un’idea di società capace di indicare con lucidità i limiti dello sviluppo e la radicalità della posta in gioco nei conflitti, sia proprio in questa convergenza eretica tra lotte territoriali e approfondimenti culturali. È soprattutto ad essi che è affidata la possibilità di rendere l’anticapitalismo alla sua forma progressiva e, in questo modo, di segnare un punto di continuità essenziale con la tradizione della sinistra.

Il tentativo in atto non è affatto quello di rimuovere la dialettica materiale in nome di un formalismo politico, ma piuttosto di contribuire – non certo in modo esclusivo – a dare dignità politica a questo profondo e ormai esteso innervamento delle categorie consolidate di interpretazione della realtà. Non a caso i cosiddetti intellettuali di ALBA non si occupano di politica se non in quanto manifesta una schizofrenia rispetto alla società (basti pensare al volume Finale di partito)[4]. Essi appartengono all’area culturale che si occupa di ripensare la crisi del lavoro, il ruolo della famiglia nella costruzione di una società emancipata, il ripensamento dei processi produttivi, la giustizia ambientale, la possibilità di una finanza etica, ecc. Le loro proposte non sono dedicate al formalismo politico quanto alla società reale.

Forse il punto è un altro: che tutto questo materiale sociale non riesce ancora a organizzarsi politicamente. Per usare un linguaggio classico: credo che in questi anni, silenziosamente e nonostante la contrarietà delle classi dominanti che avrebbero dovuto dirigere i processi, si sia confusamente costituito un nucleo oggettivo di critica e di utopia sociale capace di ridisegnare i confini dei processi emancipativi (di riconfigurarne i moventi, i mezzi, le persone). Questo nucleo oggettivo non ha ancora trovato la strada per soggettivarsi (e spesso non ha voluto), per declinarsi così in forma non solo potenzialmente politica ma in forma compiutamente politica. Il merito di ALBA è di continuare a porre l’attenzione sull’urgenza di questa soggettivazione e, con questo, di ristabilire la possibilità di un circolo virtuoso tra società e politica (penso per esempio all’insistenza d’innovativi percorsi di formazione politica, che uniscano le competenze plurali che si sono ormai sviluppate).  Credo per esempio che una nuova alleanza tra classi disfunzionali (e non semplicemente subalterne) sia possibile solo a condizione che avvenga questa soggettivazione di natura innovativa: la disfunzionalità delle classi è sempre connessa alle esigenze del capitale, ma la forma attraverso cui si manifesta la subordinazione è socialmente plurivoca: è subalternità la costrizione al consumo del territorio, la valutazione delle forme di apprendimento, ecc. La struttura economica che organizza le classi le costituisce ormai come forme totalitarie di vita.

Ritorno così al tema dello spazio, con cui ho aperto queste riflessioni. Ora si comprende meglio il senso di quell’interpretazione del compito specifico da portare avanti. Si tratta di un movimento di secolarizzazione dello spazio politico: prendere atto nientemeno che della fine del principio dell’autonomia del politico. La scommessa è quella di accompagnare questo abbassamento con un movimento di elevazione politica della società civile. In un senso ancora tutto da decifrare la fine dell’autonomia della politica implica anche la fine dell’autonomia della società civile, autonomia dentro cui i movimenti si rifugiano ancora troppo spesso, o per diffidenza o per convenienza. Solo inventando uno spazio pubblico nuovo, con pratiche, relazioni, contenuti e decisioni del tutto nuove, è possibile vincere questa scommessa.

Il versante più complicato di questa sfida – su cui si dovrà cercare di lavorare tutti insieme – è senza dubbio il passaggio dalla dimensione locale a quella nazionale (e, più ancora, europea). Dentro i territori, dove la credibilità e le proposte sono tangibili, è possibile infatti fare sintesi credibili e pensare a forme di auto-organizzazione. Ma come si fa quando non basta la sintesi e quando la politica necessita di un’eterodirettività per definizione non controllabile (quando anche estendendo al massimo il controllo sulla rappresentanza non possiamo fare a meno di una qualche forma di delega)?

Questo, che è il punto di maggiore difficoltà, è anche l’obiettivo fondamentale. Perché è evidente a tutti che alla verticalizzazione del potere globale si deve rispondere con un meccanismo in cui l’autonomia dei territori riesca a saldarsi con un alleato più esteso – con una soggettività che deve essere pensata almeno a livello europeo, per poter avere senso.

Benjamin, col suo genio fulminante, scriveva quest’appunto: «l’esperienza della nostra generazione: il capitalismo non morirà di morte naturale»[5]. Ecco, io credo che il senso profondo per cui val la pena impegnarsi in questa avventura  sia racchiuso in queste parole. Noi siamo nel tempo in cui il capitalismo è morente ma si mostra anche (naturalmente) immortale. Se nel progetto della modernità la politica era la forza che si occupava di tenere in vita il capitalismo, contenendolo in un compromesso di società, oggi spetta forse ancora ad essa il compito di ultimarne l’agonia, senza cadere nei rapporti di asservimento e di dipendenza che hanno preceduto il moderno. Perché è questo il motivo per cui la fine del capitalismo corrisponde al suo trionfo: perché il capitale si accorge di non avere più bisogno della società (e del lavoro), per riprodursi. E dunque può legittimamente puntare al feudalesimo (del resto, basta rileggere Marx per capirlo). Se la politica ha ancora un senso, è quello di universalizzare i processi sociali, rendendoli materialmente liberanti. La scommessa è questa: che possa essere la politica a dare la morte al capitalismo, prima che il capitalismo dia la morte alla società.

* Alternative per il socialismo

 


[1] Cfr. L. Mumford, Storia dell’utopia, tr. it. Donzelli, Roma 2008.
[2] Gramsci, Quaderni, Einaudi, Torino Einaudi, Torino 1975-2007, 1, § 44.
[3] R. Rossanda, Benecomunisti, che passione, «Il Manifesto» del 5/4/2012.
[4] Un’osservazione su questo punto assai discusso, cioè l’accusa nei confronti di ALBA di essere un “gioco di intellettuali”. Mi limito qui a ricordare solo un aspetto, classicamente gramsciano. La funzione dell’intellettuale (tutti sono intellettuali, ma non tutti esercitano il ruolo di intellettuale, scriveva Gramsci) è precisamente quella di annodare il rapporto tra il partito e la società, in modo tale che la classe dominante sia sempre anche classe dirigente. Se vale l’analisi precedente, secondo cui oggi l’attività politica esercita un dominio senza direzione, chi se non gli intellettuali hanno la responsabilità di riannodare questo rapporto tra classe dirigente e società? Insomma, se l’accusa è quella secondo cui “gli intellettuali vogliono mettersi a fare politica”, bisognerebbe semplicemente rileggersi Gramsci. Allora si capirebbe che gli intellettuali, in questo anno, non stanno affatto facendo i politici, ma stanno semplicemente sforzandosi di fare gli intellettuali (nonostante i pregiudizi tipici di una classe dominante).
[5] W. Benjamin, I Passagges di Parigi, tr. it., Einaudi, Torino 2007 (X11 a,3).

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