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Grillo comunica (II)

di Giuseppe Mazza

Seguire la vicenda di comunicazione di Grillo con i modi del diario. È sembrato il metodo più adeguato, davanti a un percorso si aggiornava in un infinito tempo reale, subendo continue modifiche e aggiustamenti.

Con la prima parte di "Grillo Comunica", qui pubblicata nel settembre 2012, abbiamo ripercorso la biografia politica di Grillo a partire dalla sue performance televisive degli anni '80. La vicenda dell'attuale leader del Movimento Cinque Stelle è costantemente interna ai mezzi di comunicazione, vecchi e nuovi: dalla tv, che inizialmente lo ripudia per poi essere ripudiata a sua volta, fino al web, strumento esterno ai circuito media del potere costituito. L'analisi si arrestava nel settembre 2012, sulla soglia delle elezioni siciliane, sollevando due questioni la cui risposta veniva affidata ai mesi successivi.

Da lì ripartiamo.

La prima domanda sorgeva dallo status esterno di Grillo. Non avrebbe perduto di senso questa sua alterità, nel momento dell'ingresso nelle istituzioni? Come mantenere fede al personaggio dell'outsider? Anche entrato in Parlamento - ci si chiedeva - sarà possibile dichiararsi non appartenente?

La seconda domanda riguardava ancora una volta il sistema dei media.

La constatazione secondo la quale Grillo, l'escluso, vive tuttavia all'interno dei mezzi di comunicazione, essendone egli stesso un prodotto, portava a chiedersi se egli non rappresentasse una versione aggiornata e contemporanea della commistione tra potere e media proprio da lui denunciata. Grillo, dunque, come nuovo esperimento egemonico, con il suo dispositivo alternativo in luogo dei mezzi tradizionalmente usati?

Entrambe le questioni, a ben vedere, affrontano il medesimo nodo al pettine. Ovvero, la posizione di Grillo rispetto all'establishment, che si ripropone parallela in politica e in comunicazione. Ulteriore riprova, questa, di quanto le vicende della comunicazione non siano vicende del falso, dell'artificiale, né attengano a un ambito meramente decorativo, come spesso viene suggerito dalla pubblicistica. Tutt'altro. La comunicazione segue la realtà come un'ombra. La accompagna, e la traduce in forme nette, in segni condivisi.

Che cosa hanno risposto questi mesi, quindi, alle nostre domande rimaste in sospeso? La prima risposta è affermativa. Sì, è possibile restare fuori. Ovvero non candidarsi, non entrare in Parlamento, non vivere nelle istituzioni. E' possibile insomma fare quello che ci sembrerebbe impraticabile per un Obama o una Merkel. Si può governare una realtà politica senza farne parte, mantenendosi a distanza dai luoghi delle decisioni. Il che può anche proiettare una luce di grande incertezza su quegli stessi luoghi, non più ambiti decisionali ma semplici collettori burocratici di deliberazioni maturate altrove. Come che sia, l'intuizione di Grillo, questo suo "stare fuori", chiama in causa trasformazioni più vaste ben oltre il Movimento Cinque Stelle.

Grillo esterno anticipa in effetti una stagione nella quale ogni cosa appare fuori dal suo centro. Pochi mesi dopo, anche il leader del centro destra è interdetto dalle istituzioni: non per questo perde la leadership. D'altra parte, persino il premier è a capo di un governo che dichiara di non aver voluto. Non fa scandalo l'istituzione vuota: avere intuito l'inizio di questa fase è un oggettivo merito di Grillo.

La sua condizione distanziata è stata rafforzata con precise scelte strategiche. Ne è un esempio la sua decisione di rilasciare interviste soltanto a giornali stranieri. Un posizionamento eccentrico, non distante peraltro dall'inaudita confessione di Berlusconi a Obama, quando nel corso di un G8, davanti alle telecamere, gli sussurra che in Italia è in corso una dittatura giudiziaria. Tentativi di cercare fuori una legittimità. D'altra parte, con differenti toni, anche il fronte progressista è partecipe di questo spostamento di prospettiva, contribuendo alla creazione di questa cittadinanza fuori asse: è il caso dell'insistita retorica sul "paese normale" che l'Italia non è. Un adagio certo non privo di argomenti ma piano piano capace di svuotare altri sentimenti di appartenenza collettiva, ricreando piccole patrie: non siamo normali, non siete normali, non sono normali.

La descrizione di un paese al quale non è possibile appartenere è così diventata consuetudine in comunicazione, fino a essere il sottinteso di ogni presa di posizione. D'altro canto, l'appartenenza parziale alle istituzioni da parte della classe dirigente, questo agire marcando la propria distanza dal palazzo che essi stessi occupano - oltre a specchiarsi nella parallela crisi di rappresentanza - non ha fatto che aggiornare con linguaggio contemporaneo quel che potremmo definire un nuovo particulare. Di massa, mediatico. Tutti possono chiamarsi fuori e nessuno però dirsi dentro una qualche dimensione collettiva, pubblica, civica. Di tutto ciò la comunicazione di Grillo dà spettacolari evidenze.

Qui va collocata una necessaria riflessione sullo spazio occupato da Grillo - e dal suo movimento - nella comunicazione politica nostrana. Qual era la condizione comunicativa di destra e sinistra, prima dell'arrivo del nuovo soggetto? La caratteristica principale era la scomposizione della platea. Il centrodestra di Berlusconi, infatti, ha basato tutta la sua comunicazione su un assunto: la nostra gente è disattenta, non vuole perdere tempo per sapere. La sinistra viceversa ha costruito il proprio discorso su un assunto opposto: la nostra gente capisce quello che accade, ha memoria, sa. Cioè il primo presuppone un suo pubblico disinformato, l’altra si rivolge invece a un suo pubblico consapevole. Si badi: il suo, non la totalità.

Non importa qui discutere la correttezza delle rispettive analisi. Conta la loro rappresentazione. Ognuno però affacciandosi in comunicazione parla alla totalità della platea. Logica conseguenza è la scomposizione. Barbarico, appare Berlusconi alla gente di sinistra. Astrusa, appare la sinistra al resto dell'elettorato. In due non fanno una comunicazione intera, anzi: spezzano sul nascere un possibile discorso comune. Come mai?

Il linguaggio di Berlusconi si basa soprattutto sull’inverare gli auspici. Questo gli è possibile grazie a un uso dei comune sentire privo di complessi, non gravato da responsabilità storiche o culturali verso identità pregresse da rispettare. Può adottare posizioni politiche apparentemente a destra o a sinistra senza che per lui significhi entrare in contraddizione. Gli auspici vanno sempre concordati, mai contraddetti, anzi omaggiati con parole nette. Alitalia resti italiana, subito case in Abruzzo, giù le tasse.

Il linguaggio della sinistra si basa invece sull’appello all’identità preesistente. Il richiamo è a conquiste del passato, a valori già stabiliti, considerati acquisiti e solidi oppure in pericolo e da difendere. Cose che ci sono già. La costituzione, lo statuto dei lavoratori, i diritti civili. L’argomentazione si svolge quindi nel terreno dell’assodato, del già noto e quindi – attenzione - da non ridescrivere. Di lì la tendenza progressista a rispondere con ironia, se non con la satira, alle iniziative del campo avverso. Oppure a sostituire alle argomentazioni gli stati d'animo che ne sarebbero conseguenza, come lo sdegno, il rifiuto, l’invettiva. In ogni caso, senza mai rinvenire l’oggetto da difendere - libertà, diritti - il quale viene considerato risaputo e non va nuovamente descritto o argomentato. Senza mai spiegare di cosa si tratti, che cosa davvero si trovi in pericolo. Uno dei pochi esperimenti inversi, la battaglia di Cofferati sull'articolo 18, può essere utile a identificare una definizione in pubblico dell'oggetto da preservare.

Sia la destra che la sinistra, cioè, mancano l’appuntamento con la descrizione della realtà, di fatto il vero spazio sguarnito in comunicazione. Nel varco tra queste due metà si colloca Grillo. La sua proposta è divulgativa, consiste di una spiegazione della crisi. Naturalmente, in quanto fattore irrituale, Grillo veste le sue spiegazioni come acquisizioni scandalose, come versioni alternative dei fatti a lungo messe a tacere. La proposta di Grillo si presenta quindi non come utile descrizione ma come scomoda verità.

Comunicare è mettere in comune. Mentre i suoi avversari politici, per differenti motivi, si sottraggono a una divulgazione completa, Grillo ricostruisce i motivi di queste loro mancate spiegazioni: la verità non vi giunge perché è terribile e tocca a me annunciarla… di lì il suo insistito linguaggio del complotto, della negazione di ogni versione ufficiale. Nella nostra mentalità ciò che è vero è un trauma, quindi va gridato. Qual è però il contenuto di questo suo urlo?

Giova tornare a una delle metafore più criticate nel linguaggio del leader M5S, quella che definisce il paesaggio politico italiano con l'assenza di vita. Morta la democrazia italiana, cadaveri gli avversari politici. Torna il Pasolini di "Scritti Corsari"? Quello che così descriveva i potenti democristiani: " Sembravano dei ricoverati che da trent'anni abitassero in un universo concentrazionario: c'era qualcosa di morto anche nella loro stessa autorità, il cui sentimento, comunque, spirava ancora dai loro corpi".

Grillo diventa campione della classe media proprio grazie a questa capacità di impastare nel suo racconto scandaloso della crisi anche figure retoriche provenienti dalla storia della cultura di opposizione, ascoltate dagli italiani per decenni. Grillo è le parole che non ti ho mai detto. In un rapporto irrisolto con la verità pubblica, che è tipico dell'italiano, il quale assegna da sempre il ruolo del portatore di autenticità a personaggi sopra le righe, mai ordinari, ora la classe media può urlare, in forma di sfogo, ciò che del
potere ha a lungo pensato. Quel che minoritarie parti del paese predicavano e che veniva sentito come indicibile, oggi torna in forma, si direbbe, di status symbol culturale.

Va da sé, al momento questo urlo autentico rende arduo per Grillo qualsiasi altro posizionamento. Trasformarsi in un concreto agente di cambiamento in senso riformista non sarebbe facile. No, il ruolo assegnatogli dalla storia è quello di esclamare in forma traumatica una verità a lungo taciuta, non importa qui se più o meno esatta. Il che comprende nel suo linguaggio tutto ciò che sta tra la denuncia e la derisione, ed esclude in radice la proposizione. Certo ogni svolta è possibile. A patto, però, di cambiare pubblico e applauso.

La proclamata non appartenenza di Grillo, come sappiamo - e veniamo alla seconda domanda, quella sulla natura più o meno "totale" della sua strategia di comunicazione - si basa anche su un suo combinato mediatico originale. Web, ma non soltanto. Creandolo, ricorrendovi, il leader M5S si è fortemente proposto come estraneo allo status quo. Affacciandosi cioè da mezzi alternativi a quelli percepiti come espressione di un potere tradizionale (tv, grande stampa...) si è definito pubblicamente come incorrotto portatore di cambiamento. Semplificando: se non mi vedete nei loro talk show è perché non c'entro con il loro disastro. Il web dunque come luogo di aggregazione esterno al "sistema", e strumento di lotta e di pressione.

C'è stato qui l'incrocio tra due diverse legittimità. L'una è stata ricostruita nell'articolo precedente, e riguarda il percorso di estromissione dell'ex comico dal circuito televisivo nazionale, secondo una ben nota traiettoria iniziata negli anni '80. Grillo è cioè un personaggio che ha potuto a buon diritto recitare il ruolo dell'escluso, anche se con tutte le eccezioni debordiane del caso.

L'altra legittimità deriva dalle origini stesse della grande rivoluzione digitale di questi anni. Marco Revelli in "Oltre il Novecento", ha ripercorso la storia del movimento californiano dei Felsenstein e dei Marsh, ma anche di Wozniak e Steve Jobs. E l'ha fatto usando per questi pionieri una definizione cara ad Aldo Bonomi: innovatori non solo dal basso ma anche dall'esterno. Figli di una cultura alternativa, post-68, oppositrice delle corporation e dedita a utopie tecnologiche egualitarie. Una comunità, quella della West Coast, affascinata anche dall'aspetto ludico e gratuito dell'impiego delle tecnologie, capaci proprio in forza di questa alterità di sfuggire alle burocrazie centralizzate, diventando strumenti "per tutti" e in assenza di scopo di lucro.

"Facevano di questa estraneità e di questa aggressività la condizione della propria creatività" scrive Revelli, osservando che il loro obiettivo era la costruzione di "una macchina per la comunicazione non più segregata tra le mura ben protette di un'Università o di un Centro di ricerca ma posta finalmente nelle mani di ognuno, nei luoghi della vita quotidiana". Il discorso esterno di Grillo risiede, e trova legittimità culturale, anche su queste basi. Ancora una volta, come nel caso delle figure pasoliniane dei democristiani "cadaveri", verifichiamo quanto nel lessico di M5S si rintracciano storici elementi controculturali.

Se però nel caso dei pionieri californiani si può ormai parlare, Revelli lo fa, di eterogenesi dei fini -soprattutto considerando lo spostamento delle idee utopiche sul terreno della produzione - nel caso di Grillo la distanza tra azioni e conseguenze è troppo ravvicinata per poter sfuggire a un principio di responsabilità. Risultano ormai evidenti, essendo già state ampiamente sottolineate dalla pubblicistica e dalla polemica politica, le pulsioni anti-libertarie e le tecniche di repressione del dissenso all'interno del movimento.

Il 30 ottobre 2012, Federica Salsi, militante M5S, sfuggendo al divieto di parteciparvi, è ospite del programma tv di approfondimento politico Ballarò. Il giorno dopo, il leader la accusa pubblicamente di aver trovato nei talk show il punto G, con impressionante brutalità sessista. E' uno dei primi episodi che segnala l'attitudine di Grillo a una leadership sprezzante e verticistica quanto esibita in comunicazione. Seguiranno altri scontri, altre minacce, altre espulsioni.

La visione proprietaria è dichiarata: il logo stesso del movimento viene registrato come proprietà privata del leader, il quale può decidere di concederlo o ritirarlo alla stregua di quello di un'azienda, fatto quest'ultimo di cui non si conoscono precedenti nelle democrazie occidentali. Proprietario quindi del simbolo grafico, ossia dell'identità visiva e simbolica del movimento, e allo stesso modo custode ultimo della presa di parola da parte del militanti, controllore in uscita di ciò che viene detto, del quando e del dove. Nel caso di M5S, dunque, sfera visiva e presa di parola coincidono: due diversi ambiti comunicativi sul quale il controllo viene affermato in termini netti. La comunicazione qui si fa vetrina dell'autoritarismo.

La proibizione e il controllo fanno il paio con la deformazione linguistica, con il gusto dell'iperbole aggressiva. Si può tracciare un ulteriore ponte tra gli slanci politici provenienti dagli Stati Uniti e le versioni che ne fornisce l'M5S. Il formidabile slogan di Occupy Wall Street, "We are the 99%", che "attacca con i numeri chi di solito se ne fa scudo" ossia la finanza internazionale, diventa nel linguaggio di Grillo il "vogliamo il 100%" dichiarato nel corso di un'intervista a Time del 7 marzo 2013. Quanta differenza, nella cruna d'ago di quell'uno per cento. Ormai Grillo si accredita sempre di più come una fabbrica di degenerazioni retoriche: un claim già entrato nella storia della migliore comunicazione democratica, trasformato in sciatta vocazione totalitaria. Se davvero nella lingua si intravedono i cambiamenti (Gramsci), qui si può far molto più che intravederli.

Ora l'utopia libertaria dei pionieri californiani appare ancora più lontana, e il web diventa lo strumento di un tragico fraintendimento della democrazia rappresentativa. Si supera il concetto di delega, sì, ma per ritrovarsi in un vieto dirigismo. Lunga e in fondo accessoria a questo punto sarebbe la lista delle contestazioni indirizzate al blog di Grillo e alla violenza linguistica delle sue prese di posizione: nella sua visione del web emerge poco dialogo tra pari e molta sorveglianza, poco coinvolgimento e molte aggressioni ai singoli, poca orizzontalità e tanto vertice.

Il web però è solo un pezzo della strategia mediatica messa in atto da Grillo. La sua campagna elettorale per le politiche del febbraio 2013 può essere in effetti considerata un perfetto esempio di earned media. Una campagna realizzata cioè non sugli spazi media di cui si entra in possesso, ma prodotta dall'interesse dei media nei confronti del movimento. Per l'appunto, meritandosi l'interesse, diventando notizia, creando clamore intorno a fatti notevoli e significativi. Viaggiare sul camper, promettere lo scoop di un'intervista tv che non arriva, attraversare a nuoto lo stretto di Messina... trasformarsi insomma in argomenti di cui si parla.

Una tecnica che in tempi recenti ha avuto grandi maestri nell'advertising, uno tra tutti quell'Alex Bogusky capace con un'irruzione intorno ai building delle multinazionali del tabacco di creare una campagna antifumo che mise in ginocchio i grandi marchi delle sigarette. Li circondò con sacchi di finti cadaveri, incollò a un palo un piccolo manifesto sui danni del fumo. Non servirono gran piani media. Bastò filmare l'accaduto, ci pensarono i mass media a diffondere la notizia. Truth, questo il nome della campagna, trasformò la lotta contro i rischi del fumo in una lotta contro le corporation, un vero atto di ribellione giovanile.

Un esempio tra i tanti, utile per dimostrare come una tecnica reputata tra le più credibili dell'adv, e mirata alla creazione del cosiddetto passaparola, sia stata utilizzata da Grillo per influire sull'agenda dell'informazione nazionale. Il che aggiorna la visione "solo web" spesso associata al M5S. Le elezioni in Sicilia hanno rappresentato un esperimento riuscito da questo punto di vista: il web, in una terra nella quale la rete va a rilento, sostituito dalle piazze calcate come nella tournee di un cantastorie. La formula è web più earned media.

Anche alla seconda domanda si può allora, a distanza di mesi, rispondere affermativamente. Sì, il combinato mediatico di Grillo vi sovrappone un'altra opacità al sistema dei media esistente, in chiave tecnologicamente più aggiornata e forse ancora più priva di permeabilità, tolleranza, capacità di ascolto. Sì, quello di Grillo è un nuovo intreccio tra media e potere, tra strumenti di comunicazione e volontà di controllo.

Su questo nostro diario della comunicazione di Grillo, iniziato un anno fa nel nome dell'aleatorio, del magma democratico sul quale interrogarsi, si può dunque già segnare qualcosa di più definito e certo. Le prime risposte ci pare che arrivino, e riguardano non solo l'ambito meramente espressivo-comunicativo né tantomeno quello tecnico-professionale, ma anche la sostanza democratica della vicenda di M5S e del suo leader. Altre domande tuttavia sorgono, e più vaste. Se assumiamo l'idea per cui la comunicazione è la tenace ombra dei fatti, che segue ovunque, rispecchiandoli in forme precise, disegnate e comprensibili, possiamo anche interrogarci sul rapporto tra il movimento di Grillo e i mass media italiani.

La vicenda di comunicazione del M5S è cioè anche una vicenda della comunicazione italiana. Ne ha messo in mostra i limiti, le scarse consapevolezze e si potrebbe dire anche le recondite paure. Di fronte alla novità di Grillo, che minaccia la fine di un mondo, i nostri mass media hanno vissuto un trauma, percependone da subito la natura esogena e aggressiva, questo sopraggiungere da fuori. Le strategie di comunicazione di Grillo e Casaleggio sono state descritte da un punto di vista magico, accompagnando il tutto con la parola guru, una delle manifestazioni verbali più palesi della nostra soggezione in materia. Lo shock culturale subìto da un mondo conservativo e pigro, all'apparenza fino a quel momento inconsapevole di quali trasformazioni fossero in atto nel suo stesso universo, ha prodotto una vulgata che, da lì in poi, descrive M5S sempre autrice di scelte inesorabili, guidate da sapienza recondita e definitiva.

Giornali e tv hanno adottato un atteggiamento tremebondo, oscillante tra la negazione dell'evidenza e l'accoglienza passiva, con una pochezza di analisi tale da renderne ancora più evidente lo spiazzamento. Si è reso quasi impossibile guardare ai continui cambi di rotta del movimento M5S per quello che sono: le ovvie indecisioni di chi procede per aggiustamenti, significative di una stagione d'esordio. È diventata irricevibile anche ogni manifesta incertezza, persino le ammissioni più disarmate - come quella con cui Grillo commenta la sconfitta alle comunali ("non abbiamo saputo comunicare" - non hanno intaccato il mito mediatico. Quasi che la confusione stessa possa essere letta come volontà strategica, così impalpabile evidentemente da non essere percettibile. Ancora si alimenta una visione della comunicazione come patrimonio dell'irrazionale, del carismatico. Non terreno delle professioni ma dell'estro dei singoli. Ennesima interpretazione personalistica della sfera pubblica.

In un perverso contrappasso, l'impreparazione dei media italiani, a lungo prodottasi entro un sistema di potere statico, ha tradotto fatti casuali in disegno complessivo, vere casualità in invisibile ratio. Su tutto ha visto polvere magica. Eppure gli spot and go non si contano... Grillo vieta i talk show. Grillo autorizza i talk show. I parlamentari non possono parlare. I capogruppo possono leggere i comunicati. Nascono i responsabili comunicazione dei gruppi parlamentari. I parlamentari contestano i responsabili comunicazione. Vengono promesse innovazioni partecipative via web. Non arrivano. Grillo annuncia l'istituzione di una conferenza stampa periodica. Dell'evento non si sa più nulla. E via elencando. Persino un didattico powerpoint sulla rivoluzione digitale garantisce a Gian Roberto Casaleggio un'apparizione salutata come sapienziale dall'establishment nazionale convocato a Cernobbio per il Workshop Ambrosetti.

Altro che scientifica. La comunicazione di M5S è malferma e talvolta appare semplicemente poggiarsi sulla rendita di posizione offerta dalla notorietà di Grillo. Di fronte a queste contraddizioni il nostro sistema dei media appare però sostanzialmente privo di strumenti cognitivi, incapace di registrare. I nostri mass media, braccio informato e parlante del potere italiano, storicamente compenetrato nelle sue strutture gerarchiche, qui pagano dazio e si dimostrano complessivamente inadeguati, più preoccupati di mantenersi in vita che di assolvere alle proprie funzioni.

Ecco cosa mostra l'ombra fedele della comunicazione nostrana: il profilo di un establishment che possiede gli strumenti del comunicare ma non li usa per mettere in comune, possiede l'informazione ma non la usa per assumere informazioni. Poche materie come la comunicazione esprimono la qualità della cittadinanza, perché in essa si esprime o si elide la paritarietà dei rapporti, la visibilità delle opzioni. Grillo può forse aver rappresentato l'occasione per una radiografia profonda delle insufficienze culturali e persino civiche dei nostri mass media. Un vuoto che si spalanca ben più allarmante di quello lamentato nella classe politica o imprenditoriale. Al confronto, le occasioni perdute dal movimento di Grillo potrebbero apparire semplici vicende biografiche.

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