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Anatomia della scimmia antiberlusconiana

di Marco Bascetta

Tra le sue produzioni culturali più eminenti: la squisita prosa di Marco Travaglio; il narcisismo inquisitorio di Michele Santoro; la profondità filosofica di Michela Marzano; l'abbigliamento di Mario Monti; le lacrime di Elsa Fornero. Nonchè lo stile "smart" di Matteo Renzi

quelli-cheIl termine non è poi così antico. La sua fortuna risale al passaggio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Il suo ambiente ideale fu il craxismo in ascesa, la farlocca “modernizzazione” italiana, il patriottismo delle firme e della competitività, la retorica, perlopiù priva di fondamento, dell’efficienza e della razionalizzazione. Stiamo parlando di quella parola magica che da allora non ci ha più lasciato: la “governabilità”. Sono gli anni in cui la nuova ideologia italiana andava formandosi, travolgendo apparentemente ogni ostacolo o resistenza, accompagnata dal farfugliare tanto incomprensibile quanto osannato dello psicanalista milanese Armando Verdiglione e da un linguaggio capace di trasformare un amore in un “investimento affettivo”.

Ma che cosa voleva significare di diverso quella parola dalla pretesa di ordine sociale, di legiferare indisturbati e di rendere esecutive le leggi che è propria di qualunque governo? La governabilità guardava non al futuro ma al passato e cioè a quella lunga stagione di grande insubordinazione sociale, di rifiuto delle gerarchie e dei ruoli consolidati, di disobbedienza, di conflitto e desiderio di libertà che a partire dalla fine degli anni ’60 si era protratta per tutto il decennio successivo mettendo sotto pressione, e non di rado sotto ricatto, grandi e piccoli poteri. La stagione, in breve, dell’ingovernabilità alla quale, con ogni mezzo, si intendeva porre fine. Non che in quel decennio abbondante non vi fossero stati governi che governavano, produttori che producevano, profitti che si accumulavano, e perfino la rappresentanza politica godeva di una salute infinitamente migliore di quella comatosa in cui oggi versa.

Governabilità significava dunque l’eliminazione del conflitto sociale, in tutte le sue forme non interamente addomesticate, come precondizione di un governo efficace, l’aspirazione a una posizione protetta nella quale i governanti non avessero più nulla da temere da parte dei governati e non dovessero più cedere alcunché sotto la pressione delle lotte o la diffusione di massa di stili di vita improduttivi e difficilmente controllabili, come era accaduto per più di un decennio. L’inflazione alla quale si voleva ad ogni costo porre fine era soprattutto quella dei diritti, delle libertà, dei signornò e di ogni variabile che si pretendesse indipendente.

In quel frangente, la posta più importante in gioco era la ripresa di controllo sull’economia, sottraendola il più possibile alla contrattazione, non tanto quella più gestibile al vertice con le grandi centrali sindacali, quanto quella implicita nell’insubordinazione operaia o nella volontà, socialmente diffusa e praticata in diverse forme di appropriazione, di “vivere – come recita oggi il catechismo della Bce – al di sopra dei propri mezzi”. Governabilità rivelava l’esordio di quel percorso ideologico che avrebbe condotto a inserire il pareggio di bilancio nella Costituzione, definitiva consacrazione delle compatibilità finanziarie. E che, nell’anno cruciale 1980, partiva dal luogo, non solo simbolico, che per primo doveva essere ricondotto alla governabilità, poiché a dispetto della sua natura gerarchica e autocratica, vi si era lungamente sottratto: la fabbrica. Si consumò allora la sconfitta della lunga lotta degli operai Fiat, con la cosiddetta marcia dei 40.000 funzionari e guardiani del governo di fabbrica che reclamavano, e ottennero, la piena governabilità degli stabilimenti. Con l’aiuto di una sinistra che mai aveva digerito l’autonomia dei soggetti sociali e, finalmente, dopo avere cercato con ogni mezzo, dalla politica dell’austerità, alle leggi di emergenza, all’unità nazionale di restaurare la disciplina nel suo campo, ne vedeva finalmente fiaccata l’energia. Non era solo il segno del fordismo in declino, ma il segnale che la nuova stagione non si sarebbe affatto discostata dalla legge del più forte, che i nuovi stili di vita o avrebbero accettato di mettersi al lavoro o sarebbero stati sospinti nell’indigenza e nella marginalità. L’ingovernabilità, del resto, non ha mai significato una assenza di governo o l’equilibrio precario e mutevole tra le forze politiche, come vorrebbe la lettura puramente istituzionale che alla fine ha prevalso, bensì una turbolenza sociale che minava più o meno direttamente gli interessi dominanti, costringendo le forze di governo e di opposizione a ogni genere di equilibrismi, attenzioni e concessioni. Qualcosa che andava mutando le forme di vita, le aspirazioni e le stratificazioni di classe fuori e contro gli schemi stabiliti nel dopoguerra, come terreno comune, dall’insieme delle formazioni politiche. La “modernizzazione” degli anni Ottanta non fece che cavalcare questa spinta antistatalista e libertaria piegandola al mercato, quello propriamente detto, quello politico e quello, contiguo, della corruzione. Il significato del termine “governabilità” stava a designare precisamente questo, nonché la necessità di riformare le strutture istituzionali e l’architettura dei poteri in un modo che sapesse accompagnare più efficacemente questo processo. Il quale raggiunse la sua forma compiuta e vincente solo negli anni Novanta con l’affermazione di Silvio Berlusconi e del suo partito in franchising che prometteva nuove strabilianti forme di mobilità sociale e metteva sul mercato nuove identità.

In parallelo, muoveva i primi passi di una vita grama e perdente l’antiberlusconismo, la veste più misera e scolorita che la sinistra italiana abbia mai indossato nella sua storia. In questo collettore confluivano indigeribili pozioni ideologiche della più varia natura: frontismo, giustizialismo, moralismo, culto dello Stato, apologia dell’austerità, liberismo arcigno e incravattato, riflessi d’ordine, patriottismo. Nemmeno l’auspicio di un colpo di Stato ad opera dell’arma dei carabinieri per ristabilire la legalità repubblicana ci è stato risparmiato dal campo della sinistra (a regolare i conti con la democrazia ci penserà poi, a tempo debito, Giorgio Napolitano). Il tutto accompagnato per anni, soprattutto quelli dei governi della sinistra, da astuzie e ipocrisie d’ogni sorta, per non mettere a repentaglio dispositivi di potere e strumenti di controllo sociale sostanzialmente condivisi e compartecipati. L’antiberlusconismo, con le sue ossessioni legalitarie e punitive, con la sua risibile ideologia meritocratica, con la sua celebrazione della ratio tecnocratica, con le sue inclinazioni censorie, con il suo galateo del politicamente corretto, con la sua etica del sacrificio venata di “capitalismo caritatevole” è stata la più poderosa macchina contro il conflitto sociale e la devianza dai comportamenti prescritti messa in funzione nell’ultimo ventennio. Pronta a girare a pieno ritmo non appena nelle piazze dava a vedersi qualche segno di turbolenza, puntualmente accolto da roboanti condanne bipartisan.

Nessuno schieramento politico quanto quello antiberlusconiano ha mai mostrato una povertà culturale e politica tanto desolante, un personale politico tanto pallido e banale. Tra le sue produzioni culturali più eminenti possiamo annoverare la squisita prosa di Marco Travaglio, il narcisismo inquisitorio di Michele Santoro, la veemente oratoria di Antonio Ingroia, la profondità filosofica di Michela Marzano, le esigue masse sollevate da Micromega in difesa della Costituzione, la breve fortuna del colore viola, l’abbigliamento di Mario Monti, le lacrime di Elsa Fornero, senza dimenticare naturalmente le promesse elettorali del Pd e gli otto punti che avrebbero sconvolto il mondo, nonché lo stile “smart” di Matteo Renzi che certamente lo sconvolgerà. In tutta la storia miseranda del frontismo antiberlusconiano non una sola sillaba (di azione neanche a parlarne) che raccogliesse le domande di libertà, di reddito, di accesso alla ricchezza sociale, di autodeterminazione avanzate dai soggetti sociali investiti dalla crisi, ricattati dai padroni del lavoro precario o sfruttati da quelli del lavoro stabile.

Diceva Marx che l’anatomia dell’uomo spiega quella della scimmia, che dagli esiti, insomma, si capiscono i primordi. Dal governo Letta, dunque, dalla grande coalizione tra gli irriducibili avversari di un tempo, tra affaristi “impresentabili” e bolscevichi mai pentiti (così diceva la propaganda) promossa e benedetta da un campione della destra migliorista del Pci, sempre pronta a reprimere ogni insorgenza dal basso, unica arzilla eredità di quel partito, si comprende, infine, l’anatomia dell’antiberlusconismo e per quale ragione esso sia stato strutturalmente incapace di liberarsi del suo storico bersaglio. La parola che sta alla base e al vertice di questo connubio è ancora una volta “governabilità”, il primato indiscutibile dei governanti sui governati che riassume in sé la concezione attualmente dominante di una democrazia prossima alla caricatura dello “Stato etico”. Il fatto che l’antiberlusconismo non abbia mai neanche sfiorato i fondamentali del liberismo, mai preso di petto la concentrazione della ricchezza, quella sostanziale, non quella dell’esibizionismo cafone che tanto appassiona i nostri Savonarola, mai lasciato spazio alla libertà individuale o collettiva, mai contemplato la critica delle norme e dei poteri, ha avuto come esito scontato la fusione con il suo opposto nell’orizzonte di un ordine costituito ampiamente condiviso. Tutti gli infiniti vizi e crimini imputati al cavaliere e a gran parte dei suoi accoliti, tornavano così ad essere ciò che dal punto di vista dell’esercizio del potere o, come si sarebbe detto una volta, del sistema, erano sempre stati, vale a dire una minuzia, un dettaglio. Del quale, se non fosse per l’amor proprio e le prerogative di casta della magistratura, nessuno tornerebbe a interessarsi.

L’esito elettorale aveva, tuttavia, rimesso in pista lo spettro dell’ingovernabilità. Sembrava impossibile che si consumasse uno spergiuro così eclatante come quello di cui sarebbe stato protagonista il Partito democratico. Il Movimento 5 Stelle, sebbene profondamente intriso di antiberlusconismo benpensante, conservava una vena di follia che avrebbe potuto ostacolare, se non impedire del tutto, il raggiungimento di un equilibrio stabile. Con la fine del regno di Giorgio Napolitano, poi, il vuoto di potere e i margini di incertezza si ampliavano ulteriormente. In molti avevano sperato che in un simile frangente un cambiamento abbastanza incisivo sarebbe stato non solo possibile, ma addirittura obbligato, che potesse aprirsi una stagione di instabilità nella quale incunearsi e tornare a strappare potere d’acquisto e forza contrattuale. Tuttavia, anche in questo caso l’esito ci spiega la premessa. L’assenza di un governo, la vacanza del Quirinale, i veti incrociati dei partiti e il patetico tentativo del Movimento 5 Stelle di restaurare la rappresentanza, almeno quella del risentimento, non costituivano affatto una condizione di ingovernabilità, come la conclusione della vicenda ci ha poi dimostrato. Questo Paese ha vissuto, in fondo, un gran numero di lunghe e lunghissime crisi di governo. A garantire la governabilità non è stato il trucco di rieleggere Napolitano alla presidenza della Repubblica, né la formazione del governo presieduto da Enrico Letta, ma l’assenza di una conflittualità sociale significativa. Figlia, quest’assenza, non solo del ricatto ormai interiorizzato della crisi e delle sue compatibilità, ma anche del ventennio antiberlusconiano impegnato maniacalmente nella richiesta di regole e obbedienze, mai nell’interrogazione sull’equità e sostenibilità delle regole vigenti e men che meno incline a contestarle. Questa soggezione acritica alla legalità esistente o, peggio, la volontà di stringerne ulteriormente le maglie, non di rado accompagnata da sventolio di manette e celebrazioni della magistratura, è la base più solida della governabilità. Ed ha agito, come la conclusione della vicenda testimonia, non a favore delle vittime della crisi, ma a favore di Berlusconi, il quale da buon sbandieratore dello spettro del comunismo sa benissimo, contrariamente agli allocchi viola, che la giustizia è di classe (della sua naturalmente). Decenni di antiberlusconismo hanno prodotto alla fine un’alleanza di governo con il partito di Berlusconi che tiene per giunta nelle sue mani tutti i fili per condizionarla.

Spostiamoci ora dal piano nazionale a quello europeo. Dopo la parentesi del governo dei professori, trasformati in scolari dediti a fare “i compiti a casa”, per i quali le regole comunitarie (imposte e difese, nella loro forma attuale, da Paesi e poteri forti) erano indiscutibili, razionali, eticamente formidabili e foriere di un magnifico progresso, di fronte ai morsi della recessione e a una evidente eterogenesi dei fini, la “grande coalizione” ne chiede, per ora timidamente, l’allentamento, l’ammorbidimento. Senza mai spingersi, tuttavia, verso una vera e propria rimessa in discussione del catechismo comunitario e senza volersi confondere, non sia mai, con greci, portoghesi, ciprioti, spagnoli e altri dissipatori che, comunque, costituirebbero una massa critica. Il problema che ormai comincia a farsi strada nella mente dei governanti di diversi Paesi europei è il rischio, anzi la relativa certezza, che la governabilità dell’Unione finisca col determinare a breve termine l’ingovernabilità interna di molti Stati che la compongono e che neanche le “grandi coalizioni”, Atene docet, siano in grado di scongiurarla se non sull’onda di un panico che non potrà tuttavia protrarsi in eterno. Così come a Bruxelles, e soprattutto a Berlino, si teme la situazione esattamente opposta e cioè che una ripresa vincente della conflittualità sociale, contro le politiche di austerità imposte in nome dell’Europa dai governi nazionali, minacci seriamente i dividendi della Spa europea che i suoi azionisti più forti si aspettano di incassare regolarmente. In questo intersecarsi dei piani, che comincia a riguardare non solo i più esposti paesi mediterranei, lo spazio dell’ingovernabilità può tornare a crescere. E tornare a riaffermarsi una cultura del conflitto che aggredisca senza complimenti l’ideologia dell’unità nazionale, l’etica del sacrificio e le politiche di austerità facendola finalmente finita con l’antiberlusconismo e forse, finalmente, anche con le sette vite del cavaliere.

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