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sollevazione2

La furbata

Cosa bolle nel pentolone del dibattito sul debito pubblico?

di Leonardo Mazzei

medusabozzettoE' in preparazione qualcosa di grosso. O, forse, di qualcosa solo apparentemente grosso. In ogni caso tutto sembra in movimento: il mondo della finanza, l'entourage di Renzi, i giornalisti solitamente ben informati. Ed infine la Bce.

Come abbiamo già segnalato nei giorni scorsi, il pentolone del dibattito sul debito pubblico ribolle come non avveniva da tempo. Il fatto è che i nodi stanno venendo al pettine. Se in Italia della "ripresa" non c'è neppure l'ombra, è l'intero quadro europeo che va facendosi sempre più fosco.

In questa situazione appassionarsi ai decimali sarebbe assurdo, tanto più che il Fiscal compact incombe. E così, poco alla volta, ma oramai con una evidente accelerazione, una verità va facendosi strada nei pensatoi del blocco dominante. Di cosa si tratta? Della consapevolezza che il debito pubblico italiano ha raggiunto ormai la soglia dell'insostenibilità, che non è più possibile affrontarlo con le ordinarie politiche austeritarie, che dunque misure eccezionali si impongono.

Breve digressione. Il concetto di «insostenibilità», che qui adopero, non ha ovviamente un valore assoluto. Ce l'ha invece nel quadro dato del «capitalismo-casinò» ed in assenza di sovranità monetaria. Non è dunque un concetto scientifico, ma solo una valutazione realistica rispetto alla concreta configurazione dell'attuale situazione italiana.

Come hanno rilevato Michele Fratianni, Paolo Savona ed Antonio Maria Rinaldi, in uno studio dell'aprile 2013, c'è discussione su quale sia la soglia della «sostenibilità». C'è chi ritiene che debba situarsi al 90% nel rapporto con il Pil, chi addirittura al 60% (come l'UE), chi predilige valori intermedi. In ogni caso i tre economisti citati non mostrano alcun dubbio sul fatto che tale soglia esista e che l'Italia l'abbia superata da tempo.

L'affannosa ricerca di una via d'uscita sistemica

Ecco perché nei palazzi della finanza, come in quelli della politica, si lavora alacremente alla ricerca di una via d'uscita. Ma non di una vera via d'uscita, che porterebbe a mettere in discussione troppe cose: dall'Ue all'euro, dalle politiche liberiste alla logica mercatista che presiede ad ogni scelta politica di governi fatti con lo stampino del pensiero unico.

No, la via d'uscita di lorsignori ha da essere di tipo sistemico. Non deve mettere in discussione gli assetti del potere, e non deve neppure scalfire gli interessi economici delle oligarchie finanziarie. Una via d'uscita che non fuoriesca dai meccanismi che hanno prodotto la crisi, ma che - ancora una volta - privatizzi i guadagni e socializzi le perdite.

E' questo lo scopo del cosiddetto «Fondo Tagliadebito» di cui si discute in queste ultime settimane. Un fondo da 300 miliardi secondo Marco Carrai, l'amicuccio presta-casa di Renzi, quello che ama viaggiare sull'asse Tel-Aviv - Firenze - New York. Da 400 miliardi secondo l'ex presidente dell'Eni, Roberto Poli, di cui ci siamo occupati nell'articolo già citato. Addirittura da 1.000 miliardi (mille) secondo l'ineffabile Paolo Savona. 

Per capire di che cosa si tratti diamo la parola proprio a Savona, l'ex ministro dell'industria del governo Ciampi che siede anche nel Comitato scientifico dell'associazione bagnaiana A/simmetrie. Intervistato dal Corriere della Sera del 10 agosto, ecco la sua ricetta:

«Bisognerebbe infilare in quel fondo tutti gli immobili dello Stato, ma anche quelli degli enti locali. E conferirgli anche le partecipazioni azionarie, perché no? Un unico strumento, una "New.Co." con un patrimonio che a quel punto superebbe i mille miliardi di euro, da mettere a garanzia dell'operazione di sistemazione del debito. Il ricavato della cessione delle quote del Fondo servirebbe per riacquistare i titoli di Stato».

Ora, Savona la spara un po' grossa, spostando l'asticella dai 400 ai 1.000 miliardi, ma ha il merito di dirla tutta. Se svendita ha da essere, egli dice, la si faccia fino in fondo, mettendo nel paniere la parte più succulenta (le partecipazioni azionarie) e non solo il meno appetitoso patrimonio immobiliare.

Ecco che cosa è davvero in gioco: la svendita integrale di quel che resta di un patrimonio pubblico già largamente saccheggiato.

Lorsignori sanno benissimo che la via dell'austerità non può funzionare. Sanno anche che l'unica vera via d'uscita sarebbe quella della riconquista della sovranità monetaria, unica via per ridurre in maniera consistente il debito con un mix fatto di monetizzazione/inflazione e default controllato. Ma tutto ciò non si può fare restando nella gabbia dell'euro. E in quella gabbia loro ci stanno piuttosto bene.

Ecco allora la loro proposta. Una misura eccezionale, questo sì, ma ritagliata su misura sui loro interessi. Tutto dunque già deciso? No, perché c'è un problema. Lorsignori non sono così sicuri che il Fondo possa davvero funzionare.

Funzionerà?

«Si fa, si fa», questo l'entusiastico incipit dell'articolo di Milano Finanza del 9 agosto che annuncia la lieta novella. Lieta, ovviamente, soprattutto per il mondo degli speculatori ai quali il giornale si rivolge. Carrai, che proprio su MF era già intervenuto qualche giorno prima per lanciare la sua proposta, lo denominerebbe «Fondo Patrimonio Italia». Ma già qualcuno lo vorrebbe chiamare invece «Fondo degli italiani». Un nome che piacerà senz'altro a Renzi.

Le cose, tuttavia, non sono così semplici. Abbiamo già detto all'inizio che quello in corso è un vero e proprio dibattito. Una discussione tutta interna al blocco dominante. Tra i sostenitori di una misura shock c'erano anche i fautori di una maxi-patrimoniale, ma oggi costoro sono in palese ritirata. E così la via del «Fondo» ha preso quota. Non tutti, però, scommettono sui suoi effettivi risultati. Anzi.

Clamoroso è il caso del ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan. Costui, intervistato dalSole 24 Ore del 6 agosto, mostra tutto il suo scetticismo. Leggiamo: «ma qual è il patrimonio di cui parliamo? Che cosa spinge a immaginare che sia marketable (vendibile, ndr) così com'è un patrimonio che invece richiederebbe lavori di riqualificazione importanti e onerosi?».

Nella sua intervista Padoan ribadisce la strada delle privatizzazioni. Un obiettivo che è già nel programma di governo e che non richiede alcun fondo particolare. I dubbi di Padoan si incentrano invece sul fondo immobiliare, ed hanno probabilmente due motivazioni: una tecnica, l'altra politica. 

Quella tecnica affonda le sue radici nell'esperienza. Tante volte è stata ipotizzata la valorizzazione del patrimonio immobiliare ed altrettante volte il buco nell'acqua è stato clamoroso. L'ultima esperienza è quella dell'Invimit Sgr, fondo costituito nel maggio 2013 dal governo Letta proprio a tale scopo. Ora, a 15 mesi di distanza, e dopo che sono confluiti in questo fondo gli immobili dell'Inail, dell'Inps, della Regione Lazio, delle Università e della Difesa, siamo ancora nella fase di selezione per stabilire quali siano quelli vendibili e quelli da dismettere. Se tutto andrà liscio la fase di vendita inizierà tra un anno. Valore ipotizzato: 1 miliardo. Campa cavallo! Da 1 a 400 la distanza è enorme, da 1 a 1.000 giudicate voi.

Se il dubbio tecnico è facilmente spiegabile, quello politico è forse più importante. Padoan probabilmente sa che l'Europa non la berrebbe. Certo, gli eurocrati sarebbero ben felici di avere uno strumento in più per accelerare le privatizzazioni, ma non crederebbero mai alle cifre sparate da Carrai, Poli e Savona. Sicuramente Juncker direbbe «bravissimi, ma non basta», disegnando una situazione non troppo agevole per il governo italiano.

La furbata

Dunque, si farà o non si farà questo fondo?

Tra il non far niente ed il fare qualcosa di risolutivo c'è evidentemente una via di mezzo. Che questo fondo possa risolvere la questione del debito pubblico, rendendolo «sostenibile», lo possiamo tranquillamente escludere. Che con questa trovata l'Europa allenti i sui vincoli idem. C'è però un'altra possibilità, che essendo di gran lunga quella peggiore ha purtroppo buone possibilità di realizzazione.

In breve, il risultato potrebbe essere quello di una s(vendita) colossale, e pur tuttavia incapace di ridurre in maniera significativa il debito. Ai 400 miliardi annunciati ne potrebbero corrispondere alla fine magari 50. In ogni caso una cifra assai modesta, rispetto ai 2.168 miliardi di debito certificati proprio oggi da Bankitalia. Modesta anche perché l'operazione vendita avrà comunque bisogno di un certo numero di anni.

E tuttavia questa operazione un senso ce l'ha. Anzi ne ha due. Il primo è quello di far felici gli avvoltoi di tutto il mondo, quelli ad esempio amici del sig. Carrai, ma non solo quelli. Il secondo è quello di offrire un qualche margine di manovra a Renzi. Stretto nella morsa tra la sua propaganda (l'austerità è finita...) e i vincoli europei che chiedono lacrime e sangue più di prima, Renzi potrebbe fare del fondo la sua mossa del cavallo. Di certo una mossa non risolutiva, anzi sostanzialmente una furbata, ma che potrebbe consentirgli di prendere tempo. Che ad oggi, vista la pressione di Draghi e di quel che rappresenta, è forse il massimo al quale il berluschino fiorentino può realisticamente aspirare.

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