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Uniamo il pensiero ribelle!

Piotr Zygulski intervista Antonello Cresti

bravePer iniziare, si presenti.

Come recitano le mie biografie standard sono un saggista e compositore, più in generale un appassionato di idee, creazioni ed ambientazioni “nascoste”. Le mie assolute passioni sono la cultura tradizionale britannica, la controcultura e la musica underground, e utilizzo questo bagaglio di conoscenze non propriamente “mainstream” per approcciare da un punto di vista eccentrico anche altre problematiche. Ho pubblicato CD, libri, ho fatto programmi radiofonici, ho organizzato festival … Le vie della comunicazione culturale, insomma, mi intrigano tutte allo stesso modo!

 

Lo scorso anno ha lanciato il progetto “Idee In/Oltre”. Per quale motivo si è lanciato in questa avventura?

Idee In/Oltre nasce soprattutto dall’esigenza di coagulare un po’ di forze attorno ad un progetto di informazione/divulgazione non massificato. Usando facebook e i social network ci si rende conto che vi sono intelletti e spiriti liberi, ma che è difficile riunirli sotto un’unica sigla. Il blog che ho creato è un tentativo in questo senso, ed è anche un esperimento per capire quanto impatto possa avere un articolo (anche a mia firma) senza il supporto della testata di riferimento.

Devo dire che in periodo ancora invernale qualche piccolo “miracolo” è accaduto, con punte di svariate migliaia di lettori per singolo articolo. Conto quindi di continuare nel tentativo di affiancare mie collaborazioni esterne (da Il Manifesto a Aam teranuova, a Rockerilla etc…) a questo progetto più organico. E pluribus unum, insomma!

 

 

Qui emerge un punto interessante, l’esigenza di unire le forze. Spesso però i portali, movimenti e associazioni che si pongono con questo atteggiamento “ecumenico” (ne contiamo a centinaia, uno dei primi forse è stato il movimento “Alternativa” lanciato da Giulietto Chiesa) rischiano loro stessi di diventare settari o di coagularsi attorno ad un fondatore o leader o comunque qualcuno che ne diventa il fulcro. Come riuscire a sottrarsi alla dialettica identità/ecumenismo?

L’incapacità di andare oltre alle provenienze e oltre alle individuali autoreferenzialità è un’antica tara soprattutto degli ambienti italiani cosiddetti “alternativi”. Si fa poca squadra e, in generale, vi è un complesso di impurità che permea un pò tutti. Questo ovviamente è poco maturo e decisamente controproducente, sia negli ambienti di “creazione delle idee”, sia in quelli più propriamente politici. Personalmente, se avessi l’influenza e il denaro necessari, e potessi costituire una testata degna di questo nome avrei due priorità assolute: la collaborazione di persone capaci di ragionare con la loro testa, fregandomene di far loro l’analisi del sangue, ed una apertura vera a temi e contenuti più vari. Nessun settarismo, insomma. E tenterei semplicemente di proporre una visione eccentrica degli eventi, senza per questo etichettare il progetto in maniera univoca e unidirezionale. Utopia? Probabile, ma vale la pena non mollare.

 

Non mi riferivo tanto ai vecchi identitarismi ideologici e ai tabù di impurità – che sono tuttora presenti in molti ambienti – ma ad un’altra forma di identitarismo. Talvolta, infatti, dietro l’atteggiamento di alcuni dialoganti anti-identitari che vogliono raccogliere spunti critici eterogenei si nasconde un tipo di identitarismo che è piuttosto un’affezione al proprio gruppo. Spesso l’unione di forze non avviene perché, anziché fondersi tra di loro, ogni giorno nascono sempre nuove identità, in alcuni casi vivacemente interessanti e disposte a collaborare con altri, però molto legate al gruppo di appartenenza, che finiscono così per disperdere energie e articoli su innumerevoli portali. Si può forse tentare qualche altra strada per una reale unione di forze che riesca a superare questi limiti?

Sono talmente d’accordo con la tua analisi e con il tuo – implicito – auspicio che desidero cogliere l’occasione di questa intervista per lanciare un appello, piuttosto che lanciarmi in dissertazioni di vario genere. Perché non creare una piattaforma comune tra i gestori/fondatori/collaboratori dei maggiori blog e siti di controinformazione e andare verso la nascita di un’unica testata web, rinunciando ai propri giocattoli personali, per quanto ben fatti e interessanti? Personalmente sarei disponibile a chiudere la mia esperienza e farla convogliare verso un contenitore più ampio, senza problemi. Anche perché unire forze, competenze, lettori e contatti potrebbe aiutare il nascituro progetto a sfidare più direttamente le testate tradizionali, ambendo magari a forme di sponsorizzazione utili a riconoscere in termini di rimborso il lavoro dei collaboratori. Anche questo sarebbe a mio avviso importante.

 

In quel caso però si porrebbe il problema di coordinare tutto ciò, questione che potrebbe essere ovviata con un po’ di buon senso. Ma ne resterebbe escluso comunque qualcuno che, vuoi per antipatie personali nascoste da pretestuosità ideologiche, vuoi per affezione al proprio nome e alle energie investite nel progetto personale, non rinuncerebbe facilmente al proprio “brand”. D’altro canto qualcuno potrebbe osservare che la proliferazione di nuove voci critiche, seppur disperse in migliaia di portali e blog, è un segnale apprezzabile di graduale presa di coscienza collettiva. Ma quanto poi si è in grado di raggiungere un pubblico sempre più vasto? Non si rischia di contendere lo stesso gruppo di lettori? Quanto questa presa di coscienza “virtuale” è in grado di tradursi effettivamente in una prassi politica collettiva? Vediamo ad esempio tre casi, pur con le loro singolarità: Michela Murgia alle regionali sarde, Claudio Borghi Aquilini alle europee e gli attivisti più “euroscettici” del M5S che non sono riusciti neppure ad ottenere un seggio nonostante il tanto baccano mediatico e di controinformazione “sovranista”.

Facciamo un esempio. Poniamo che in Italia ci siano cento blogger o esperti di decrescita. Ciascuna di queste cento persone crea un proprio spazio per parlare degli argomenti di competenza. Cosa accade? Succede che apparentemente avremo una maggiore effervescenza riguardo a certi temi, ma nei fatti non ci sarà che una frammentazione del pubblico potenziale, disperdendo in mille rivoli le energie possibili. Certamente come dici tu è difficile capire fin dove si può arrivare nell’opera di diffusione, ma credo che al di là della propaganda ufficiale una sensibilità “altra” sia sempre più presente e provare a dare una voce unica a questa sensibilità sarebbe una cosa ottima. Lavoro ancora più arduo è passare dalle sensazioni alle azioni organizzate, presi come siamo dal turbinio delle nostre incasinatissime esistenze. Penso allora al paradosso dell’enorme mondo coagulatosi attorno al M5S… possibile che la sua voce debba esser solo quella del blog di Grillo? Non sarebbe auspicabile che quel mondo emanasse un laboratorio di idee più partecipato, più legato alla elaborazione teorica? Questo mi sembra il primo punto da prendere in considerazione, ancor prima di una riflessione sulla praxis.

 

Comunque sia va dato atto che, nonostante i suoi limiti, il M5S è riuscito a trovare un fecondo ancorché instabile equilibrio tra identità del movimento e apertura a nuove idee. A differenza di tanti altri movimenti (per citarne uno “Per il Bene Comune”, che nel 2007 aveva un gruppo di simpatizzanti analogo al nascente M5S) il movimento grillino è riuscito a crescere esponenzialmente e ad affermarsi come principale forza di opposizione.

Concordo con te. Proprio perché movimento dalle grandi potenzialità (senza dubbio maggiori dei partiti residuali di estrema sinistra oramai strangolati dalle loro stesse contraddizioni, per non parlare della infrequentabile destra radicale) occorre chiedere ad esso ancora uno sforzo. Detto questo, in attesa di una vera e propria sintesi, auspicabile su più territori, non posso non notare il fatto che certe teorizzazioni, sinora escluse dalle classiche discussioni tra militanti, stanno entrando nel dibattito politico proprio grazie ai pentastellati. Una sensibilità ecologica, che vada oltre l’ambientalismo di facciata del grande associazionismo innanzitutto, ma anche l’interesse ad autori interessanti e fuori dalle conventicole come Preve, Fusaro, De Benoist, Massimo Fini, Giulietto Chiesa, Latouche, etc … È un bel passo avanti rispetto a Vittorio Zucconi e Scalfari!

 

Quanto è importante il linguaggio in tutto ciò?

È indubbiamente un elemento importante, soprattutto se ripensiamo ad esperienze passate, assurte a riferimento proprio per gli elementi di innovazione comunicativa che sono state capaci di apportare. Potremmo citare le avanguardie artistiche, la controcultura anglosassone degli anni sessanta e, in Italia, il movimento del ‘77. Naturalmente per stravolgere il titolo di un famoso saggio “il medium NON è il messaggio”: dunque ciò che occorrerebbe maggiormente è un pensiero che riuscisse a rompere l’incantesimo del politically correct, senza per questo ridursi a mera provocazione (i “gigioni” del pensiero alla Žižek, per intendersi, senza scomodare macchiette ben più imbarazzanti). Se forma e sostanza, però, viaggiano affiancate allora si può dare il via alla “festa della rivoluzione”!

 

Secondo Lei è possibile evitare sia di venire risucchiati nella critica interna al sistema – come osservavano i teorici della Scuola di Francoforte – magari nella forma della macchietta “intellettuale” con brevi comparse televisive rinchiuse in “gabbie” litigiose e confusionarie, sia di fuggire alla condanna di completa irrilevanza pratica o alla “gogna mediatica” cui sono sottoposti a turno le voci scomode? Gaber, in una canzone quasi sempre fraintesa, cantava “la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione (spazio d’azione)”. A Suo avviso, esiste la possibilità di avere spazi d’azione o, anche solo in via potenziale, di creare dei varchi effettivi nell’attuale orizzonte sociale? Su cosa occorre far leva per provare a resistere?

Non sono mai andato nella televisione “che conta”, dunque l’idea che ne ho è un’idea da esterno, ma quello che mi sembra piuttosto evidente è che tale medium sia capace allo stesso tempo di rendere una idea di nicchia patrimonio di massa e, al contempo, di distruggerla. Cosa fare dunque? Rifugiarsi nella torre eburnea oppure prestarsi a questo teatrino? Probabilmente la cosa migliore da fare sarebbe provare a usare a proprio favore i trucchetti del linguaggio televisivo, ma è opera che solo in pochissimi sono in grado di fare (mi rimane impressa nella mente la partecipazione, ripetuta, di Carmelo Bene al Maurizio Costanzo Show …). Riguardo ad altri spazi possibili è evidente che il web e i social offrono una piattaforma di visibilità più accessibile, ma personalmente sono dell’idea che tali mezzi siano veramente utili solo se affiancati alla vecchia comunicazione analogica (quella della stampa cartacea, per intendersi). Il web continua a darmi, paradossalmente, un senso di impermanenza, ma forse sono io troppo legato a forme vetuste.

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