Print Friendly, PDF & Email
aldogiannuli

Dopo il voto di domenica: M5s, che fare?

Aldo Giannuli

2014-05-23T204141Z 1771488945 GM1EA5O0CTW01 RTRMADP 3 EU-ELECTION-ITALY-k8LB-U43020146958015d0G-1224x916Corriere-Web-Roma-593x443Il risultato del voto di domenica scorsa non può essere minimizzato, ma non va neppure drammatizzato. Niente crolli psicologici ma neanche niente arrampicate sugli specchi per non guardare in faccia la realtà.

In primo luogo, l’argomento (usato tanto dal Pd quanto da Fi ed in parte dal M5s) per cui si tratta di elezioni amministrative che non hanno peso politico è una sciocchezza da accantonare: certamente le elezioni amministrative hanno dinamiche proprie e sarebbe arbitrario trasporre i risultati automaticamente sul piano politico; ma, quando indicano smottamenti troppo vistosi, vuol dire che esprimono tendenze destinate a riflettersi anche in sede politica.

In fondo, vorrei ricordare che la crisi della monarchia spagnola e la proclamazione della seconda repubblica furono provocate dal risultato delle elezioni amministrative del 1931. Ed anche in Italia, le regionali del 1975 furono la premessa della clamorosa avanzata del Pci nelle politiche di un anno dopo. Le comunali di Napoli e Roma del novembre 1993 segnarono l’ascesa del Msi (di lì a poco An) ed il definitivo tramonto di Dc e Psi, dati regolarmente ripetuti nelle politiche di 4 mesi dopo.

Qui siamo in presenza di dati astensionistici che non hanno precedenti e che colpiscono tutti i partiti, anche la Lega (che però li compensa abbondantemente con i voti sottratti a Pd, Fi e M5s).

Questo è indice di un terremoto in arrivo nella rappresentanza: in qualche modo il quadro istituzionale è destinato a mutare molto rapidamente, anche se è difficile capire che fisionomia assumerà. Però si capisce che il M5s ha compromesso, in qualche modo, la sua candidatura a guidare questo mutamento. Ho detto compromesso, non perso.

Il risultato è negativo. Certo, sappiamo che il M5s alle amministrative raccoglie solo una parte del tutto minoritaria dei consensi che affluiscono nelle politiche. Ma questo, non solo è comunque una criticità che va capita e risolta, perché vuol dire che il M5s non è in grado di fare un’offerta credibile a questo livello –e dunque lascia nelle mani degli altri l’articolazione del potere locale-, ma non è sufficiente a spiegare questa flessione che segnala una sostanziale perdita di consensi sul picco delle politiche ed anche sul risultato più recente e meno favorevole delle europee. E qui non serve nascondersi dietro il dito, o c’è qualcuno che pensa che, se ci fossero elezioni politiche domattina, il M5s balzerebbe di colpo oltre il 25%? Abbiamo capito tutti che c’è una perdita di consensi per la quale, probabilmente, farebbe fatica a superare l’asticella del 20%.

Il movimento deve confrontarsi con una situazione di perdita di consensi potenzialmente molto pericolosa, anche se tutt’altro che impossibile da capovolgere. Dunque, che fare per invertire la rotta?

Cerco qui di dare qualche consiglio di buon senso da persona esterna ma vicina al movimento e comincerò da cosa NON si deve assolutamente fare.

In primo luogo niente rimozioni, ma neppure niente drammi della disperazione: subire una sconfitta parziale può benissimo capitare e questa non è una disfatta, i margini di recupero ci sono abbondantemente.

In secondo luogo, niente recriminazioni, ricerche di capri espiatori e scambi di accuse. Per esperienza so che quando, dopo le sconfitte, si inizia con gli “E’ colpa tua” “No è colpa tua”, tutto diventa più difficile, anche l’analisi vera degli errori fatti. La prima cosa da fare è disporsi ad un confronto ampio e disteso, abbandonando tutti i tabù e rimettendo tutto in discussione, ma con spirito laico e senza rivalse. E’ il momento in cui tutti debbono riscoprire le ragioni per cui si sta insieme e cercare di uscirne con uno sforzo comune: se la carrozza su cui si stava viaggiando si è rovesciata sul fianco, non serve stare a discutere se è colpa del conducente, che non ha visto un sasso, o dei passeggeri che avevano messo troppi bagagli mal distribuendoli, questo, semmai lo si farà dopo, al momento serve che tutti si rimbocchino le maniche e spingano la carrozza in modo da raddrizzarla. Il problema non è tanto quello di cercare “chi” ha sbagliato, ma “cosa” c’è stato di sbagliato.

Oggi c’è chi propone di uscire dalle istituzioni per un nuovo Aventino. Dunque, l’errore sarebbe stato quello di presentarsi alle elezioni per organi costitutivamente incapaci di assumere decisioni politiche reali e, comunque, abitati da una massa indistinta di delinquenti con cui è impossibile capirsi su nulla. Insomma la dichiarazione di un fallimento. Ovviamente questo risolverebbe in radice il problema del calo dei consensi perché, la conseguenza logica è che non ci si presenterà più a nessuna elezione. Benissimo! Ma, allora, che si fa? Si prepara l’insurrezione armata? Lo sciopero della fame di massa? Si emigra in massa su un’isola deserta per fondare la colonia sociale, come tentarono alcuni anarchici dell’Ottocento? Si fa una novena alla Madonna di Pompei?

Sin qui il M5s, oltre che presentarsi alle elezioni, ha fatto giornate nazionali di lotta (come i “vaffaday”), comizi di massa di Grillo, sporadicamente ha partecipato a conflitti locali ed ha promosso continue consultazioni in rete. Ma, se sin qui, queste forme di azione politica non sono valse a ribaltare la situazione, perché mai dovrebbero risultare più efficaci lasciando il Parlamento? E per di più dopo una dichiarazione di fallimento.

Passare ad una strategia tutta referendaria? Con un movimento debolissimo sul territorio e forte solo sulla rete sarebbe difficile raccogliere le firme necessarie e proibitivo affrontare la campagna elettorale e, per di più, senza neppure la stampella della presenza in Parlamento. Vorrei ricordare che la strategia referendaria fu la tomba dei radicali trenta anni fa. A volte studiare la storia serve a qualcosa.

Puntare ai conflitti sociali? Sarebbe già più realistico e interessante ma, il M5s non ha assolutamente l’articolazione organizzativa necessaria e neppure il fattore umano necessario (quanti attivisti del movimento hanno idea ci come si sta in una assemblea, di come si organizza uno sciopero o si prepara un corteo?).

Di fatto, uscire dal Parlamento e rinunciare alla partecipazione elettorale sarebbe una fuga nel nulla e preluderebbe solo allo scioglimento del M5s: proprio quello che i suoi avversari vorrebbero. Può darsi che una dignitosa eutanasia sia preferibile ad una lunga e dolorosa agonia, ma almeno dichiariamolo. Dunque, non diciamo fesserie.

Veniamo al che fare. Innanzitutto capire l’errore di partenza: l’illusione di una marcia che portasse in breve il movimento di vittoria in vittoria sino al trionfo finale. Questa illusione si basava su un’idea semplicistica della politica, per cui la contraddizione è tutta fra una casta unita dai suoi privilegi ed avvolta nel fango della sua abiezione morale, ed un popolo altrettanto unito nella sua ansia di giustizia e reso invincibile dalla sua superiorità morale. Ecco: questa è una favola che non sta in piedi. Meglio “il gatto con gli stivali”.

Il popolo non esiste come realtà unitaria, è un insieme di interessi diversi e talvolta contrapposti, è attraversato da visioni diverse del mondo, ha bisogni ed aspettative diversi e diversamente vissuti.

“Noi siamo il 99% e voi l’1%” gridavano gli occupanti di Wall Street due anni fa: era una scemenza totale!

“Il partito degli onesti”: altra scemenza totale ripetuta recentemente da Landini che un genio non è.

Convinciamoci tutti di una cosa: la politica è un campo di estrema complessità ed i problemi complessi, per definizione, non hanno soluzioni semplici. Per cui, il popolo come soggetto politico di cambiamento, come potere costituente, non è un dato di natura che bisogna scoprire e portare ad autoconsapevolezza, ma, inevitabilmente, è una costruzione progettuale che selezioni ed ordini interessi, che individui opportune mediazioni fra gli uni e gli altri, che abbia una conseguente proiezione istituzionale. Tutte cose che sottintendono la costruzione di una cultura politica all’altezza della sfida posta, una capacità di comunicazione capace di raccogliere consensi, capacità mediazione politica e di tessere alleanze. Non è vero che “per restare sé stessi” occorra non negoziare mai niente con nessuno, è un’altra scemenza, come quella di  Bertinotti che si vantava di non aver mai firmato alcun accordo in tutta la sua vita sindacale (che bel sindacalista!). Se per fare politica bastasse conservarsi duri e puri, sbraitare e denunciare sempre, non avremmo problemi e la rivoluzione l’avremmo fatta da tempo. Ma, al solito, le cose sono meno facili: occorre saper mediare senza mai vendersi l’anima, interloquire con tutti restando sempre sé stessi, sapere essere intransigenti sui fini strategici ma flessibili nella tattica, che non è rinuncia ai propri fini, ma ricerca del sentiero per arrivarci.

E questo a sua volta richiede forme di azione, comunicazione, formazione delle decisioni che consentano tutto ciò. Dunque, un modello organizzativo idoneo ed è bene dirsi che la scoperta della rete come meccanismo di formazione di un soggetto politico collettivo è una idea geniale, ma che questo non sostituisce le esigenze dell’organizzazione e della presenza territoriale. Questo non è il rinnegare una propria originalità, che deve invece restare, ma integrare queste intuizioni con le forme invarianti della politica.

Ed allora, che si metta da parte ogni tabù e si inizi una discussione franca, laica e leale, senza dar vita a conventicole e correnti ma cercando tutti insieme la soluzione ed aprendosi anche all’esterno.

Coraggio: la soluzione c’è e bisogna aver paura solo di una cosa: di aver paura.

Add comment

Submit