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orizzonte48

Le cause e gli effetti della crisi

La Corte Costituzionale li scambia e si arrende al più €uropa

Quarantotto

state calmi e soltanto dissonanza cognitiva1. Sulla sentenza della Corte costituzionale che rimuove il blocco alla contrattazione nel pubblico impiego, - senza però ammettere una tutela ripristinatoria del diritto costituzionale violato, nei normali termini della restituzione retroagente al momento di prima applicazione della norma illegittima-, si stanno già versando fiumi di inchiostro.

Persino un quotidiano on line piuttosto conservatore - e che prevalentemente dà voce a chi ritiene che i sindacati siano il male in Italia e che la deflazione salariale (cioè intaccare il deprecato "costo del lavoro") sia la invariabile panacea di ogni male italiano - si accorge che ormai l'art.81 Cost, quello che recepisce il fiscal compact, diviene un principio superiore a cui devono piegarsi tutti gli altri contenuti nella Costituzione.

 

2. Il problema è che pare invece che non se ne sia accorta la Corte. Perchè, se se ne fosse accorta, dovremmo presumere che si renderebbe altrettanto conto del fatto che, in precedenza e anche molto di recente, essa stessa aveva affermato che (sentenza n.284 dell'ottobre 2014):

"Non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un «limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione» (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n.170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (artt. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988)."

 

3. Ora se ci sono delle (tradizionali) certezze sul novero dei diritti inalienabili della persona, in base alle norme costituzionali "fondamentalissime", queste certezze "dovrebbero" riguardare proprio la tutela del lavoro su cui si fonda la nostra sovranità repubblicana (art.1 Cost.) e il primo e prioritario diritto enunciato in Costituzione (art.4).

Naturalmente la Corte non avrà potuto non svolgere il suo ragionamento sulla base degli artt.36 e 39 Cost., il primo sulla retribuzione equa e sufficiente a garantire al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa e il secondo sulla libertà e legittimità della tutela sindacale, che trova la sua prima espressione nella contrattazione collettiva che la norma censurata aveva posto in sospensione reiterata; gli artt.36 e 39, tuttavia, secondo elementari e consolidati principi di interpretazione letterale, logica e sistematica della stessa Costituzione, costituiscono la naturale proiezione (o attuazione) degli artt. 1 e 4 sopra citati, come illustrano in lungo e in largo i lavori dell'Assemblea Costituente

Le cronache ci dicono che la Corte avrebbe prescelto di enfatizzare l'art.39 più che l'art.36; in sostanza, non sarebbero state tanto poste in pericolo la equità e l'adeguatezza della retribuzione, ma la incomprimibilità della libertà e della tutela sindacale. Su questa strada, poi, si sarebbe affermata la "sanabilità" del blocco 2010-2013, in quanto misura temporanea giustificata dalla crisi economica (come se la crisi fosse mai risolvibile tagliando il reddito dei lavoratori che costituisce parte essenziale del PIL, che era finito in segno negativo...proprio a seguito del calo dei redditi e della disoccupazione dilagante che, a sua volta, è determinata dalla flessione della domanda...connessa al calo dei redditi. Ma è inutile: la Corte questi problemi, tradizionalmente, non pare in grado di afferrarli e prosegue a fare affermazioni opposte rispetto a questi elementari e notori principi economici).

 

4. Qualcosa mi dice però che difficilmente, nel menzionare gli artt. 36 e 39, la Corte avrà parlato  dei suddetti antecedenti logici,  così ovviamente ritrovabili negli artt. 1 e 4: lo suppongo perchè, se l'avesse fatto, avrebbe dovuto ammettere di essersi incamminata su una via che porta alla negazione di quanto aveva affermato sui "controlimiti all'ingresso delle norme dell'Unione europea" - tanto più, addirittura, introdotti in Costituzione! - e avrebbe quindi dovuto porsi il problema della legittimità del vincolo esterno (per quanto costituzionalizzato, ma, nondimeno, pur sempre sindacabile, secondo consolidati enunciati della Corte, alla luce dei superiori principi della Carta, come abbiamo visto qui).

 

Ma "porsi il problema" (del vincolo esterno portato fino a questo punto di evidenza, oltretutto dopo 30 anni di silenzio omissivo, o quantomeno di ritardo "culturale", sul punto), avrebbe costretto la Corte a uscire dal guado per arrivare ad una sponda dove albergasse il ripristino della più fondamentale legalità costituzionale (quella dei diritti inalienabili della persone e dei principi fondamentali che costituiscono i controlimiti al diritto europeo).

E questo punto lo abbiamo già visto: dunque, senza grossi equivoci possibili, la Corte accetta di contraddirsi (probabilmente tacendo sulla appena segnalata contraddizione) e preferisce costruirsi una discrezionalità (apparente), sull'effetto retroattivo delle pronunce di illegittimità costituzionale, che in realtà è un piegarsi al fatto compiuto della prevalenza del vincolo esterno quale che esso sia.

 

5. Ribadiamo dunque quanto osservato sulla questione "pensionistica", ma che vale a fortiori su quella delle retribuzioni dei lavoratori in servizio e sulla tutela sindacale ad essa connessa:

"Una discrezionalità di questo tipo non riguarderebbe la, sempre possibile, incerta previsione sulla esatta interpretazione delle norme costituzionali nel caso concreto, cioè la naturale possibilità di scelta interpretativa in funzione delle vicende socio-economiche in evoluzione nel tempo, ma la fase successiva alla declaratoria di illegittimità costituzionale; quella conseguenziale "necessitata",- secondo l'art.136 Cost. e secondo il principio di rigidità dellaCostituzione (art.138) e persino di non revisionabilità della stessa (art.139)-, di reintegra del diritto affermato e dunque "tecnico-finanziaria a valle"

Parliamo quindi delle conseguenze ripristinatorie che la Costituzione prevede come effetto necessario della tutela costituzionale già accordata (art.136 Cost.; ciò ovviamente concerne, spero sia chiaro, l'applicabilità delle norme dichiarate illegittime nei rapporti pendenti, certamente non esauriti, e controversi di fronte ai giudici "ordinari" che hanno rimesso la questione alla Corte). E' chiaro che la stessa Corte, di fronte al sistematico riproporsi di questa esigenza tecnico-finanziaria, si troverebbe nell'alternativa, molto pratica:i) o, (per evitare il protrarsi di questa prolungata incertezza sulla effettività dei principi costituzionali), di rinunciare progressivamente a interpretare le norme costituzionali in senso incompatibile con la radice €uropea di questa linea di politica economico-fiscale, accettando de facto la novazione del principio fondamentale unificante della Costituzione: il che significa una novazione da quello lavoristico e quello della conservazione "ad ogni costo" della moneta unica, così come ratificato nel fiscal compact-pareggio di bilancio. Con ciò, però, rinuncerebbe al ruolo che la stessa Costituzione le ha assegnato, divenendo un giudice del tutto soggetto alla superiorità incondizionata dell'intero diritto europeo;ii) ovvero, di prendere una posizione che ribadisca il filtro dell'art.11 e dell'art.139 Cost. - da lei stessa affermato in più pronunce-  confermando il paradigma della Repubblica fondata sul lavoro (artt. 1, 3 e 4 della Costituzione); ma questo solo affrontando il "cuore del problema":

"...cioè il legame tra:

- livello del bilancio fiscale, ridotto col "consolidamento" (quantomeno nelle intenzioni dichiarate, poichè i risultati, a causa dello strutturarsi di un elevato livello di disoccupazione, sono in pratica opposti o incongruenti, come prova l'aumento del rapporto debito su PIL e il costante mancato verificarsi della riduzione del deficit annuale programmato nelle stesse manovre finanziarie);

- vincolo a monte del consolidamento, cioè il pareggio di bilancio (in tutte le sue forme, comunque riduttive dell'indebitamento annuo);

- e disoccupazione-livello delle retribuzioni (e quindi anche del successivo trattamento pensionistico);
 ..."dovendo" chiarire, a se stessa e alla comunità sociale intera, coinvolta nella tutela costituzionale, il perchè si sia adottato il paradigma del pareggio di bilancio, e comunque (da decenni, in un crescendo, niente affatto casuale ed estraneo al meccanismo prevedibile della moneta unica) della riduzione/compressione del deficit pubblico; cioè una politica fiscale che non promuove certo la crescita, l'occupazione e la tutela reale del reddito da lavoro". 

 

6. Dunque la Corte accetta la "novazione" del principio fondamentale unificante del modello socio-economico costituzionale. Inutile affaccendarsi eccessivamente: se la tutela reintegrativa non vale (più) per il diritto al lavoro - e ciò preannuncia anche il modo di futura evetuale lettura della Corte sul jobs act, qualora le fosse sottoposto-, ancor più non vale,  implicitamente ma necessariamente, per ogni altro diritto di "minor forza" nell'ordito costituzionale.

Ma è questa una buona scelta nell'interesse della Nazione? 

Certamente no. 

Come abbiamo anticipato in precedenza: aderire alla superiorità rimodellatrice del pareggio di bilancio (o anche solo semplicemente della copertura in pareggio di bilancio di ogni spesa pubblica prevista dalle norme costituzionali), non è qualcosa che può giustificarsi come terapia ad uno stato di crisi e, quindi, come il rimedio ad una (molto presunta...contra facta concludentia) situazione transitoria, creata da strane congiunture astrali o metereologiche (come si credeva, rispetto alle crisi economiche cicliche, prima di quella del 1929 e dell'avvento dei modelli keynesiani basati sulla domanda aggregata); la crisi economica italiana, infatti, non è una casualità esogena alle politiche fiscali ed economiche imposte dall'adesione all'euro, da cui proprio il pareggio di bilancio ci tirerebbe fuori.

E' notoriamente vero il contrario.

 

7. La Corte si è fatta evidentemente inibire dalle polemiche scaturite sul "costo" per le finanze pubbliche della sentenza sull'adeguamento pensionistico. In sede di giudizio si sono tirate fuori stime di un onere, a titolo di restituzione del non corrisposto ai pubblici impiegati a seguito del blocco, di 35 miliardi. A me pare che questa stima sia poco più di una "facezia". 

Basti dire che i giornaloni avevano diffuso che la perdita di soldi per gli stessi dipendenti ammontava a 5000 euro in media (da ritenere lordi, cioè anteriormente alla tassazione), a partire dal blocco iniziale, posto da Tremonti nel 2010 (e prorogato dal governo Letta nel 2013, alla scadenza del primo): cosa che, a essere pessimisti, avrebbe condotto a restituzioni, per tutto il periodo interessato, pari a circa 15-16 miliardi.

Il paradosso è che l'effetto di restituzione costituisce, per definizione, una spesa una tantum e quindi non "sfascerebbe" i conti dello Stato in modo definitivo anche in assenza di copertura: ed anche in sede europea, il carattere una tantum, se così spesso mal considerato sul lato delle entrate, cioè della politica "austera" e dei saldi conseguenti, non si capisce perchè (ma stiamo ironizzando), non dovrebbe altrettanto non essere considerato preoccupante sul lato delle uscite, appunto, non strutturali e, quindi, non rilevanti ai fini di un'eventuale procedura di infrazione al limite del deficit (come insegnano Francia, Spagna e, in realtà, ogni altro paese dell'eurozona che non sia l'Italia; almeno tra quelli con una posizione netta sull'estero negativa e con un rapporto debito/PIL in crescita; rammentiamo che Spagna e Francia, e non solo, hanno visto aggravarsi questo rapporto, in termini di variazione dall'inizio della crisi, in misura molto più ampia che l'Italia). 

Nel corrispondere queste somme, infatti, il nostro deficit nominalmente si sarebbe aggravato, grosso modo, di 1 punto di PIL. 

Secondo le stime attuali (che però, come tutti gli attestati "ufficiali" sulla contabilità pubblica, a cominciare dal DEF, vanno presi con beneficio di inventario), questa spesa una tantum, porterebbe (o avrebbe portato, più esattamente) il nostro deficit a 3,6 punti di PIL: sempre abbondantemente meglio di quanto registrato, nel 2014, - per tacere degli anni precedenti- da Spagna e Francia.

Ma, in realtà, questo punto di PIL di spesa pubblica aggiuntiva a favore del lavoro, avrebbe un moltiplicatore fiscale di circa 1,7-1,8. Ergo, aumenterebbe il PIL in tale misura. Poichè, com'è noto, la pressione fiscale "effettiva"  (cioè quella sui redditi che, come quelli dei lavoratori dipendenti, costituiscono piena e inelusa base imponibile), secondo la Corte dei conti, sarebbe pari al 53% (almeno nel 2013), da ciò consegue che le entrate sarebbero ragionevolmente accresciute di circa 0,9 punti di PIL (e facciamo un calcolo approssimativo per difetto, potendo, per talune voci autorevoli, considerarsi un moltiplicatore di breve periodo persino superiore).

 

8. Ne consegue che il PIL sarebbe aumentato, nell'anno successivo alla restituzione integrale, di circa 1,8 punti e, a seguito del gettito fiscale aggiuntivo da ciò derivante, il deficit non sarebbe stato di 3,6 (cioè integralmente aggravato da tutto l'onere della restituzione), ma, all'incirca, "peggiorato"di...o,1 (zero virgola uno) punti di PIL.

In compenso, per effetto di una crescita aggiuntiva di 1,8 punti di PIL, il rapporto debito/PIL sarebbe matematicamente migliorato:  il numeratore, infatti, avrebbe subito un aggravio (in variazione rispetto alla precedente situazione) di 0,1, ma il denominatore sarebbe aumentato 18 volte tanto (sempre in variazione, positiva, rispetto alla situazione in precedenza prevista).

Ma questo non può che condurci a concludere che la Corte non riesce, culturalmente, a comprendere i meccanismi causali della crisi (e forse non vuole, presa com'è dalla inmpressionante tenaglia dell'offensiva propagandistica filo-europea di governo e media, che compiono la consueta narrazione "siamo in crisi perchè non abbiamo fatto le riforme")...E continua a credere che il "più €uropa" e i "conti in ordine" siano la soluzione invece della causa della stessa.

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