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sebastianoisaia

Contro la Costituzione, quella di ieri, di oggi e di domani

di Sebastiano Isaia

med2Tutti questi argomenti, che ci si vuol
proporre come questioni della massima
importanza per la classe lavoratrice, in
realtà presentano un interesse di portata
essenziale solo per i borghesi (F. Engels).

Leggo da qualche parte:

«La posta in gioco è decisiva. Non ci troviamo di fronte ad un passaggio qualsiasi della politica italiana, ma di fronte al tornante storico che definirà il nostro modello di sviluppo di qui ai prossimi decenni [nientedimeno!]. È una partita, quella del referendum, in cui la sinistra di classe gioca oggettivamente un ruolo subalterno e minoritario. Si tratta di mobilitare decine di milioni di voti, un campo dunque fuori dalla portata degli attuali movimenti di classe. Nonostante ciò, il contributo che da questi potrà venire favorirà quel processo che potrebbe aprirsi con l’eventuale vittoria dei NO. Non giocarsi nemmeno la partita, al contrario, regalerà quei NO alla rappresentanza politica della destra reazionaria o populista. La più classica delle eterogenesi dei fini».

Quando la mosca cocchiera parla di «eterogenesi dei fini» non si può che sghignazzare e lasciarla al suo gioco virtuale preferito: “fare la storia” – o quantomeno provarci.

Qui di seguito svolgerò alcuni ragionamenti, per dirla con il filosofo di Nusco, con l’obiettivo di convincere anche un solo lettore (meglio se non già convinto “di suo”) circa la natura ultrareazionaria della contesa referendaria sulla riforma – o «controriforma» – della Costituzione.

In estrema sintesi: Sì e No per me pari sono. Come si vedrà, sono tutt’altro che indifferente nei confronti dell’ennesima “festa della democrazia”: intendo piuttosto aggredirla criticamente, partendo da presupposti politici a dir poco impopolari – la cosa non mi sfugge, né mi deprime: ho una certa confidenza con l’impopolarità – e certamente estranei tanto alla “destra” quanto alla “sinistra” – compresa quella cosiddetta «di classe».

All’indomani del referendum britannico sulla Brexit, Jean-Claude Juncker, il sempre più “simpatico” Presidente della Commissione Europea, dal pulpito del Parlamento Europeo urlò ai «tristi eroi della Brexit [leggi Johnson e Farage], questi nazionalisti di retroguardia», che «i veri patrioti» non sono come i topi che abbandonano la nave quando inizia a imbarcare acqua. Ebbene, all’avviso di chi scrive i nullatenenti d’Europa dovrebbero liberarsi dall’abbraccio soffocante d’ogni tipo di patriota, sovranista o europeista che esso sia. La nave capitalistica, che batta bandiera sovranista o che sventoli il vessillo dell’Unione Europea, non va abbandonata (non è proprio possibile!), ma affondata senz’altro. L’umanità è già da molto tempo nelle condizioni di imbarcarsi su una nuova nave per intraprendere un nuovo viaggio, che lo porti finalmente fuori dalla maligna dimensione del Dominio. E tuttavia! «Basterebbe allo spirito un piccolo sforzo: ma questo sforzo pare di tutti il più difficile» (Horkheimer, Adorno). Personalmente mi accorgo di questa tragedia dei nostri tempi soprattutto quando osservo i cittadini diventare gregge elettorale – o referendario – chiamato a “scegliere” l’albero a cui impiccarsi: “destra”, “centro”, “sinistra”; Sì/No, dentro/fuori, euro/lira…

«Meglio allora lo Stato autoritario, meglio il fascismo?» A questa obiezione rispondo con il solito Marx: «Si può essere nemici del regime costituzionale senza essere per questo amici dell’assolutismo» (1). Bisogna liberarsi, almeno col pensiero, dalle alternative poste dal Dominio, e prendere congedo dalla cattiva logica del “male minore”. Lo so, forse pretendo troppo. Ma sono fatto così.

D’altra parte, considerata dalla prospettiva dell’emancipazione universale (ma anche, più “laicamente”, da quella storica), il regime democratico non appare affatto come il male minore, ma come un eccellente strumento di controllo sociale e di gestione dei conflitti sociali (2), e chi oggi denuncia la «crisi della democrazia», una democrazia ridotta all’impotenza dagli interessi economici (che grande scoperta!), e rivendica il ripristino della «vera democrazia», mostra la sua completa cecità circa 1. la natura della democrazia nelle società classiste e 2. l’essenza del processo sociale capitalistico. È questo processo sociale, con inclusa «vera democrazia», che ha precipitato le classi subalterne di tutto l’Occidente nella bella condizione che tutti possono ammirare. In ogni caso, la logica del male minore ha prodotto i risultati che abbiamo dinanzi agli occhi: ognuno può giudicarli come crede (3). Personalmente trovo più fecondo riflettere intorno al carattere necessariamente totalitario, in una accezione squisitamente sociale (non politologica) del concetto, dei rapporti sociali vigenti in tutto il mondo; è questa natura che rende omogenei tutti i Paesi del mondo, al di là della forma politico-istituzionale dei loro Stati. In ogni caso, sono completamente sordo al richiamo delle sirene della (ennesima!) Nuova Resistenza, e dico, con il poeta: Tutto ciò che è in crisi merita di andare alla malora. Coloro che vanno in soccorso della Costituzione e della boccheggiante democrazia, «rassomigliano a quel vecchio che, per riacquistare la forza giovanile, si fece portare i suoi vecchi vestiti da fanciullo, cercando di ricoprire le sue membra flosce» (4).

Mettere la Costituzione al riparo – almeno per qualche anno ancora – da più o meno radicali “riforme costituzionali” non significa, per i lavoratori e il proletariato in generale, compiere un passo nella giusta direzione; non avrebbe il significato di «invertire la rotta e ridare protagonismo alle classi subalterne», come ho letto da qualche parte; partecipare positivamente (naturalmente sostenendo il Fronte Popolare del No!) non avrebbe il significato di «trasforma una battaglia democratica in una battaglia di classe»: tutto ciò avrebbe invece, a mio avviso, il significato di ribadire, rafforzandola, la subalternità sociale e politica di chi potrebbe essere tutto mentre continua a rimanere nella sciagurata condizione di “capitale umano” da “mettere a valore”.

L’”autocritica” che Sergio Marchionne ha consegnato sabato scorso alla futura leadership imprenditoriale e alla società tutta dal pulpito della Luiss, è davvero un manifesto di cinismo, ricordando sempre che il cinismo non alberga tanto nelle parole chiamate a dar conto della cosa, ma nella cosa stessa, ossia, nel caso di specie, nel Capitalismo (senza altre inutili/forvianti aggettivazioni, tipo “finanzcapitalismo”, “neoliberismo”, e quant’altro): «Il potere che il libero mercato assicura in un’economia globale non è in discussione [ci mancherebbe!]. Nessuno può trattenere il mercato o frenarlo, né cambiare le modalità con le quali funziona [una frecciata antistatalista e antidirigista che neanche mi sfiora]. Un sistema che per secoli si era basato su integrità, responsabilità e fiducia [altro che «legge ferrea del profitto», Carletto!] all’improvviso [!] è stato completamente ribaltato da due fattori: l’affermarsi di una cultura egocentrica e guidata dall’avidità [come sempre, la cultura determina tutto: altro che “materialismo storico!”], e l’inadeguatezza dei meccanismi di pianificazione e controllo a livello di consigli di amministrazione. Gli eventi hanno sottolineato l’esigenza di rivedere il capitalismo stesso [che coraggio! che radicalità di pensiero: altro che Thomas Piketty], il ristabilimento dei mercati come struttura portante che disciplina le economie ma non la società. Esiste un limite oltre il quale il profitto diventa cupidigia e coloro che operano in un libero mercato hanno anche l’obbligo di agire entro i limiti di ciò che una buona coscienza suggerisce. Tutti noi dobbiamo capire che non potranno mai esserci mercati e crescita razionali e benessere economico se una vasta parte della nostra società non avrà niente da contrattare con l’altra se non la sua stessa vita» (5). Ecco dunque cos’è la vita per chi vive di salario! Riprenderò indirettamente i temi posti sul tappeto dal “revisionista” Marchionne, che com’è noto sostiene le ragioni del Sì («condivido alcune delle scelte che sono state fatte per cercare di alleggerire il costo di gestione di questo Paese. Non voglio giudicare se la soluzione è perfetta, ma è una mossa nella direzione giusta»), nel corso della riflessione che segue, la quale intende portare un po’ d’acqua al mulino della tesi che così sintetizzo: per i subalterni la «direzione giusta» non è quella indicata dai partigiani del Sì e dai partigiani del No.

 

1. Sulla pseudo dialettica “nemico principale-nemico secondario”

Chi scrive ha ormai una certa età, purtroppo, e di nemici ritenuti (da chi si intende di “politica rivoluzionaria”, beninteso) contingentemente “principali”, da distruggere per così dire in linea preferenziale, magari stringendo un’alleanza “tattica” (o semplicemente “di fatto”) con i nemici considerati momentaneamente “secondari”, ne ha visti tanti. Ad esempio, sempre chi scrive, ricorda che molti sinistri cosiddetti radicali degli anni Settanta-Ottanta erano convintissimi che una volta che fosse crollato il “regime democristiano” (servo dei padroni e degli americani, nonché corrotto, clerico-fascista, stragista e molto altro ancora), sarebbe inevitabilmente entrata in crisi l’intera società italiana, con ciò che ne sarebbe seguito necessariamente in termini di “lotta di classe rivoluzionaria”. Di qui, sostenevano costoro, la necessità di appoggiare “tatticamente” ogni fenomeno politico e sociale che fosse stato in grado di indebolire quel famigerato “regime”. Alcuni sinistri particolarmente “dialettici” giunsero a considerare il “Craxi di Sigonella” (ottobre 1985) un’ottima carta da giocare in chiave antisistema, e proposero alle “avanguardie rivoluzionarie” di praticare un “entrismo” ad ampio spettro davvero spericolato – in realtà semplicemente demenziale, o, più correttamente, conforme all’essenza ultrareazionaria del loro modo di concepire la società, la “rivoluzione sociale”, il “socialismo”. L’astuzia delle mosche cocchiere a volte sa essere davvero al di là del bene e del male. Detto per inciso, fino al giorno prima gli stessi “entristi” avevano considerato “Benito” Craxi il male assoluto (soprattutto a causa del suo “decisionismo”), secondo uno schema ideologico dal quale essi non si libereranno mai. La loro risposta standard alle obiezioni dei critici era: «Compagni, fare politica significa sporcarsi le mani per fare avanzare, anche solo di un millimetro, la rivoluzione. Chi intende influenzare concretamente il processo sociale deve scendere dal Cielo della teoria, e sperimentare il duro terreno della prassi. E poi, solo chi non fa, non falla!» Certo. Ma c’è modo e modo, che diamine! O forse si tratta del fatto che gli abissi dell’agire “dialettico” sono destinati a rimanere inaccessibili a chi scrive. Che peccato!

Abbiamo visto – ma anche capito? – come sono andate a finire le cose a proposito di regime democristiano. Il noto “Quotidiano comunista”, che per decenni aveva versato lacrime amare pensando alla triste prospettiva di “morire democristiani”, dinanzi agli esiti politici di Tangentopoli finì addirittura per rimpiangere la “Prima Repubblica”, la quale era almeno riuscita a mettere degli argini alla violenta espansione del “neoliberismo”; dalle pagine del Manifesto vennero giù nuove lacrime di dolore di fronte alla sciagurata prospettiva di “morire berlusconiani”. Adesso, a quanto pare, è il turno di Renzi e del “renzismo”: “moriremo renziani?” Di certo, di questo passo, moriremo tutti sudditi del Moloch capitalistico.

Un altro inoppugnabile fatto è che molti sinistri hanno eletto Matteo Renzi a loro nuovo nemico principale, dalla cui caduta si aspettano addirittura la frantumazione dell’Unione Europea: «altro che Brexit!» Al riguardo, le ultime dichiarazioni di Joseph Stiglitz, economista americano già premio Nobel nel 2001, hanno mandato in visibilio i tifosi dell’antirenzismo declinato anche in chiave sovranista. Come sempre, è soprattutto il “decisionismo” ciò che i difensori della Costituzione «più democratica del mondo» rimproverano al Premier di turno, il quale si trova puntualmente a fare i conti con un sistema politico-istituzionale che complessivamente mostra, ormai da svariati lustri, di non poter tenere il passo con il processo sociale mondiale.

Leggo da qualche parte:

«Vale la pena di continuare la battaglia intrapresa contro la UE, contro il PD, contro banche e padroni; vale la pena di votare no al referendum, mandare a casa Renzi e il suo governo e inserirci nelle contraddizioni che si apriranno nel mostro d’acciaio dell’austerity, dell’impoverimento e della UE».

Lascio volentieri questa pia illusione a chi l’ha concepita. L’alternativa, ovviamente e all’opposto di come piace pensarla alle mosche cocchiere evocate sopra, non si pone nei termini del fare o del non fare politica; dell’essere “attendisti” oppure “movimentisti”, dell’essere “realisti” e “dialettici” anziché “astratti” e “adialettici”, di perseguire la costruzione di una “linea politica rigorosamente di massa” piuttosto che praticare il settarismo inconcludente dei puristi. «Chi non fa ha già perso la scommessa». Giusto! Ma si tratta di fare la cosa giusta, e non di muoversi sulla scorta di un’ideologia che da decenni mostra tutta la sua radicale derivazione borghese – magari attraverso la mediazione dell’egemonia gramsciana, peraltro nella sua versione, particolarmente reazionaria, di Togliatti e dei suoi successori. Fare la cosa giusta per me ha un solo significato, questo: promuovere e appoggiare tutte quelle iniziative politiche e sociali in grado di favorire l’autonomia di classe, di svelare agli occhi dei dominati la vera natura della democrazia rappresentativa, dello Stato, dei partiti e dei sindacati che sostengono i superiori interessi generali del Paese. «Bisogna votare NO nel referendum costituzionale per riconquistare l’autonomia politica ed economica del nostro Paese contro la tirannia tecnocratica sovranazionale e dei trattati europei»: è esattamente contro questo indirizzo sovranista/nazionalista che mi batto. Da sempre lotto contro la logica «del nostro Paese», degli «intessi generali del Paese», comunque declinati, e invito a guardare l’antagonismo fra le classi da questa peculiare prospettiva: non è affatto vero che è impossibile radicare fuori dal terreno della realpolitik e delle compatibilità le lotte immediate dei lavoratori e dei proletari in genere contro gli effetti della crisi. Sostenere davanti ai lavoratori che «l’entrata in vigore dell’euro è stato un inganno», significa potenziare la loro attuale debolezza politico-sociale, e così rendere più agevole la prassi del Dominio, il quale ama usare gli sfruttati contro i capri espiatori di turno: gli speculatori, i tedeschi, la casta, i poteri forti, ecc., ecc., ecc. L’inganno da mettere in luce è semmai il cosiddetto interesse generale del Paese, comunque “declinato”, eventualmente anche in chiave (pseudo) rivoluzionaria, anzi: soprattutto in quella guisa. Il concetto di Paese (come quello di Patria e di Popolo) si presta bene come schermo ideologico dietro il quale celare la realtà della divisione classista della società. I nullatenenti non hanno alcun interesse a coltivare la logica ultrareazionaria del «nostro Paese».

Mutuando Karl Kraus, sostengo che il sovranismo è un fiotto ideologico in cui ogni altro pensiero annega. In ogni caso, sovranisti ed europeisti per me pari sono, nel senso che li concepisco e li combatto come facce di una stessa cattiva medaglia. Ecco perché l’invito rivolto alla sinistra da Carlo Formenti, a «lavorare per un’alterativa populista di sinistra» in grado di contrastare il «monopolio della rivolta contro la tecnocrazia europea», che oggi appare scivolare verso il «populismo di destra», mi lascia del tutto indifferente, per non dire altro. «Il vero rischio non è il ritorno del fascismo ma che un eventuale trionfo delle destre populiste non servirebbe in alcun modo a contrastare il dominio del finanzcapitalismo (abbiamo dimenticato che il vero nemico è questo?). Questo dovrebbe essere compito nostro, se e quando ci sbarazzeremo del ciarpame ideologico di una sinistra mummificata». Non essendo chiamato in causa dalle preoccupazioni di Formenti, mi tengo ben volentieri il mio «ciarpame ideologico», che certo non baratterei mai con il ciarpame ideologico della sinistra, europeista o sovranista che sia.

 

2.Costituzione e globalizzazione capitalistica

Scrive Sergio Cesaratto:

«Presa alla lettera, la tradizione marxista respinge oltraggiosamente l’idea dell’identificazione della classe lavoratrice col proprio Stato nazionale. […] Naturalmente Marx ed Engels non potevano esulare dalle lotte nazionalistiche, a cominciare dalle aspirazioni tedesca e italiana all’unificazione. Ma la prospettiva dello Stato nazionale era per loro al massimo una tattica, e non una strategia. Pur tuttavia, nella Critica al Programma di Gotha, dopo aver criticato i termini del tutto generici con cui il Programma della socialdemocrazia tedesca aveva affiancato la lotta internazionalista a quella nazionale, Marx ammette che: ‹S’intende da sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma “per la forma”›. La si metta come si crede, il passaggio è un riconoscimento impegnativo. Nel lungo periodo siamo tutti morti, come dirà qualche anno dopo Keynes. E la “forma” è spesso “sostanza”, ci dice il buon senso».

Com’è noto, Marx, sulla scia di Hegel, diffidava del buon senso, e a giusta ragione, a quanto pare. Intanto vediamo come l’internazionalista di Treviri concludeva il suo ragionamento, che Cesaratto cerca ridicolmente di cucinare in salsa sovranista:

«Ma l’ambito dell’odierno Stato nazionale, per esempio del Reich tedesco, si trova a sua volta, economicamente, nell’ambito del mercato mondiale, e politicamente “nell’ambito del sistema degli Stati”. […] L’intero programma, malgrado tutte le chiacchiere democratiche, è appestato completamente dalla fede del suddito, proprio della setta di Lassalle, verso lo Stato o, cosa non certo migliore, dalla fede democratica nei miracoli, oppure è piuttosto un compromesso tra queste due specie di fede nei miracoli, ugualmente lontane dal socialismo» (6).

A Marx – come a ogni anticapitalista degno di tale impegnativa qualifica – appariva come ovvia la circostanza per cui «la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta». E difatti, l’autentico “internazionalismo proletario”, non quello parolaio affettato da certi intellettuali sinistrorsi, si dà in primo luogo come irriducibile antagonismo nei confronti del proprio Paese, della propria classe dominante, del proprio Stato, della propria nazione. È questa dialettica che lega il proletariato che non ha patria alla dimensione nazionale della sua esistenza. Qualsiasi tentativo teso a far passare Marx per un sovranista/nazionalista deve scadere nel ridicolo, e infatti Cesaratto si vede costretto a scrivere: «Fatto sta che da Marx ed Engels i concetti di Stato e (soprattutto) nazione, nelle loro varie declinazioni e intrecci, sono un buco nero della teoria marxista». In realtà il buco nero dimora, a mio modesto avviso, in certe teste “marxiste”, e quanto alla «teoria marxista» di cui parla il Nostro, è lecito dubitare della sua stessa natura “marxista”. In ogni caso, chi scrive non ha mai fatto parte di un simile “marxismo”. Cucinare il pollo Tedesco in salsa sovranista non può che creare una pietanza disgustosa, buona solo per certi palati particolarmente “dialettici”.

Vediamo come Cesaratto conclude il suo appello a una «sinistra [che vive] una drammatica crisi»: «Quello che mi sembra poco chiaro nelle menti del movimento per il No al referendum (parlo della sinistra naturalmente), è che qui non si sta difendendo la “Costituzione più bella del mondo”, slogan che lasciamo alla stucchevole Boldrini, ma le macerie (e solo quelle se non ci diamo una svegliata) di un nostro Stato-nazionale entro cui esercitare il conflitto sociale, che se regolato, è l’humus della democrazia». Il conflitto sociale ben regolato come humus della democrazia: un concetto borghese che considerato dalla prospettiva critico-radicale ha almeno il merito della chiarezza. La stessa concezione liberale del conflitto sociale non sostiene un’idea molto diversa circa il legame tra conflittualità sociale e democrazia (borghese) (7), anche se dinanzi al «ben regolato», che richiama l’intervento dello Stato e del parastato (partiti, sindacati e “corpi intermedi” di varia natura) nella «libera attività della società civile», non pochi liberali/liberisti di una volta storcerebbero la bocca. Quanto all’idea che la lotta di classe si possa esercitare solo nell’ambito del vecchio Stato nazionale, ebbene si tratta di una menzogna bella e buona che ha l’obiettivo di puntellare “da sinistra” gli interessi economici e geopolitici dell’italica patria, la quale deve fare i conti, come ogni altra patria al mondo, con la sempre più aspra contesa capitalistica mondiale. Chiusura sovranista (negli Stati Uniti si parla di isolazionismo) e integrazione europea (sotto l’egida della Germania, ovviamente) sono le facce di una stessa medaglia, due risposte allo stesso processo sociale che pone tanto la “struttura” quanto la “sovrastruttura” in una condizione di perenne crisi adattiva – come peraltro “profetizzava” il concetto marxiano di rivoluzione applicato al Capitalismo, al primo modo di produzione davvero rivoluzionario della storia. Dedico i passi che seguono ai sovranisti del XXI secolo:

«Con gran dispiacere dei reazionari, la borghesia ha tolto all’industria la base nazionale. […] Ne è risultata come conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, quasi appena collegati tra loro da vincoli federali, province con interessi, leggi, governi e dogane diversi, sono state strette in una sola nazione, con un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale» (8).

Si tratta della Nazione del Capitale, i cui confini oggi abbracciano davvero l’intero pianeta, e dove le singole nazioni non sono che nodi della fitta Rete del dominio capitalistico, e i singoli Stati non più che cani da guardia posti a difesa dei rapporti sociali che rendono possibile in tutto il mondo la divisione dei “soggetti sociali” in sfruttati e sfruttatori, salariati e capitalisti, padroni della Rete e loro servitori. Lungi dal far venire meno il concetto e la prassi della competizione interimperialistica, il dominio totale e totalitario (“globale”) dei rapporti sociali capitalistici li ha piuttosto posti su un livello ancora più alto, rivelando come non era mai accaduto prima il momento egemone nel fenomeno battezzato ormai oltre un secolo fa Imperialismo: gli interessi economici. L’andamento “problematico” dei negoziati USA-UE sul Trattato di libero scambio (Ttip) è, a tal proposito, abbastanza eloquente.

Insomma, non nego affatto (a differenza di quanto ha sostenuto qualcuno criticando i concetti di Imperialismo unitario, ma non unico, e di Società-Mondo che stanno al centro della mia concezione “geopolitica”) l’esistenza degli interessi nazionali nel contesto della società del XXI secolo; sostengo piuttosto che tali interessi 1. si affermano necessariamente contro gli interessi delle classi subalterne, che difatti farebbero bene a contrastarli in ogni modo, in ogni occasione, tutte le volte che possono, e 2. assumono una reale consistenza e una reale dinamica solo se considerati alla luce del processo sociale mondiale. Lontano dal negare un fondamento oggettivo allo Stato nazionale, mi “limito” dunque a denunciarne la natura di classe (capitalistica, ultrareazionaria,  semplicemente disumana) e a inquadrarlo nella giusta prospettiva storica.

Alla luce di quanto appena detto, lascio al lettore giudicare i passi che seguono:

«Accantonate le utopie speranzose (ma è un termine generoso) dell’Altra Europa, o quelle dei battaglioni rivoluzionari di lavoratori e immigrati, non rimane che quella del proprio Stato-nazionale. Questa strategia non può essere che quella dell’Economia dei controlli, controllo delle importazioni in primis. Non c’è alternativa (sebbene, naturalmente, qualche spazio di manovra possa essere offerto anche dal recupero della sovranità monetaria). Se mi si consente di coniare un neologismo, abbiamo bisogno di un “ordo-keynesismo” La sinistra, tutta la sinistra, ha ripudiato dopo la fine del socialismo reale, ogni idea di intervento pubblico nell’economia».

Il lettore mi perdoni l’antipatica e solipsistica riflessione che segue: è davvero piacevole il pensiero di non aver mai fatto parte della «sinistra». Lo so, si tratta di poca cosa, che certo non attenua il senso di impotenza politica di chi scrive (che pensa di condividere con la quasi totalità dei suoi colleghi proletari); ma i pessimi tempi invitano a non disprezzare quel pochissimo di buono che possiamo vantare ai nostri stessi occhi: anche l’autostima vuole la sua parte! Chiude la breve parentesi “esistenzialista”.

 

3. Costituzione e Trattati europei

Oggi (diciamo pure da almeno trent’anni!) la Costituzione Italiana è in grave sofferenza non a causa dei soliti poteri forti sovranazionali legati a doppio filo ai famigerati, e non meglio precisati, “mercati”, ma a motivo del suo anacronismo, figlio della tradizionale lentezza della politica italiana ad adeguarsi ai tempi, sempre più accelerati, del processo sociale, considerato nella sua dimensione mondiale, la sola dimensione che oggi fa testo nell’interpretazione di ogni fenomeno, “strutturale” o “sovrastrutturale” che sia. Quella lentezza a sua volta si spiega benissimo con la tradizionale strategia delle classi dirigenti del Belpaese volta al continuo compromesso fra i diversi interessi che fanno capo alle fazioni momentaneamente più forti e politicamente influenti della classe dominante. Una strategia che coinvolge anche la gestione dei conflitti sociali, come dimostra fra l’altro l’attaccamento dei progressisti e dei sindacalisti alla politica della concertazione, una prassi che certamente non marca una discontinuità con il corporativismo fascista – soprattutto nella sua versione di “sinistra” (9). La Costituzione Italiana entra in conflitto con i Trattati europei non a causa della loro diversa natura politico-sociale, l’una “socialisteggiante gli altri “neoliberisti”, ma in grazia del processo sociale che ha mutato completamente lo scenario economico, sociale e geopolitico che rese possibile quella Costituzione e il regime politico-istituzionale sottostante. Sotto questo aspetto, è certamente corretto definire conservatori i suoi difensori.

Per Sergio Farris «sul referendum costituzionale si scontrano due visioni del mondo»: «Si pensi all’esplicito invito, rivolto addirittura da un colosso finanziario privato quale la JP Morgan, a espungere dalla nostra Costituzione gli elementi di socialismo». «Elementi di socialismo»? Il compagno Totò direbbe: «Ma mi faccia il piacere!» Il fatto che soprattutto gli americani attribuiscano la qualifica di “socialista” a tutto ciò che odora, anche solo lontanamente, di statalismo (perfino Obama passa presso alcune fazioni particolarmente arrabbiate di repubblicani per un pericoloso “socialista”, come accadde a Roosevelt ai tempi del New Deal), ebbene ciò dovrebbe metterci in guardia circa l’uso che i “neoliberisti” fanno di certi termini un tempo cari al movimento operaio, i quali oggi sono più svalorizzati e svuotati di significato dei marchi tedeschi dei primi anni Venti del secolo scorso. Chi prende sul serio la preoccupazione dei “neoliberisti” intorno ai presunti «elementi di socialismo» della nostra Costituzione rivela una concezione del “socialismo” davvero miserevole.

Solo a partire dalla prospettiva concettuale e politica qui semplicemente abbozzata è possibile, a mio avviso, svolgere una critica davvero radicale, ossia anticapitalista, alla dialettica incardinata dal reale movimento delle cose fra Costituzione Italiana e Trattati europei. Il tentativo di scavare un abisso “filosofico” e politico tra i Trattati europei e la «democrazia costituzionale» ha invece un ben’altro significato, quello di difendere un modello di società (un assetto sociale) che oggi mostra la corda a causa della dinamica capitalistica. Ovviamente per chi scrive non si tratta di assecondare il corso delle cose (che bizzarra idea!), ma di lottare contro il Moloch senza coltivare alcuna nostalgia per il mondo andato in frantumi ormai decenni fa – non sono pochi i sinistri che rimpiangono il “Trentennio glorioso”  (1945-1975) e il mondo bipolare della Guerra fredda.

 

4. Sul lavoro che sta alla base della Repubblica.

«Le costituzioni devono scoprire il problema nascosto d’ogni epoca, argomenta Fanfani [in una relazione presentata alla XIX Settimana sociale di Firenze, del 1945 ]. Se ogni costituzione è un patto che si stipula fra Stato e popolo e se tale patto individua problemi che, se non risolti, potrebbero essere all’origine di conflitti sociali futuri, ecco che compito specifico delle costituzioni è quello di individuare il problema nascosto di una compagine sociale, il problema profondo, invisibile agli occhi dei più» (10). Qual è il «problema nascosto di una compagine sociale» capitalistica?

A chi esalta il carattere “sociale” – se non “socialista” o “socialisteggiante” – della Costituzione Italiana, della Costituzione «più bella del mondo» vigente da quasi settant’anni in un Paese che non è certo l’ultimo nella scala storico-sociale del Capitalismo e dell’Imperialismo mondiali (lo so, questo è un dettaglio così insignificante che non andrebbe nemmeno menzionato, se non per mera pignoleria, diciamo); agli apologeti della Costituzione, dicevo, andrebbe ricordato il carattere capitalistico del lavoro (salariato, appunto!) posto a fondamento della Repubblica democratica nata dalla Resistenza. Come diceva l’uomo con la barba, «Il lavoro-merce è una tremenda verità», e l’Art. 1 della Costituzione ci dice senza infingimenti che l’Italia, come ogni altro Paese di questo capitalistico mondo, si fonda su quella «tremenda verità». Ecco perché la disoccupazione (11), la precarietà, la flessibilità e quant’altro tocca in sorte ai senza riserve, soprattutto in tempi di crisi, non contraddicono affatto né la “lettera” né lo “spirito” della Costituzione, appunto perché il lavoro (salariato!) di cui essa parla presuppone l’esistenza dei rapporti sociali capitalistici – che restano rapporti di dominio e di sfruttamento a prescindere dalla forma politico-istituzionale assunta contingentemente dallo Stato, il Leviatano posto a guardia dello status quo sociale.  Nel Capitalismo il diritto al lavoro (salariato!) sancisce il dominio del Capitale (non importa se “pubblico” o “privato”) su chi non possedendo i mezzi materiali della propria esistenza, è costretto a fare della sua intera esistenza (e non solo della sua capacità lavorativa, come molti credono) una merce. Marx ed Engels parlavano a ragione di «schiavitù salariale». Il minimo sindacale che mi aspetto da un autentico anticapitalista attivo in Italia è il suo disprezzo per il lavoro che rende possibile la Repubblica democratica nata dalla Resistenza.

Con ciò si vuole forse disprezzare la lotta dei disoccupati per il lavoro e quella dei lavoratori per conservarlo, quel maledetto lavoro, e per ottenere miglioramenti salariali? Solo chi ha in testa una caricatura del punto di vista autenticamente rivoluzionario può leggere nella posizione qui abbozzata un’indifferenza per tutto quello che non si dà come lotta immediatamente rivoluzionaria. Per l’anticapitalista, non per la sua caricatura, la sfida si pone piuttosto nei seguenti termini: come trasformare la lotta per il lavoro, per il salario, per migliori condizioni di vita in un’occasione di crescita politica dei dominati? In ogni caso, chi scrive esattamente come il Marx Salario, prezzo e profitto (1865):

«Se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande. Nello stesso tempo la classe operaia non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta quotidiana. Non deve dimenticare che essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti; che essa può soltanto frenare il movimento discendente, ma non mutarne la direzione; che essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia. Perciò non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia. […] Invece della parola d’ordine conservatrice: “Un equo salario per un’equa giornata di lavoro”, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: “Soppressione del sistema del lavoro salariato” [si tratta del sistema difeso dalla Costituzione più bella del mondo].  Le Trade Unions compiono un buon lavoro come centri di resistenza contro gli attacchi del capitale. […] Essi mancano, in generale, al loro scopo, perché si limitano a una guerriglia contro gli effetti del sistema esistente, invece di tendere nello stesso tempo alla liberazione definiva della classe operaia, cioè all’abolizione definitiva del sistema del lavoro salariato» (12).

Cos’è la coscienza di classe? Ne abbiamo appena visto un saggio di rara chiarezza.

Ecco perché quando Giorgio Cremaschi scrive: «Di Vittorio chiedeva di far entrare la Costituzione nelle fabbriche per realizzarla davvero, oggi la si estromette dal rapporto di lavoro ridotto a merce, per poi renderla vuota e inutile ovunque», personalmente sento forte il bisogno di impugnare la – metaforica, per carità, metaforica! – pistola. Qualcuno avverta poi Cremaschi che in Italia (anche in Italia, come ovunque) il «rapporto di lavoro» non ha mai cessato di essere un rapporto mercificato, e che il profitto non è stato «posto ai vertici della piramide sociale», «duemila anni dopo Cristo», dal «Regime dei padroni» targato Berlusconi-Marchionne, come si legge in un suo saggio del 2010 (13): come ha spiegato – invano! – l’uomo con la barba ormai centocinquanta anni fa, anno più, anno meno, in una società capitalistica il profitto deve necessariamente collocarsi «ai vertici della piramide sociale», e il prescindere o meno da questa elementare/fondamentale nozione marca la differenza tra il sindacalismo collaborazionista (vedi, ad esempio, Di Vittorio, o Lama) e quello “di classe”. «Secondo la controriforma liberista il lavoro va trattato come qualsiasi altra merce e non deve essere sostenuto da leggi e tutele speciali, altrimenti verrebbero violate le sacre leggi del mercato». Per come la vedo io, la difesa degli interessi immediati dei lavoratori va organizzata non nel nome della Costituzione (borghese), ma contro di essa, possibilmente senza continuare a illudere i lavoratori che essi fanno bene ad attendersi dallo Stato (borghese) «leggi e tutele speciali». Bisogna prendere molto sul serio la sacralità delle «leggi del mercato», ma non per inginocchiarsi al loro cospetto, ovviamente, ma per denunciarne l’intima e necessaria natura disumana, e per orientare il disagio sociale dei lavoratori e di tutti gli offesi dal Moloch capitalistico affamato di profitti verso una soluzione rivoluzionaria della catastrofe in corso. «La nostra», scrive sempre Cremaschi, «non è una costituzione liberale che stabilisca semplicemente le regole del gioco per l’accesso al potere politico. La nostra è una costituzione democratica a forte caratterizzazione sociale, è una costituzione sociale». Certo, «sociale», come la Repubblica di Salò…

Ogni altra considerazione sulla natura “sociale” della Costituzione ha per me il significato di un capovolgimento ideologico della realtà funzionale a mantenere nell’impotenza politica e sociale le classi subalterne. Del resto, già il furbo Mussolini aveva parlato di Repubblica Sociale, giocando d’anticipo sugli statalisti di “sinistra”.

A proposito di statalismo, scrive Leonardo Guzzo:

«Più che il compimento degli ideali risorgimentali, a dire di Indro Montanelli la Costituzione è un “ibrido ambiguo” di marxismo e cristianesimo. […] L’impronta marxista sarebbe evidente nei limiti e nella funzione sociale imposta alla proprietà privata, nella sistematica prevalenza degli interessi collettivi su quelli individuali, nella stessa idea di solidarietà, garantita dall’intervento statale piuttosto che dalla libera iniziativa dei cittadini» (14).

A “destra” come a “sinistra” si considera insomma “socialista” un’economia capitalistica la cui proprietà giuridica dei mezzi di produzione e di distruzione è nelle mani dello Stato: il Capitalismo di Stato come “Socialismo” è una balla teorica e politica che i comunisti, da Marx in poi, hanno deriso e combattuto ferocemente, perché troppo facilmente i proletari prestano orecchio a chi propone loro un tetto e una minestra assicurati tutti i santi giorni. È la loro stessa maledetta condizione sociale che li espone alle sirene stataliste – ma anche razziste. La proprietà va considerata nella sua essenza sociale, come espressione di un peculiare rapporto sociale, come proprietà di classe. Per Marx la proprietà privata capitalistica si afferma storicamente nel momento in cui il grande capitale espropria il piccolo capitale (piccola industria, artigianato) e priva definitivamente i produttori dei loro mezzi di produzione, precipitandoli nella condizione di «schiavi salariati». Mi rendo conto che dopo decenni di avvelenamento stalinista (e poi maoista), fare chiarezza sulla natura esclusivamente capitalistica del cosiddetto «Socialismo reale» (tanto nella “struttura” quanto nella “sovrastruttura”) è un’impresa quasi impossibile, e faccio precedere il “quasi” per darmi coraggio e giustificare ai miei stessi occhi il mio più che modesto “impegno politico”.

 

5. L’Italia ripudia la guerra! Ma fino a un certo punto…

Non c’è guerra, o preparazione di un qualsiasi intervento militare da parte del Belpaese, che non evochi nella testa di ogni pacifista che si rispetti l’Art. 11 della Costituzione Italiana: L’Italia ripudia la guerra… Ora, sul piano storico quell’articolo non attesta affatto la natura pacifista della «Repubblica nata dalla resistenza», come recita il mantra progressista: ne attesta piuttosto lo status di Paese sconfitto nella Seconda Carneficina Mondiale. Dopo l’occupazione militare angloamericana e la resa incondizionata ottenuta a suon di bombardamenti aerei sulle città italiane (15), le potenze Alleate impongono all’Italia, com’era peraltro nel loro pieno diritto (quello fondato sulla forza, la madre del diritto borghese), lo status di Paese che non cercherà mai più la strada della guerra per accrescere in potenza. Di più: il suo potenziale bellico viene messo a disposizione di istituzioni sovranazionali (NATO e ONU) per consentire «alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»; e difatti l’Italia «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Su questa base giuridica all’Italia è consentita la guerra in guisa di piccola o media potenza assoggetta ai vincoli imperialistici che le derivano appunto dall’esito della seconda guerra mondiale. Analogo discorso deve naturalmente farsi per la Germania e il Giappone:

«Nella sede del partito di Abe, c’è un ufficio apposito, con tanto di targhetta, per la revisione della Costituzione ultrapacifista imposta dagli Usa vittoriosi. Non ci sarebbe niente di male a cambiare dopo oltre 60 anni una Carta fondamentale dettata dallo straniero: qualsiasi altro Paese l’avrebbe già fatto.  Il problema è che le bozze di revisione fatte circolare hanno fatto accapponare la pelle a molti costituzionalisti» (16).

Insomma, sulla base del citatissimo nonché mitico Art. 11 della Costituzione, che va considerato nella sua interezza, l’Italia può benissimo impegnarsi in una guerra internazionale, naturalmente nei limiti e secondo procedure e modalità imposti al Paese dalla sua collocazione geopolitica e, in generale, dai rapporti di forza interimperialistici. È d’altra parte un fatto che all’ombra dell’articolo 11 l’Italietta è riuscita nel corso della Guerra Fredda a ritagliarsi un ruolo di piccola/media potenza nella sua tradizionale riserva di caccia: Balcani, Vicino Oriente, Nord Africa. Nell’ultimo quarto di secolo questo ruolo si è alquanto indebolito, per una serie di motivi che adesso tralascio di considerare. Insomma, usare la Costituzione Italiana contro la guerra non solo è sbagliato politicamente (a causa della natura ultrareazionaria della Sacra Carta), ma risulta inefficace anche sul piano giuridico, per non parlare del fondamento storico di una simile prassi, inefficace – lo sappiamo per esperienza! – anche sul terreno puramente “tattico”.

 

6. Storia e leggenda.

Il «tradimento dello spirito originario della Costituzione» è insomma un mito, caro soprattutto ai delusi dal Partito – cosiddetto – Comunista (nell’album di famiglia dei delusi compaiono anche i “terroristi rossi” attivi negli “anni di piombo”); un mito che cela la natura ultrareazionaria (o semplicemente borghese) di quella Costituzione, espressione della società italiana postbellica, la cui sostanziale continuità con il fascismo non sfugge al pensiero autenticamente critico-radicale, da sempre nemico della mitologia resistenzialista.

Scrive Diego Fusaro, il “marxista” più telegenico del pianeta (che invidia!):

«Diceva Gramsci che essere rivoluzionari significa sempre chiamare le cose con il loro nome [bravo!], senza temerne le conseguenze [applausi!]. Ciò ci permette di dire che oggi viviamo nell’epoca meno rivoluzionaria dell’intera storia umana [condivido!], l’epoca in cui i colpi di Stato sono ipocritamente detti governi tecnici, le distruzioni dei diritti sono chiamate riforme e le aggressioni imperialistiche sono salutate come missioni di pace [assolutamente d’accordo!]. Chi oggi propone la riscrittura della carta costituzionale deve essere chiamato, senza infingimenti e formule edulcoranti, traditore della patria e del popolo italiano».

E come deve essere chiamato chi, come chi scrive, propone la lotta di classe contro la Repubblica capitalistica e la sua Costituzione? «Traditore della patria e del popolo italiano»? Benissimo! Appendo volentieri al petto questa medaglia antipatriottica e antipopulista: internazionalista e anticapitalista sono!

Altra perla patriottica:

«La Costituzione italiana – tutti lo sanno o dovrebbero saperlo – è testo fondativo della storia italiana: è sulle sue basi che si spiega non solo la storia italiana del secondo Novecento, ma anche l’orgoglio di un popolo [e qui mi commuovo!] che, risollevandosi dopo le tragedie belliche, si dà una nuova forma di organizzazione sociale e politica. La nostra Costituzione, probabilmente la più bella dell’intero Occidente, sorge sul fondamento della fine dei nazifascismi e sul fecondo intreccio dei punti più alti della tradizione cattolica e di quella comunista [questo sempre a proposito di cattostalinismo]: mette a tema, marxianamente [sic!], la dignità del lavoro [salariato!] e, secondo la prospettiva cattolica, la dignità della persona umana [risic!]».

Svolgo la breve considerazione che segue per meglio chiarire la prospettiva dalla quale scaglio frecce critiche contro chi difende la Costituzione Italiana, «probabilmente la più bella dell’intero Occidente».

La Resistenza rappresentò a tutti gli effetti per l’Italia la continuazione della guerra imperialista con altri mezzi nel mutato scenario interno (crollo “ufficiale” del regime fascista il 25 luglio 1943) e internazionale (con il tradizionale “salto della quaglia” nelle alleanze politico-militari del Paese). Gli episodi di lotta di classe (scioperi operai nei centri industriali del Nord, lotte contadine in Sicilia e in Puglia) e di autodifesa armata di soldati italiani sbandati (dall’8 settembre 1943 in poi) staccata dal movimento “ufficiale” resistenziale guidato dai partiti borghesi antifascisti riuniti nel CLN, episodi che naturalmente sono lungi dal negare o, credo, dal sottovalutare, non furono tuttavia tali da poter mutare nemmeno in minima parte la sostanza storico-sociale di quel fenomeno.

D’altra parte, nel pieno dello scontro bellico i rapporti di forza sociali e militari erano talmente sbilanciati a favore dell’imperialismo, e l’idea stessa della “rivoluzione sociale” che fece capolino nella testa di qualche avanguardia proletaria era così fortemente influenzata dallo stalinismo, che anche quegli eroici episodi finirono per portare acqua al mulino resistenziale concepito nei termini appena abbozzati. Scrive Giulio Sapelli:

«La partecipazione delle forze partigiane e delle forze armate regolari al fianco dei vincitori dà all’Italia uno statuto particolare nel contesto della ricostruzione del secondo dopoguerra. La Resistenza consentirà alla classe politica emersa dalle prime elezioni democratiche del dopoguerra di trattare su un piede di maggiore dignità e di autonomia dinanzi alle potenze inglese e nordamericana» (17).

Condivido.

A proposito della mitologia resistenzialista, in un articolo pubblicato su una modesta rivista locale (Filo Rosso) nel gennaio 1992, intitolato – un po’ pomposamente – Per una critica marxista della Costituzione italiana, riportavo la citazione che segue, tratta da un breve saggio storico di De Paolis: «Sono la monarchia, il capitale finanziario e la burocrazia che decidono la caduta di Mussolini e, soprattutto, le sorti disastrose della guerra, e non “l’insurrezione spontanea” della popolazione» (in Tesi e Antitesi, G. D’Anna editore). Poco oltre citavo un articolo di Luciano Canfora pubblicato sul Manifesto del 18 luglio ’91, che allora suscitò molto scandalo presso i corifei della leggenda resistenzialista perché criticava appunto i miti e le forzature storiografiche riguardanti la Resistenza. In particolare egli definiva «schematica» la lettura che gli intellettuali legati “organicamente” alla sinistra ufficiale avevano fatto del conflitto sviluppatosi nell’Italia centro-settentrionale nel periodo 1943-45 al solo scopo di «legittimare la sinistra, in particolare i comunisti», nonché per «restituire dignità al Paese che aveva saputo “liberarsi da sé” e che dunque non andava trattato come un vinto». Per la verità anche la DC di De Gasperi cavalcò la patriottica balla speculativa della sconfitta solo a metà, in grazia dell’epopea rosso-bianca resistenzialista, meritandosi la giusta e sarcastica ironia degli angloamericani che avevano preso a calci sul deretano il Bel Paese appena qualche anno prima.

E difatti, la più grossolana delle forzature nella memorialistica resistenzialista Canfora la individuava «nell’attribuire alla lotta partigiana il ruolo decisivo nella “liberazione”, sebbene in realtà il ruolo decisivo dovesse attribuirsi piuttosto all’evoluzione bellica complessiva». Come si vede, nulla che uno storico o un politico non assoggettato alla dittatura ideologica resistenzialista non sapesse già. Ma allora il “popolo di sinistra” lapidò il povero Canfora sull’altare del “revisionismo storico”.

Una critica vera, cioè radicale – nel senso marxiano, non “marxista” del concetto – della Costituzione non può non fare i conti con questa storia, cosa che postula un giudizio sulla natura sociale della Seconda guerra mondiale (a mio avviso imperialista esattamente come lo fu la prima) e della Russia di Stalin (un Capitalismo-Imperialismo camuffato da «Patria del Socialismo»), vero paradigma degli intellettuali “comunisti” che allora scrissero la storia per conto della classe dominante italiana e del PCI di Togliatti (18).

Non nego, e anzi so bene, che allora, nel fuoco degli avvenimenti bellici, più di un comunista antistalinista (detto per inciso, è il solo modo di essere comunista che riesco a concepire) pensò che vi fosse quantomeno la possibilità di trasformare la Resistenza imperialista in una Resistenza di classe, per mutuare la celebre parola d’ordine leniniana  del 1914, e si mosse in quel senso, scontando naturalmente i limiti imposti dalla situazione. Nulla da dire, se non per esternare dell’ammirazione nei confronti di compagni rivoluzionari disposti a sacrificare la loro vita nella lotta di emancipazione. D’altra parte, polemizzare con la storia non ha alcun senso. Se la prospettiva storica, il solo punto di vista che può permettersi chi cerca di capire la storia “fatta” dagli altri, ha un senso, ebbene questo senso è da ricercarsi nello sforzo di cogliere il processo sociale nella sua contraddittoria totalità e nella sua dinamica interna, resistendo alla tentazione di polemizzare con i protagonisti delle vicende passate nel vano – e certamente puerile – tentativo di rifare la storia ex post. Bisogna d’altra parte aggiungere, per completezza “storiografica”, che tutte le volte che qualcuno cercò allora di praticare l’internazionalismo proletario, si trovò a fare i conti con gli sgherri di Togliatti (19) e di Stalin, non raramente lasciandoci la pelle.

Lungi quindi dal negare contraddizioni, speranze più o meno fondate e quant’altro, cerco piuttosto di restituire appunto l’essenza di un fatto storico, di coglierne il senso generale. E il senso generale della Resistenza, in Italia e altrove, fu quello, ripeto, che le impresse la guerra imperialista, definita dai vincitori Guerra di liberazione – è difficile trovare nella storia un vincitore che non si sia presentato al mondo in guisa di “liberatore”.

La Costituzione Italiana fu certamente il frutto di un compromesso fra partiti di diversa ispirazione politico-ideologica e di diverso orientamento geopolitico (con la DC che guardava agli Stati Uniti e il PCI che guardava all’Unione Sovietica), ma si trattò, beninteso, di un compromesso tutto interno alla maligna dimensione del dominio capitalistico, a causa della natura capitalistica di tutti gli attori, nazionali e internazionali, in campo. D’altra parte, le concezioni “lavoriste” di Fanfani, già ideologo del corporativismo fascista (20), ben si amalgamavano con le analoghe concezioni dei colleghi stalinisti, teorici del Capitalismo di Stato con caratteristiche “sovietiche” e cultori del disumano mito stakanovista.

Una volta Leonardo Sciascia disse, in polemica con i «professionisti dell’Antimafia», che il prodotto politicamente più rognoso della mafia è stato l’antimafia; ecco, mutatis mutandis, un’analoga considerazione si può fare a proposito di fascismo e antifascismo. Ciò che non mi impedisce di essere nemico del fascismo e della mafia, ma in una guisa che non ha nulla a che fare con l’antifascismo e con l’antimafia di chi si commuove dinnanzi alla Sacra Costituzione Italiana, «probabilmente la più bella dell’intero Occidente».


Note
(1) K. Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, in Opere Marx-Engels, VI, p. 482, Editori Riuniti, p. 1973
(2) Già Marx considerò la «repubblica costituzionale» come «la forma più solida e più completa del loro [delle «frazioni borghesi coalizzate»] dominio di classe» (Le lotte di classe in Francia, in K. Marx, Rivoluzione e reazione in Francia, 1848-1850, p. 146, Einaudi, 1976). Nell’epoca del dominio totalitario del Capitale ogni superstizione intorno alla democrazia (borghese) e alla «repubblica costituzionale» mi sembra quantomeno anacronistica.
(3) Un esempio di questa logica, in campo internazionale, ci è stato offerto dalla Lettera dei medici di Aleppo al Presidente degli Stati Uniti Barack Obama:
«Caro Presidente Obama,
Siamo 15 degli ultimi medici che servono i restanti 300.000 cittadini di Aleppo orientale. I soldati del regime hanno cercato di circondare e bloccare l’intero est della città. Le loro perdite hanno fatto sì che un rivolo di cibo arrivasse ad Aleppo orientale per la prima volta da settimane. Sia che viviamo, sia che moriamo sembra dipendere dai flussi e riflussi del campo di battaglia. Non abbiamo visto nessuno sforzo da parte degli Stati Uniti volto a superare l’assedio o anche a utilizzare la loro influenza per spingere le parti a proteggere i civili. […] Continua l’inazione degli Stati Uniti per proteggere i civili della Siria. Ciò significa che la nostra situazione è volontariamente tollerata da chi nei corridoi internazionali ha il potere. Il peso della responsabilità per i crimini del governo siriano e il suo alleato russo deve quindi essere condivisa da coloro, compresi gli Stati Uniti, che consentono loro di continuare. Non abbiamo bisogno di dirvi che il sistematico attacco degli ospedali da parte del regime siriano e degli aerei da guerra russi è un crimine di guerra. Non abbiamo bisogno di dirvi che stanno commettendo atrocità ad Aleppo. Non abbiamo bisogno di lacrime o simpatia o anche preghiere, abbiamo bisogno della vostra azione. Dimostra che sei l’amico della Siria».
L’agnello che supplica un lupo affinché lo difenda dalla violenza assassina di altri lupi. Fuor di metafora, si fa appello a un imperialismo (il primo su scala planetaria) per cercare protezione nei confronti di altri imperialismi contingentemente più minacciosi. Davvero la Siria (e lo Yemen? e…?) mostra l’essenza di quello che definisco Sistema Mondiale del Terrore. Si badi bene, non sto dando un giudizio di valore sull’iniziativa politica dei medici di Aleppo, la cui rischiosa opera umanitaria in soccorso dell’inerme popolazione di Aleppo, presa in ostaggio da tutti gli eserciti in campo (“regolari” e “irregolari”, interni ed esteri), non può che suscitare simpatia e ammirazione; mi limito a prendere atto della catastrofe esistenziale (o semplicemente sociale) che, in differenti modi e gradi, devasta l’intera umanità. Siamo messi davvero male, come “uomini” dico, se davanti all’orrore siamo costretti sempre di nuovo a ripiegare in direzione del “male minore”, strategia di sopravvivenza che forse può salvare oggi un x di persone per offrirne con certezza il triplo alle fosse, domani. Non si tratta di pessimismo, ma di semplice “realismo storico”.
(4) K. Marx, Le lotte di classe in Francia, p. 147.
(5) La Repubblica, 28 agosto 2016. «L’amministratore delegato di Fiat Chrysler, Sergio Marchionne, ha ricevuto per l’anno 2014 un compenso complessivo di 31,3 milioni di euro. La cifra emerge dal bilancio 2014 di Fiat Chrysler Nv, il primo dopo lo spostamento della sede legale in Olanda, che fornisce in trasparenza una serie di dettagli anche sulla remunerazione futura del top management e del Ceo» (da www.corriere.it del 7 marzo 2015). D’altra parte, certi problemi si possono vedere meglio solo da certe altezze…
(6) K. Marx, Critica al programma di Gotha, 1875, pp. 45-56, Savelli, 1975.
(7) «La logica liberale appare a Dahrendorf superiore a quella democratica non solo perché lo sviluppo liberale finisce inevitabilmente per parlare a favore delle istituzioni democratiche (in quanto permettono di “contare teste anziché tagliarle”), ma perché fanno parte integrante della logica liberale tanto il pluralismo sociale quanto l’integrazione nel circuito politico di quel conflitto senza cui nessuna società potrebbe progredire» (Sergio Caruso, cit. tratta da L. Leonardi, Introduzione a Dahrendorf, Laterza, 2014). Il conflitto come sale della società civile, come sua forza vivificante che promuove l’innovazione, il cambiamento, il progresso in ogni sfera della società. Naturalmente questa concezione eternizza il male assoluto che pulsa al centro delle società classiste, compresa quella attuale, determinandone l’essenza e la direzione: la divisione in classi sociali degli individui, appunto, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo che tale divisione presuppone e pone sempre di nuovo. La democrazia non è che una delle forme politico-istituzionali che può assumere il dominio di classe, la cui eliminazione fonda la natura universale delle classi dominate: «Emancipando se stesso, il proletariato emancipa l’intera umanità». Anche questo va detto a proposito di coscienza di classe. Per l’anticapitalista non si tratta né di “contare teste” né di “tagliare teste”, ma di creare i presupposti materiali affinché possa finalmente nascere e prosperare «l’uomo in quanto uomo». Non mi aspetto certo comprensione né, tanto meno, consensi da parte di chi propone la salvezza dello Stato-Nazione e l’«ordo-keynesismo» come il massimo che possa concepire il “pensiero critico” del XXI secolo.
(8) K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Opere Marx ed Engels, VI, pp. 490-49, Editori Riuniti, 1973.
(9) «Fascismo e corporativismo vedevo con fede di rivoluzionario [!] orientato verso una concezione di carattere comunistico [!!] che ebbe il suo punto culminante nella proposta della corporazione proprietaria al congresso di Ferrara del ’32. Da Bottai attendevo una esplicita collaborazione in tale direzione, sia pure entro i limiti di una situazione politica estremamente difficile, dominata, oltre che dalle forze capitalistiche, soprattutto da una cultura liberale e conservatrice, da Croce e Einaudi» (U. Spirito, Memorie di un incosciente, p. 190, Rusconi, 1977). Maledetti liberisti! Alla fine della guerra, per molti ex adulatori del Duce passare dal corporativismo di stampo fascista a quello di stampo stalinista fu facile come tracannare un bel bicchiere ideologico a base di statalismo.
(10) P. Roggi, Il ruolo di Fanfani all’Assemblea Costituente.
(11) Il riconoscimento del diritto al lavoro, ammise Giuseppe Di Vittorio, «non vuol dire che domani ad esempio, un disoccupato possa chiamare in giudizio lo Stato» (Atti Ass. Cost., III Sottocommissione, resoconto della seduta del 9 settembre 1946). Anche lo statalismo ha un limite…
(12) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, pp. 116-117, Newton, 1976.
(13) Centocinquanta anni dopo Marx, Cremaschi scopre la seguente “filiera” del Capitale: «Se c’è guadagno, c’è l’impresa, se c’è l’impresa c’è il lavoro, se c’è il lavoro c’è il salario e forse ci sono anche i diritti» (G. Cremaschi, Il regime dei padroni. Da Berlusconi a Marchionne, p. 63, Editori Riuniti, 201). Che scandalo! Ma da che Capitalismo è Capitalismo, le cose stanno esattamente così, e non potrebbero stare diversamente, e aver fatto credere ai lavoratori che nell’ambito della società basata sul profitto il lavoro salariato può costringere il Capitale a derogare ai suoi vitali (nel senso proprio della parola) interessi, magari appoggiandosi alla paternalistica benevolenza del Leviatano, è una delle tante balle ideologiche progressiste che nel corso di questo mezzo secolo hanno avvelenato la classe dei salariati.
(14) L. Guzzo Per Montanelli la Costituzione era un ibrido imperfetto figlio dell’ideologia, L’Occidentale.
(15) «L’espressione cara ad alcuni babbei, “L’Italia nata dalla Resistenza”, non vuol dire nulla di nulla. La guerra che ci liberò dai nazisti la vinsero gli aerei alleati che bombardarono a sangue il quartiere romano di San Lorenzo ma anche l’Abbazia di Montecassino, dove credevano fossero annidati i cannoni e le mitragliatrici nazi che puntavano dall’alto. E comunque i primi ad arrivare a Montecassino furono i combattenti polacchi, quelli che volevano vendicare la sconfitta del settembre 1940, quando i nazisti entrarono in Polonia da un lato e i comunisti russi dall’altro» (G. Mughini, Dagospia, 25 agosto 2016). Mi capita ogni tanto di citare il “bizzarro” e sottovalutato Mughini perché egli mostra di conoscere molto bene i suoi polli, ossia i suoi ex colleghi stalinisti e maoisti con i quali spesso polemizza. Essendo passato dall’altra parte della barricata, egli non ha motivo per nascondere vizi, tic e scheletri negli armadi della sinistra “ufficiale” e di quella “radicale” del suo tempo nata come costola della prima.
(16) S. Carrer, Il Sole 24 Ore, 2012.
(17) G. Sapelli, Storia economica  dell’Italia contemporanea, p. 1, Bruno Mondadori, 2008.
(18) «La buona parte degli ex partigiani (ossia di coloro che si schierarono dalla parte “giusta” nella guerra civile 1943-1945, e non c’è dubbio che fosse la parte “giusta”) non avevano niente a che vedere con una benché esile idea della “democrazia”. Loro stavano dalla parte dell’Urss comunista, e avrebbero tanto voluto che a guerra finita l’Italia somigliasse all’Urss. Altro che “democrazia”. […] Non era un seguace della democrazia un combattente formidabile e da me ammiratissimo nella mia giovinezza quale Giovanni Pesce, il cui libro sulle azioni dei gap era un “livre de chevet” dei terroristi rossi degli anni Settanta, tanto che il quotidiano “Lotta continua” ne pubblicò un brano all’indomani dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi, come a far capire che quello che avevano fatto alcuni di loro aveva dei precedenti illustri nella guerra civile del 1943-1945. […] Dopo il 25 aprile 1945 il fascismo storico era morto e sepolto. C’era invece in atto, nel cuore e nella realtà concreta dell’Europa, un crimine politico di entità eguale al fascismo, quel regime comunista che i carri armati dell’Urss vittoriosa avevano esportato in Polonia, in Ungheria, in Cecoslovacchia, nella Germania dell’Est, in Romania, in Bulgaria. E sui crimini e sulla vergogna morale di quei regimi c’è adesso una biblioteca grande così, e se uno omette l’insegnamento che viene da quella biblioteca o è un cretino o è un mascalzone». Non so dire se sono un cretino (non posso escluderlo, almeno in linea teorica) o un mascalzone (qualcuno potrebbe pensarlo, a giusta ragione peraltro); di certo non ho mai taciuto «sui crimini e sulla vergogna morale di quei regimi», anche per denunciarne la vera natura storica e sociale.
(19) Da Wikipedia: «Nel marzo 1963, venne Palmiro Togliatti a Pisa, e raccontò agli studenti il suo rientro in Italia e la svolta di Salerno, riferendo che «il generale MacFarlane si meravigliò con me che il Pci non volesse fare la rivoluzione». L’allora sconosciuto Sofri intervenne affermando che «ci voleva l’ingenuità d’un generale americano per pensare che un partito che si proclamava comunista volesse il comunismo». Ma ci voleva l’ingenuità di un’ancor giovane “cattivo maestro” per dare in qualche modo credito al “comunismo” di chi «si proclamava comunista». Ma certo l’ironia di Sofri lasciava ben sperare sul suo futuro politico. «Al che il segretario comunista ribatté: “Devi ancora crescere. Provaci tu, a fare la rivoluzione”, e Sofri concluse: “Ci proverò, ci proverò”». Della serie: la rivolta del figlio contro il padre – dello stalinismo italiano.
(20) «Una tesi assai diffusa fra gli odierni neo-conservatori americani assicura che il pensiero cattolico europeo, specialmente italiano, sarebbe ostinatamente ostile al capitalismo liberale. Michael Novak, economista cattolico americano, con prolungati studi in Italia, e in passato seguace di Fanfani, lo ha poi accusato di essere, storicamente, il divulgatore principale del pregiudizio anticapitalistico, specialmente attraverso la Costituzione. Non soltanto contro Fanfani sono dirette le frecce di Novak, ma anche contro l’intero gruppo dossettiano e, più in generale, contro la sinistra democristiana» (P. Roggi, Il ruolo di Fanfani…). Più tardi, quando la «sinistra democristiana» si avvicinerà alla «destra comunista», si parlerà di “cattocomunismo”. Anziché di corporativismo, il Fanfani democristiano iniziò a parlare di «economia controllata», una sorta di «terza via» in grado di bypassare il liberismo di stampo americano e il dirigismo di stampo sovietico. «La filosofia generale del controllo fu esposta da Fanfani il 15.10.46 [davanti alla Commissione dei 75]: “Si tenta di controllare lo sviluppo dell’economia senza accedere totalmente ad una economia collettivista e senza lasciare totalmente libere le forze individualistiche, ma cercando di sfruttarle”». Com’è noto, due tesi si confrontano e si scontrano fin dal varo della Carta costituzionale sugli esiti dottrinali della battaglia politica che vide protagonisti le maggiori forze politiche del Paese (DC, PSI, PCI): c’è chi parla di «sintesi superiore» (Pietro Scoppola), chi di «giustapposizione non ricomponibile di posizioni dissimili» (Piero Barucci), e c’è pure chi ha cercato di gettare un ponte tra le due tesi (Giuliano Amato, non a caso definito “Dottor Sottile”).

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