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Cosa fare dopo il NO?

Note dall'assemblea sul potere popolare

Ex OPG Je so' Pazzo

2016 12 14 potere popolareRipubblichiamo alcune riflessioni sul potere popolare dei compagni napoletani del "Ex OPG Je so' Pazzo". Il NO al referendum è stata una grande e fondamentale vittoria sia per inceppare l'avanzata del progetto autoritario dei padroni, sia per dimostrare a noi stessi che quando ci mettiamo all'altezza della sfida, quando siamo capaci di entrare nelle corde dei nostri nessuna vittoria ci è preclusa.

Ma il difficile viene ora, perché i loro si riorganizzaranno, tenteranno di trovare un nuovo Renzi (o di rimettere in sella il vecchio Renzi), cercheranno altre vie per imporre il loro modello di governo che significa più sfruttamento per tutti noi. Per questo non possiamo perdere tempo, non possiamo disperdere l'accumulazione di forze che abbiamo raccolto in questa campagna referendaria: dobbiamo trovare metodi di lotta e di autogoverno che ci diano in reale efficacia di intervento. Qui i compagni, a seguito di una partecipata assemblea, ci danno alcuni spunti: mutualismo, controllo popolare e battaglie nazionali su temi centrali come lavoro, formazione, sanità [ccw].

* * * *

Sabato scorso a Napoli è successo qualcosa di davvero importante. A nemmeno una settimana dal NO al referendum, circa 250 persone – studenti, lavoratori, militanti e cittadini, professori come Giuseppe Aragno, scrittrici come Francesca Fornario, operai come Mimmo Mignano – hanno riempito gli spazi dell’Ex OPG di Materdei per incontrarsi, ragionare assieme sul futuro, organizzarsi. Per non essere telespettatori della crisi.

L'emozione, l'entusiasmo – reso più forte dalle telefonate con Nicoletta Dosio dalla Val Susa e con altri compagni di Mantova, Bergamo, Livorno... – le tre ore di dibattito, con la diretta dell'incontro che finora è stata vista da 5.000 persone da tutta Italia, testimoniano di come l'assemblea abbia colto una sensibilità diffusa: la voglia di fare qualcosa dopo questa vittoria popolare, di restare in contatto, di alzare il livello della proposta, di passare da questo NO ad altri NO, per arrivare insieme al nostro SI...

Una sensibilità che siamo convinti attraversi tutto il paese: per questo motivo nelle prossime pagine proveremo a sintetizzare alcuni contenuti emersi dall'assemblea, per lanciare qualche idea su come costruire, a partire dalle lotte e dai territori, un vero potere popolare.

 

Un voto delle classi popolari

Tutti gli interventi dell'assemblea hanno sottolineato, sia attraverso i dati, sia attraverso l'esperienza diretta di chi ha fatto la campagna da Nord a Sud, come a votare NO siano state le classi popolari: disoccupati, precari, lavoratori, quartieri popolari, periferie. A differenza di quanto sostenuto da Renzi, chi ha votato NO non “ha paura di cambiare”, ma anzi esprime una voglia di cambiamento, ma di un vero cambiamento: quello delle politiche di austerity, di impoverimento, di sottrazione dei diritti. Insomma, chi in questi anni ha pagato la crisi, ha mandato un segnale al Governo e alle classi dominanti: siamo stanchi di voi e dei vostri provvedimenti, stiamo male e sappiamo che potremmo stare meglio se le vostre politiche finissero. Ora vogliamo cominciare a decidere, a contare.  

 

È successo qualcosa di storico

Anche per questo quello che è accaduto è qualcosa di storico, imparagonabile alle consultazioni precedenti. Mai le classi popolari in questi anni si erano espresse con una tale chiarezza. E questo nonostante la blindatura mediatica, il terrorismo delle classi dominanti, il fatto che per il SI fossero schierati banchieri, padroni, USA e UE, intellettuali e artisti eminenti. Il tasso di partecipazione, lo scarto con cui ha vinto il NO, non lasciano adito a dubbi: ormai le classi popolari fanno per la maggior parte di testa loro. Stanno venendo al pettine i nodi della crisi del 2008: le clientele, i ricatti, le reti partitiche che avevano imbrigliato per tanto tempo la vita della masse, tengono sempre meno.

Questo punto deve diventare un forte elemento di consapevolezza. Se stiamo davvero vivendo in un momento storico non possiamo continuare a fare tutto come prima, dobbiamo metterci all'altezza della sfida, migliorarci, mettere da parte le cose secondarie e pensare alle cose essenziali, essere responsabili, cioè in grado di rispondere davanti ai nostri figli, ai nostri nipoti.

 

Confutate tante idee erronee

Alcuni interventi hanno sottolineato come il merito di questo referendum sia stato anche quello di confutare tante idee sbagliate diffuse in questi anni. Abbiamo sentito dire che le masse erano stupide e apatiche, che non si interessavano affatto delle istituzioni, che non avevano voglia di partecipare, che via via avrebbe votato sempre meno gente, che dovevamo disinteressarci del referendum perché tanto era solo un affare interno al PD, che non avrebbe prodotto alcun effetto, e che comunque avremmo perso... 

Purtroppo per giustificare la propria incapacità di intervenire sulla realtà si cercano sempre tanti alibi, invece di fare un po' di autocritica. Per fortuna i fatti hanno la testa dura e alla fine sgombrano il campo. Per questo bisogna andare a scuola dalle masse, perché la rivoluzione non è un'idea che un pugno di volontari dovrebbe realizzare contro tutti e tutti, ma un profondo, molecolare, continuo cambiamento che avviene all'interno della società, rotture che maturano anche a prescindere da noi, e rispetto alle quali noi dobbiamo metterci al servizio, cercando di orientarle con gli strumenti che abbiamo, per evitare che vengano recuperate da chi vuole continuare a opprimerci.

 

Come si stanno muovendo le classi dominanti?

La botta del voto del 4 è stata così forte che ha effettivamente determinato una reazione scomposta da parte di tutti i soggetti politici. C'è infatti chi vuole provare a capitalizzare elettoralmente il NO, come i 5 Stelle, che non a caso spingono per le elezioni e simulano sicurezza sull'esito (quando poi al momento di scoprire le carte gli esiti sono tutt'altro che scontati), e chi, come Renzi, vorrebbe incassare subito il 40% del SI per impedire che il tempo logori ancora di più il PD e che gli equilibri nel partito si spostino a suo sfavore. C'è Salvini che sgomita per un po' di protagonismo, cercando di chiudere a suo vantaggio la partita politica nel centrodestra, e c'è chi, nel sottobosco istituzionale, punta sul rinviare le elezioni perché spera che il tempo faccia sbollire la rabbia popolare e si possa tornare in questi mesi a intessere clientele, rapporti e promesse. 

Ma sappiamo che tutto questo è solo un teatrino, e che bisogna guardare a chi nella società ha effettivamente il potere. Come si sta muovendo il mondo padronale, delle banche, della finanza? È interessante vedere come anche loro non abbiano una strategia complessiva per affrontare questa situazione di crisi economica e politica. Avevano puntato tutto su Renzi e speravano in una sua vittoria o al massimo leggera sconfitta che gli avrebbe consentito di restare in sella. Ma ora il piano è saltato e non ci sono all'orizzonte figure in grado di portare al termine la legislatura secondo i loro desideri (avevano infatti già chiesto di comprimere il costo del lavoro, aumentare la produttività, ridurre le tutele..).

È così che si arriva al Governo Gentiloni. Il cui nome è simbolo del compromesso fra le diverse frazioni del capitale italiano che prova a garantire un minimo di stabilità (la loro), tenendo allo stesso tempo in caldo il posto per Renzi, di cui Gentiloni è un fedelissimo. Facendo magari in questi mesi una legge elettorale conveniente per il PD, e garantendo gli impegni minimi con le banche e con l'UE, senza però “bruciare” l'ex premier, che può tornare utile al prossimo giro, se non per vincere, almeno per energizzare la campagna elettorale e determinare una situazione di stallo, con la sostanziale parità numerica fra i tre poli, cosa che impedirebbe ai 5 Stelle di governare…

Però un dato è già evidente: il Governo Gentiloni sarà un governo debole, incapace di continuare l'attacco che Renzi aveva portato con forza contro le classi popolari. È un governo con ancora meno consenso sociale, mediatico e parlamentare, diretto da una figura scialba, ricattabile da diversi lati, che non ha la legittimità per fare provvedimenti netti contro di noi. Questa è una buona notizia, perché, se effettivamente non lo può fare, vuol dire che abbiamo guadagnato tempo e rallentato il peggioramento delle nostre condizioni di vita. Se invece ci si dovesse provare, troverebbe probabilmente una certa resistenza popolare, e avremmo l’occasione di produrre mobilitazioni. Insomma, per produrre una soluzione buona per loro, le classi dominanti stanno facendo indignare ancora di più le masse con manovre di palazzo, tirando fuori nomi ben poco carismatici, confermando ministri e personaggi fallimentari agli occhi di tutti. Si stanno continuando a scavare la fossa.

Ultimo dato, straordinariamente interessante per noi: a dimostrazione che le lotte servono, i ministeri dell’Istruzione, del Lavoro e del Pubblico impiego del Governo Renzi sono stati molto sotto pressione. Alla fine a saltare è stato solo il ministero dell’Istruzione, perché destituire Poletti voleva davvero dire sconfessare il Jobs Act, cosa che in vista di un referendum abrogativo era un mezzo suicidio. Ma tutto questo balletto rappresenta un implicito riconoscimento del fatto che le mobilitazioni presto o tardi presentano sempre il conto! 

E ora che fare?

Veniamo al lato nostro. Dopo l’euforia della notte del 4, in molti abbiamo avuto paura, o comunque mille insicurezze. È comprensibile: siamo in una situazione inedita. Un po' perché non siamo abituati a vincere, un po' perché non abbiamo, a differenza di altri attori politici, una proposta pronta e credibile da presentare alle masse. Siamo ancora troppo rassegnati, frammentati, deboli, per pensare di poter incidere veramente sul piano nazionale. Ma le cose stanno davvero così? Vediamo.

Per avere una pratica efficace bisogna inquadrare le cose nella situazione in cui si vive, non in quella che astrattamente si vorrebbe. Ora, dobbiamo riconoscere che, oggettivamente, le masse si sono poste più avanti di noi. Per anni non hanno raccolto, o hanno solo parzialmente accettato, le nostre proposte di mobilitazione, fondamentalmente perché non le ritenevano incisive. Però appena hanno avuto la possibilità di partecipare con qualche speranza di determinare qualcosa, lo hanno fatto. Ecco, quando le masse ci superano, a noi resta o di accodarci o di camminare a fianco a loro, mettendoci al loro servizio, dando loro gli strumenti che possono servire per emanciparsi.

Noi pensiamo non ci si possa accodare, perché vorrebbe dire aspettare che questa vittoria sia capitalizzata da chi si caratterizzerà come portavoce della protesta delle masse, in primo luogo dai 5 Stelle, poi da Salvini e dal pezzo di PD ancora in grado di cooptare molti dei “nostri”. Pensiamo invece si debba costruire da subito uno spazio di mobilitazione continua, capillare. Non c'è da inventarsi niente di che. Il popolo ha detto che il suo problema non era cambiare la Costituzione, ma applicarla nelle parti che non sono mai state applicate, come ad esempio il diritto al lavoro? Bene, ecco il nostro programma! 

Facciamo un esempio concreto: proprio in questi giorni si giocano le partite del rinnovo del contratto dei metalmeccanici, del pubblico impiego, dell'igiene ambientale. Contratti sottoscritti fra dirigenze sindacali, imprese e governo che prevedono le solite briciole per i lavoratori.

Lavoratori a cui viene di nuovo chiesto di accollarsi sacrifici votando SI. Ecco, proprio in questi giorni il NO delle urne sta diventando per tanti lavoratori una mobilitazione per il NO a questi contratti. D'altronde sono stati sottoscritti da rappresentanze screditate e da un governo che non è più in carica. Ora bisogna approfittarne e riaprire la partita. Bisogna spingere perché gli operai e gli impiegati votino NO alla proposta e vadano di nuovo a trattare con un governo più debole per strappare migliori condizioni lavorative e aumenti salariali.

Questo è solo un esempio di come possiamo riprendere ed estendere la nostra campagna. Ma la Costituzione può essere applicata in tanti modi: l’importante è tornare sui territori e rilanciare le lotte a partire da questo sentimento di forza. Ora sarà più difficile attaccarci se impediamo con la forza la chiusura di un ospedale, o spingiamo le amministrazioni a violare patti di stabilità per garantire i diritti costituzionali, perché sono quei diritti che oggi il popolo ha di nuovo sostenuto…

Chiaramente, per far riuscire queste battaglie, bisogna farle uscire dal locale. Quindi si tratta innanzitutto di non far morire le forme di coordinamento che ci siamo dati: dai comitati per il NO, alle relazioni che si sono create a livello nazionale. Il rischio è di finire come il referendum dell'acqua: una vittoria che diventa una sconfitta perché non siamo in grado di strutturarci in un progetto politico di controllo dal basso sull'applicazione del volere popolare. L’organizzazione è dunque un passaggio fondamentale. Ma non si tratta di inventarsi unità artificiali: si tratta di fare unità a partire dalle pratiche. Tutte quelle pratiche che hanno caratterizzato sui territori la campagna del referendum e che hanno messo insieme persone di diverse provenienze politiche, ora vanno messe al servizio dei bisogni popolari, e restituite in una forma quanto più unitaria è possibile.

Se, invece di smollarci, facciamo presto questo ulteriore passaggio, ci troveremo nel giro di pochi mesi in condizione di aver aggregato forze e di aver parlato a tanti soggetti diversi, che magari potrebbero essere intenzionati a costruire con noi un nuovo percorso di liberazione. E arriveremmo alle prossime elezioni almeno con quella soglia minima di forza per poter imporre all’ordine del giorno i nostri temi, per rendere anche questo terreno un terreno di conflitto, per non stare a guardare una partita fra Renzi, Di Maio e Salvini. 

 

Costruire il potere popolare!

Fin qui abbiamo parlato di cosa dobbiamo fare nel breve termine, da qui a sei mesi, per continuare ad aggregare, a strappare alle classi dominanti quanto più possibile, per caratterizzare un eventuale dibattito elettorale con le nostre esigenze (soprattutto quella di cui nessuno parla: giustizia sociale!). Ma non esiste solo il breve termine. Anzi, stare sempre appresso alle scadenze che ci impongono le classi dominanti è proprio ciò che negli ultimi decenni ha impedito di pensare in grande, di trasformare il tempo subito in tempo vissuto, di costruire qualcosa di serio e duraturo.

Ora, quello che la tornata referendaria ha mostrato è che molti sentono l’esigenza di un soggetto politico a sinistra che sia da un lato di rottura e da un altro lato incisivo, di proposta, pragmatico. Ma questo soggetto non si può improvvisare, non è questione di buona volontà né di fare accozzaglie. È un lavoro di medio periodo, che richiede un largo respiro. Un lavoro che però, a otto anni dall’inizio della crisi, non può più essere rimandato. La crisi infatti durerà ancora un po’, ma in mancanza di alternative non durerà per sempre: riuscirà alla fine a produrre una relativa stabilizzazione delle classi dominanti su un cumulo di macerie e di barbarie. In questo momento storico ci sta passando fra le mani una grande occasione: per questo dobbiamo mettere subito mano a un progetto ricompositivo che federi lotte e territori su un orizzonte ben definito, su cose concrete che si possono toccare con mano, su un nuovo paradigma di relazioni, su un diverso sistema di valori. Anche se per farlo ci può volere qualche anno: qui scorciatoie non ne esistono.    

D’altronde i processi politici possono conoscere accelerazioni assai rapide, ma hanno comunque una storia, una preparazione, che richiede la giusta impazienza. Facciamo degli esempi. Il movimento NO TAV, quando è assurto agli onori delle cronache nel 2005 per la sua capacità politica e il suo radicamento di massa, aveva già quindici anni di lotta alle spalle. Cuba, il Chapas, il Venezuela, ci parlano di processi di aggregazione passati per almeno un decennio attraverso errori e tentativi, prima di riuscire a produrre un exploit significativo. Per tornare a tempi recenti, la stessa Podemos, nonostante fosse espressione del più grande movimento di massa che la Spagna avesse conosciuto dopo la Guerra Civile, ci ha messo 3 anni per riuscire a costruire un progetto che avesse una dimensione significativa (l’8% alle elezioni europee), e altrettanti per arrivare a determinare alcune politiche di Governo. E, per restare all'Italia di oggi, persino un movimento compatibile come il 5 stelle ci ha messo quasi dieci anni, nonostante la potenza di Grillo e della Casaleggio, prima di esplodere a livello elettorale.

Insomma, la storia ci insegna che il successo politico, e pure la ricaduta istituzionale, sono il frutto dell’accumulazione di presenza, di consenso e potere a livello sociale.

Invece a cosa stiamo assistendo in questi giorni? Subito dopo il 4 dicembre una serie di rottami della sinistra istituzionale, del PD o ex alleati del PD, faccendieri sindacali e pentiti intellettuali, hanno provato anche loro a speculare sullo spazio che si è aperto, recuperando un po' di fraseologia rivoluzionaria e presentandosi miracolosamente come anti-establishment. Ricomincia la solita smania per costruire cartelli elettorali, perché per questi soggetti le elezioni (e la riproduzione del proprio ceto politico) sono l'unico terreno che hanno mai conosciuto. Oltre che essere una mossa un po' disgustosa, questa è anche una mossa stupida. Questi qui non hanno capito che il loro schema è saltato da tempo, che non possono più vivere parassitariamente sulla rendita della “sinistra”. Perché le masse possono essere ignoranti, ma annusano la puzza, vanno a vedere i nomi, hanno memoria. E molti di questi soggetti non hanno alcuna credibilità ai loro occhi. D’altronde se non esisti, se non ti fai mai vedere, se non risolvi i problemi e non dai niente, se spunti solo quando c’è da chiedere qualcosa, le persone fanno bene a punirti. 

Ma c'è un ulteriore problema proprio alla base. Nelle condizioni in cui la crisi ci ha portato non serve nemmeno mettere – ammesso che ci siano – delle brave persone a qualche livello istituzionale e persino al governo. Il degrado della vita democratica è tale che le funzioni rappresentative sono molto depotenziate rispetto agli interessi in campo e che persino il politico più potente non può intervenire su tutti i livelli, non può individuare le “giuste” soluzioni, e non le può applicare. Per cui non si possono cambiare così le cose (fra l’altro, su questo scoglio si sta già infrangendo il 5 Stelle, che pure non ha ambizioni rivoluzionarie). Attenzione: non stiamo dicendo che il passaggio istituzionale non sia significativo, o che vada del tutto abbandonato alla controparte: proprio prima dicevamo che anche in queste circostanze dovremo trovare il modo per far sentire la nostra voce, come è accaduto a Napoli nelle amministrative e al referendum. Si possono persino sperimentare usi antagonistici dell’istituzione, ed è certo utile avere personaggi che fungano da “diga” rispetto al montare della barbarie. Però la centralità della nostra azione deve essere altrove, deve andare alla radice del problema.

Scusate se siamo brutali, ma meglio essere chiari. Se non si riparte dalla presenza sul territorio, dal radicamento fra le masse, dai luoghi dove si producono idee e senso comune, non si può fare niente. Questo lo predicano in molti, ma chi lo fa davvero?

E ancora: se non si diffondono esperienze di mutualismo e di solidarietà che sviluppano senso di comunità e coscienza della propria classe, non si può andare lontano. Se non riusciamo a fare attivare il popolo in prima persona, attraverso il controllo popolare che gli insegna a rompere gli interessi delle classi dominanti e ad autogovernarsi, se non si sperimentano forme di partecipazione attiva alla cosa pubblica, se non ci rendiamo efficienti nella gestione delle nostre “basi”, se stiamo ancora ad aspettare che la soluzione venga dall'alto, be’, non potremo cambiare nulla di sostanziale.

Sembrano cose banali, ma trasformarle in realtà dopo decenni di spoliticizzazione e di abitudine alla delega, non è mica facile.

Ma vogliamo essere ancora più espliciti: se non riusciamo ad avviare una rivoluzione culturale a partire da noi, dalle piccole cose e dai territori, se non riusciamo a essere diversi, a vivere davvero e non semplicemente predicare un altro sistema di valori, se non riusciamo a renderlo attraente per le masse, mostrando con i fatti che una gestione socialista dei luoghi e dei problemi è concretamente preferibile a una capitalista, non riusciremo a sviluppare alcun consenso significativo.

Per noi è qui che si gioca la vera partita del prossimo futuro. Non è qualcosa di utopico o di moralistico, è un dato materiale. Se siamo come tutti gli altri, solo un po’ di meno, allora nessuno ci sceglierà mai. Se siamo prigionieri di vanità individuali, corrotti, se strumentalizziamo le persone e pensiamo al nostro potere – solo un po’ più cortesemente degli altri – le persone preferiranno sempre prendersi l’originale piuttosto che la copia.

Ecco, dobbiamo iniziare subito ad autoeducarci ed educare. Dobbiamo iniziare subito, attraverso i tre pilastri del mutualismo, del controllo popolare, delle battaglie politiche nazionali (sul lavoro, sullo sviluppo, su formazione e sanità, sull’internazionalismo), a strutturare forme organizzative che siano più efficaci e mettano fine alla frammentazione.

Qualcuno dirà: per fare tutto questo ci vogliono decenni! Non è vero: basta che si riesca da una parte, l’esempio dilaga. L’entusiasmo è contagioso.

Con la massima umiltà, pensiamo di aver trovato, o meglio di aver appreso da altri e di aver adattato alle nostre esigenze, la chiave per uscire da questa situazione. Ma questa chiave, per aprire porte così arrugginite e pesanti, va girata con forza. Una forza che da soli ancora non abbiamo. Che nessuno di noi ha da solo. Per questo serve il contributo di tutti, per questo ognuno è importante.

Una volta trovata la chiave e la forza, aprire la serratura è un attimo… 

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