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Il filosofo e il politico: chiaroscuri di Massimo Cacciari

di Marco Assennato

Su “L’Espresso” del 21 giugno Massimo Cacciari propone una risposta alla questione: a cosa serve, oggi, la politica? Si tratta d’un colto commento di cronaca, dedicato perciò alle avventure e tribolazioni di Monti e dei partiti italiani, che si concentra sul valore rivoluzionario della governance dei “tecnici”, presa d’assalto dalle coalizioni in frantumi e non sufficientemente interpretata – a dir del filosofo – neppure dall’algido professore della Bocconi. Una sorta di manifesto della tecnocrazia europea, dunque, talmente assertivo (ma chi ha consuetudine con i testi di Cacciari non si stupirà certo per lo stile) da risultare ideologico. Fosse solo questo ci sarebbe poco di interessante: meglio leggere gli originali che le copie, e cercarne l’immaginario tra le colonne del Sole 24ore.

Oppure, si potrebbe dire: i convertiti sono sempre peggiori dei credenti, come avessero qualche passato da farsi perdonare e chiudere la questione. Insomma, metter di canto quanto scrive Cacciari ricordandone semplicemente la storia fulminante: capace di attraversare gli ultimi trent’anni passando dalle lezioni operaiste al PCI dell’autonomia del politico e da lì di volare angelicamente alla teoria dell’amministrazione per approdare infine  – con una parallela e sempre più intensa passione teologica – ai lidi della tecnica, amato e odiato gelido mostro da frenare catechisticamente. In tal senso si potrebbe richiamare l’acuto pungolo di Franco Fortini il quale, già a fine anni settanta, indovinò la traiettoria di Cacciari, secondo «il sogno diffuso e non troppo proibito di poter essere a un tempo anarchico e istituzionale, negatore e organizzato, belva e compagno».

A poco varrebbe dunque una replica, se si trattasse solo dell’ennesima storia d’un disincanto – cosa che altri potrebbe definire con più freddezza opportunismo. Eppure invece, astraendo dalle biografie, che son tutte e sempre legittime ed in ogni caso autoevidenti, nella trama del pensiero di Cacciari c’è uno spessore che merita attenzione, chiama una risposta.

In primo luogo perché il nostro filosofo, molto opportunamente, riconosce e interpreta il passaggio d’epoca nel quale si muove il politico contemporaneo, più e meglio di tanti altri sinistri opinion makers: si colloca insomma “oltre il moderno” e chiaramente al di là della forma-stato. Ed in secondo luogo perché egli ridefinisce la funzione della critica – appannaggio esclusivo del sogno platonico del filosofo consigliere del tiranno – come spazio di rilevazione dell’aporia irrisolvibile d’ogni struttura politica, canto dell’inizio sempre ineffettuale eppure originario fungente del potere. Così facendo, Cacciari diventa sì interprete dell’ideologia tecnocratica, ma mette in campo una forma strategica che rivela, in qualche suo punto, il piano del reale.

Ma andiamo per ordine: Cacciari vede all’orizzonte il fallimento del governo guidato da Mario Monti e ne individua la causa (esterna) nell’ansia diffusa dei partiti italiani (o di quel che ne resta) di tornare il più rapidamente possibile all’esercizio della propria (presunta) sovranità. Pessimo quadro, secondo il filosofo, che rivela una profonda inconsapevolezza della fase storica. Nel bel paese l’amministrazione della crisi (ah! chiamare le cose con il loro nome!) è presa dal double bind «dei politici che pretendono di conservare la loro antica “aura” di autonomia e sovranità, e degli ingenui tecnocrati che ritengono “leggi di natura” ciò che è frutto di decisioni e conflitti di interesse su scala globale». Da una parte l’idolatria della razionalità specialistica dei tecnici e dall’altra l’illusione dell’autonomia del politico : incarnata di volta in volta dalla destra in dissoluzione, dalle nevi della socialdemocrazia, o da tardive offerte illuministiche.

Rivoluzionario sarebbe invece «costruire una “coalizione” tra politici-tecnici capaci di amministrare-distribuire e tecnici-politici in grado di comprendere storicamente presupposti e possibili sviluppi del “salto d’epoca”!». Qui pulsa tutto il Weber di Cacciari : quando la potenza del Gestell, del sistema tecnico-economico si impianta planetariamente, spazzando via ogni Nomos e ogni Kultur – e con essi la forma-Stato – non possiamo tuttavia credere che il sistema abbia in sé la possibilità di auto-regolarsi. Allo scatenarsi della forza di mercato va opposta una forza che limita e tiene-in-forma, un Katechon dice la teologia politica, frutto di un compromesso con la tecnica e con i suoi funzionari:

«la prassi politica – scrive Cacciari – da “tecnica architettonica” complessiva, da “arte regia”, può funzionare ormai soltanto come ganglio del sistema o della rete dei processi economico-finanziari-scientifico-tecnici, che dominano da tempo le nostre vite. Al loro interno la politica, se ancora così vogliamo chiamarla, è destinata a svolgere importanti funzioni, ma essenzialmente di carattere amministrativo-distributivo. E anche, in determinate situazioni, di “freno” agli effetti socialmente più laceranti che quei processi possono produrre, se lasciati a se stessi, se “scatenati”».

Tra le parole di Cacciari si scorge il piano reale, si diceva. Intanto non si indugia in illusioni socialdemocratiche, ed in secondo luogo si riconosce la crisi definitiva della sovranità dello Stato, il che non è male. Se conflitto si dà (difficile scorgerne tracce in Cacciari, persuaso com’è che il capitale possa assorbire ogni differenza) questo sta al livello d’un sistema di potere che “mette in rete”, su scala planetaria, pubblico e privato, tecnocrazie e finanza, imprese multinazionali e comunità scientifica.  Le antiche sovranità statali non sono altro, ormai, che funzioni di questa rete. Gelido mostro, che chiama l’intervento d’un suggeritore, chiede una coscienza critica che, in sé, non trova.

E qui il sogno platonico di Cacciari: al quale consigliamo di rileggere l’amarissima (e bellissima) « Settima lettera ». Già, perché il suggeritore del tiranno è il filosofo, capace di integrare la politica nella tecnica, di assumerne il punto di vista, ma criticamente. Egli insomma conosce i vangeli neoliberisti e perciò media con l’ultimo uomo, che della tecnica è prodotto, istruito in una delle tante Bocconi d’Europa – uomo intelligente e che sa per filo e per segno come sono andate le cose, scriveva Nietzsche, capace di bisticciare e di far pace al più presto, per non guastarsi lo stomaco, genia indistruttibile, come la pulce di terra! Purtroppo però, lo sapeva bene Nietzsche, quest’uomo spregevole non ha alcun bisogno dei suoi consigli. Basti da monito la tragica esperienza di Platone in Sicilia, che conosciamo grazie a Plutarco: a causa dei dissapori con Dionisio I, il filosofo-consigliere, rischiò una condanna a morte, fu venduto a Egina come schiavo e poi riscattato per venti mine dal suo compagno Anniceride di Cirene. La storia racconta che la somma fu infine recuperata e utilizzata per l’acquisto del giardino di Academo lì dove il filosofo fondò la sua scuola. Rileggere questa vicenda potrebbe forse ricordare a Cacciari che il potere non ammette consiglieri. Tanto più che Monti non è Dionisio I, Cacciari non è Platone, e il San Raffaele di Don Verzè non assomiglia per nulla all’accademia.

Di più: quando Cacciari scrive che la politica non è più una architettonica, che le sue istituzioni sono incapaci di interpretarla come arte regia segnala da un lato la crisi della forma moderna del politico (o delle istituzioni che lo hanno, nel bene e nel male tenuto in forma), e d’altro canto però segnala che questo sistema non ammette un Sovrano sopra di sé: la tecnica, esaltata dal filosofo in posa heideggeriana, proprio per la sua presunta neutralità interpreta l’unico spartito che conosce, ovvero quello della dissoluzione di ogni forma di contenimento. Ma la tecnica dei vari Monti non è neutrale, essa è intenzionata dallo spirito del capitale, piegata al fine unico dell’accumulazione di profitto. E proprio perché il sistema politico si muove oramai essenzialmente sul piano tecnico-scientifico,  come del resto l’universo produttivo, andrebbe riconosciuto che la crisi di sovranità agisce qui nello scarto tra socializzazione massima dei fattori produttivi e individuazione imposta del dominio sugli stessi. In questo quadro si può certo restare appesi alla Khere di Heidegger e capovolgere il riconoscimento d’un passaggio d’epoca che sarebbe di per sé ricco di potenzialità in attesa muta del disvelamento dell’essere – sempre sussurrato all’orecchio del tiranno. Oppure si può individuare i fattori materiali e le contraddizioni reali a partire dalle quali si producono processi di soggettivazione politica all’altezza del tempo. Nessun compromesso con gli ultimi uomini, e nessun languore per il loro tramonto chiama il tempo nostro. Piuttosto occorrono la fatica del concetto e il desiderio del conflitto per costruire un nuovo assetto sovra-statale, poliarchico, policentrico e meticcio. Istituzioni del comune le abbiamo chiamate da qualche tempo. Roba inascoltabile, per gli angeli della tecnica.

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