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“Chi detesta l’America, detesta se stesso”

di Elisabetta Teghil

Ovunque sia presente un segno è presente anche l’ideologia. Tutto ciò che è ideologico possiede un valore semiotico.

Ma le qualità semiotiche si manifestano in maniera continua ed esaustiva nella comunicazione sociale ed esse si realizzano in modo compiuto nel linguaggio.

La parola è il fenomeno ideologico per eccellenza.

Allora si capisce perché, da alcuni anni, si è diffusa una strana neo-lingua il cui vocabolario , apparentemente, è sorto dal nulla. Globalizzazione, flessibilità, governance, tolleranza zero, post-modernità, post-femminismo, legalità, non-violenza…tutte parole accompagnate dall’oblio e dalla damnatio memoriae di altre parole come capitalismo, classe, lotta di classe, sfruttamento, colonialismo, patriarcato, accomunate dalla condanna di essere “obsolete” e, comunque, “superate”.


Tutto questo è imperialismo culturale che si fonda su un rapporto di comunicazione che ha fatto tabula rasa delle conquiste sociali ed economiche di cento anni di lotte, oggi presentate come retrive e/o superate, come nel caso del femminismo, perché si è “ottenuto tutto”.


E’ l’ideologia neoliberista che si fonda su un rapporto di comunicazione teso ad ottenere la sottomissione.


E, per questo, media, think tank, ong, insistono nel dire che la storia è finita, che questo è l’unico modello possibile ed è il migliore, che l’attacco al lavoro è “riforma” e che il neocolonialismo è “guerra umanitaria”.


Lo smantellamento deliberato dello Stato sociale non è frutto di una crisi, ma di una scelta. Infatti è correlato ad una ipertrofia dello Stato penale.

La generalizzazione della disoccupazione, del precariato e l’insicurezza e povertà sociale non sono frutto di una presunta crisi o di errori o di effetti non previsti, ma il motore privilegiato dell’attività economica.


Questo rivolgimento simbolico fondato sulla naturalizzazione del pensiero neoliberista, il cui dominio si è affermato grazie ai media, ai think tank, ai teorici socialdemocratici, alle prefiche della non-violenza e alle vestali della legalità, in conformità con il modello statunitense imposto ai paesi europei attraverso la svendita dei beni pubblici e la distruzione di ogni tutela lavorativa, è accettato con rassegnazione come sbocco obbligato della naturale evoluzione del capitale, quando non viene, addirittura, celebrato con entusiasmo gregario da tutte/i quelle/i che non sanno vedere niente oltre questa società.

Eppure il neoliberismo, con tutti i suoi corollari, non rappresenta altro che la fase attuale del capitalismo nella sua autoespansione.

Le delocalizzazioni industriali, le crescenti e disumane disuguaglianze, la povertà cronica e diffusa non sono il frutto della crisi o la fatale conseguenza dello sviluppo sociale, ma il risultato di decisioni che riflettono il forte spostamento dei rapporti di classe in favore del capitale.

Il modello non è da inventare, non si costruisce a tentoni, ma è quello statunitense. L’America riplasma il mondo a sua immagine.

Ma, tutto ciò, passa attraverso la colonizzazione semiotica e ideologica che si opera con la diffusione di questi metaconcetti.

Disimpegno dallo Stato sociale, rafforzamento delle componenti poliziesche e penali, riduzione delle tutele del mercato del lavoro e delle tutele sociali e, attraverso la celebrazione moraleggiante della “responsabilità individuale” si approda alle guerre “umanitarie”.

Il tutto va di pari passo con la sistematica dissoluzione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, con la precarietà, con carichi di lavoro disumani, con il controllo/vigilanza sul luogo di lavoro , con la caccia ai sindacati non allineati, con la rimessa in discussione del diritto di sciopero, con la totale flessibilità dell’orario di lavoro.


E’ un progetto insieme ideologico ed economico.


Questa griglia di lettura, d’impianto statunitense, passata in Europa prima attraverso l’Inghilterra, comporta una forte spoliticizzazione.

In poche parole, si è imposto il concetto del bilancio, tutto sommato positivo, del capitalismo che, oggi, vedi le guerre “umanitarie”, è un capitalismo dal volto umano.

Alcune/i, troppe/i, pur vedendo la violenza e la disumanità dell’ordine capitalistico, rifiutano di pensarli come aspetti sostanziali e inerenti l’essenza stessa del sistema e preferiscono definirli come semplici incidenti, disfunzioni e, l’ultima versione, errori del neoliberismo, che non compromettono il principio del sistema stesso che , spontaneamente, sono inclini a difendere e si offrono come consigliere/i della corona.

La subalternità al pensiero unico del potere che, a volte, coincide con condizioni di privilegio, individuali o di ceto, passa, necessariamente, attraverso l’annullamento della politica e attraverso l’ignoranza procurata della storia, con un cinico travestimento della realtà.


La fase attuale del capitalismo ha la sua principale caratteristica nell’offensiva degli Stati Uniti, volta a far assumere a questi il ruolo di Stato del capitale e, in quanto tale, teso ad assoggettare con ogni mezzo a disposizione tutte le potenze rivali.

Ottenere, a tutti i costi, il dominio egemonico, è, per gli USA, un imperativo imposto dalle condizioni oggettive al fine di superare la spaccatura strutturale tra capitale transnazionale e Stati nazionali.

Da qui, l’attacco all’Europa che ha le radici profonde nel disprezzo della democrazia e dello Stato sociale inscritti negli Stati europei e che, oggi, si basa sulla necessità di impedire l’unificazione dell’Europa, di sgretolarne la moneta ed il mercato unico.

Infatti Henry Kissinger, in un discorso intitolato “L’anno dell’Europa”, consigliava agli europei di esercitare le loro “responsabilità regionali” nel quadro globale di un “ordine mondiale” determinato dagli Stati Uniti.

Ogni soluzione indipendente era, dunque, già condannata.


La nuova vulgata si fonda, allora, su una serie di opposizioni e di equivalenze che si sostengono e si rispondono a vicenda per descrivere le trasformazioni della società “avanzata”, attraverso una “retorica” a cui i governi ricorrono per giustificare la loro volontaria sottomissione ai mercati finanziari.

In questo modo, gli Stati Uniti impongono al resto del mondo categorie di percezione analoghe alle loro strutture sociali, rafforzando, così, le pretese universalistiche.

Attraverso il ragionamento binario, costruito compiutamente, l’ alternativa è fra essere individui, partiti, Stati “democratici” e “capitalistici” nella versione “americana” oppure “terroristi”, “islamici” e, ultima frontiera, “rosso-neri”.

La contestazione del pluralismo all’americana non può che sfociare, secondo i parametri del modello capitalistico statunitense, nella “fusione ideologica fra la sinistra comunista e la destra nazionalista” (Takis Michas).

E, in un delirio di onnipotenza, avendo sostituito il vangelo con il mercato, Gerusalemme con Washington, Gesù con l’America, si arriva ad una considerazione degna delle pagine più impegnative della Bibbia “Chi detesta l’America, detesta se stesso” (Newsweek- 31 gennaio 2000).

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