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Costituzione e virtù politica

Mario Dogliani

1. Ci stiamo inabissando. Stiamo correndo a grandi passi verso un qualcosa di molto simile a una regressione verso un primitivismo politico: il paese continua a dimostrarsi attratto (certo, provocato da comportamenti politici vergognosi) da forme, diciamo così, semplificate ed elementari di organizzazione e legittimazione del potere, mostrando di non avere alcuna fiducia nel conflitto democratico. Continua a resistere, mutate le forme, il richiamo esercitato da un potere illusionistico (non sprechiamo l'aggettivo "carismatico") fondato sulla affabulazione e sulla manipolazione - quello descritto con precisione da Thomas Mann ne Mario e il mago (Mario und der Zauberer) nel 1930 - i cui interessi sono stabilmente sincronizzati con quelli dei poteri extrasociali (i signori dell'oro, nazionali e internazionali, e i signori dello spirito, tutori dei credenti non adulti).

La causa di questo inabissamento non è immediatamente economica, perché non si può affermare che le crisi economiche portino di per sé, ineluttabilmente, alla crisi della democrazia. Il New Deal rooseveltiano lo prova; e d'altra parte non si può sostenere che l'avvento nei fascismi in Europa sia stato direttamente determinato da ragioni economiche. Anche di fronte all'impoverimento diffuso, alla paura, all'avvilimento, alla miseria la causa della deriva autoritaria è politica, perché si risolve nella incapacità del potere rappresentativo di reagire in modo razionale ed economicamente efficace alla crisi attraverso gli strumenti che gli sono offerti dalla stessa democrazia che lo ha costituito.

Ma che cosa ha prodotto questa incapacità?


Oggi tutti dicono: la delegittimazione della classe politica dovuta ai suoi vizi e alla sua incapacità; due concause che si rafforzano vicendevolmente. Questa diagnosi, pur vera, rischia, se non sviluppata nell'esame del contesto costituzionale e culturale che ha consentito il diffondersi di quelle negatività, di confermare solo i giudizi di inutilità e di parassitismo diffusi, senza indicare terapie e vie d'uscita. Invocare resipiscenze e scatti volontaristici, non si sa fondati su che cosa, è troppo poco per fronteggiare critiche che si indirizzano non solo alla politica intesa come "mondo politico" (e cioè classe politica, casta), ma anche alla politica come tipo di azione umana. Occorre cercare una risposta più strutturata. Alcuni la trovano nella posizione di degrado e subalternità oggettiva in cui la rappresentanza politica è stata condannata dal finanz-capitalismo globalizzato: una funzione servente - si dice in sostanza - non può essere svolta che da servi e mercenari, e rivelarsi dunque non solo strutturalmente corrotta, ma, nei momenti difficili, incapace di reagire al contesto che così l'ha plasmata. Ma anche questa è una risposta disperante, o incompleta: se solo il rovesciamento di fatto di questo contesto può ridare dignità alla rappresentanza, allora nei tempi calcolabili non c'è niente da fare. Se, invece, dal punto di vista in esame, è sufficiente collocarsi in una posizione di critica - seppur radicale - allora si deve ammettere che anche un atteggiamento soggettivo può salvare da questa condizione umiliante. In tal modo, però, si torna ad ammettere la possibilità di una rappresentanza politica "libera e pura" in funzione dei valori assunti dal rappresentante, anche nel contesto attuale. Ma non è facile definire con esattezza i valori e gli obiettivi politici "liberanti", produttivi di dignità, che saranno inevitabilmente molteplici. E così si torna daccapo.

È dunque necessario cercare di mettere meglio a fuoco la domanda: perché la questione morale è stata finora - nel nostro sistema - irresolubile? E perché la critica politica diffusa, che la agita, non è una critica a una politica, ma una critica alla politica? Perché non si incanala in una domanda, ma si getta sull'exit (che resta un exit, anche se gridato, non bastando l'intensità delle grida a trasformarlo in voice)? È possibile formulare qualche giudizio sullo stato dei comportamenti pubblici che non si concluda con una mera esortazione alla moralità personale, privata, che dovrebbe guidare i singoli individui cui sono affidate funzioni pubbliche? È possibile, cioè, fare della questione morale una questione costituzionale?


2.
C'è un passo, famoso, della Politica di Aristotele, che rappresenta una sintesi del suo pensiero circa il nesso tra cittadinanza e virtù, e che può indicare la via per un riscatto della politica non affidato alla mera volontà dei singoli e al caso delle loro inclinazioni. Dice Aristotele:

«... la città [non] si costituisce semplicemente perché i suoi membri possano vivere, ma perché possano vivere bene ..., né essa si propone per fine la costituzione di un'alleanza volta a impedire il danno reciproco o a favorire uno scambio vicendevole di servizi, perché in questo caso gli Etruschi e i Cartaginesi e tutti quelli che hanno dei patti di intesa reciproca dovrebbero essere cittadini di una sola città. Eppure questi che hanno sì tra loro patti commerciali sulle importazioni ed esportazioni, convenzioni giudiziarie e trattati scritti di alleanza militare, non hanno magistrature comuni; anzi si reggono con istituzioni diverse gli uni dagli altri, non si curano delle loro rispettive qualità, non prendono provvedimenti perché non si compiano ingiustizie o qualche altra colpa da parte di coloro che sono compresi nell'alleanza, ma badano solo che siano rispettati i termini del trattato. Alla virtù e malvagità politica stanno attenti coloro che si curano del buon governo, perché è evidente che della virtù politica si deve preoccupare una città degna di questo nome e che non sia tale solo a parole. Altrimenti la comunità cittadina diventerebbe un'alleanza militare differente dalle altre, quelle tra alleati lontani, solo per la posizione geografica dei contraenti, e la legge sarebbe una mera convenzione e ... una garanzia dei mutui diritti, ma non sarebbe in grado di rendere buoni e giusti i cittadini.»


E ribadisce, dopo aver esaminato tutte le condizioni materiali necessarie perché si dia una convivenza, che la città non si riduce all'unità materiale fondata su quei mezzi, perché

«fine della città è ... la buona vita ... una vita perfetta e indipendente ... una vita vissuta in modo bello e felice. Perciò bisogna ammettere che la comunità politica abbia come fine le belle azioni e non semplicemente la convivenza. Quanti contribuiscono nella misura più alta alla vita di questa comunità partecipano alla città in grado più alto di quelli che, uguali ad essi per la libertà in cui sono nati ... o [superiori] in ricchezza, ne sono superati in virtù. Da ciò che si è detto è risultato chiaramente che coloro che discutono sulle costituzioni colgono solo una parte di ciò che è veramente giusto.» [1]


Ciò che colpisce - tra le molte osservazioni possibili che il passo suscita - è la distinzione tra "città degna di questo nome" e "città solo a parole". Distinzione che sembra finalizzata non soltanto a sostenere (con una argomentazione ab absurdo) la polemica intellettuale contro coloro che «discutono sulle costituzioni» senza comprenderne l'essenza, ma la constatazione che le città possono veramente essere città solo a parole; che il rischio di essere città solo a parole è possibile. È questa, d'altra parte, una affermazione che ricorre in molti dei nostri discorsi, quando critichiamo l'Unione Europea per il suo deficit di democrazia. Non ci riferiamo infatti, con questa critica, al fatto che, pur avendo "magistrature comuni" (e dunque essendo una "città"), l'Unione Europea è una città solo a parole perché si limita a sorvegliare il rispetto dei trattati e dei mutui diritti, e non si occupa della buona vita dei cittadini? E quando ricordiamo lo scopo di pace che aveva il disegno europeista ai suoi inizi, e, in fondo - al di là degli egoismi nazionali che sono riemersi prepotentemente e della strumentalità di molti dei discorsi sui debiti pubblici - quando si parla di quel profilo per cui le parole debito e peccato si intrecciano, non si pone forse il problema di un raccordo tra fini virtuosi e comportamenti virtuosi, in assenza del quale l'Unione resta una città solo a parole?

È dunque ragionevole chiedersi: il nostro costituzionalismo ha contribuito a far sì che la Repubblica sia qualcosa di più di un campo in cui si bada solo che siano rispettati i termini della costituzione-trattato, fondata a sua volta su una convenzione mirante a garantire i mutui diritti? E in che cosa consiste, oggi, questo "di più" che renderebbe la costituzione nel suo insieme capace di promuovere effettivamente le "belle azioni" e contrastare (ovviamente su un piano diverso da quello della repressione penale) la "malvagità politica"? E se questo di più non c'è, vuol forse dire che viviamo in una città solo a parole? e cioè che non abbiamo (più) costituzione?


3.
Si può certo innanzi tutto dire che questo "di più" dovrebbe consistere nell'effettività politico-giuridica del principio stabilito dall'art 54 della Costituzione, secondo cui

«Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge».


La Costituzione "presuppone" la sostanza dei concetti di fedeltà, disciplina e onore (e la vincolatività morale del giuramento), designanti virtù politiche, e ne afferma il rilievo politico.

Non sono necessarie molte parole per dimostrare come la ricerca dei mezzi capaci di dare effettività a questo principio, e per svilupparlo in tutte le sue implicazioni, magis ut valeat, non sia stata affatto perseguita. Una scorsa alla bibliografia costituzionalistica dimostra che l'attenzione culturale per esso è stata minima. Paragonata al rilievo attribuito ai temi più estremi dei diritti di libertà, pressoché nulla. Ed è ragionevole affermare che la nullità dell'attenzione accademica sia simmetrica alla nullità dell'attenzione culturale generale, e di quella politica. Sarebbe interessante condurre un'indagine sui luoghi letterari e giornalistici in cui la parola "moralismo" appare in senso spregiativo; e chiarire a quale nozione di morale essa si riferisca. È appena il caso di ricordare che questo vuoto non è affatto colmato dalla strabordante attenzione che politica e accademia hanno dedicato al tema delle riforme istituzionali come riforme della politica. Qui il tema è sempre stato quello della efficienza dell'azione di governo, intesa in senso lato, e, in parte minore, quello della responsabilità politica degli eletti: la qual ultima cosa non attribuisce autonoma rilevanza al giudizio sulle virtù politiche prima ricordate, essendo rimasta sempre strettamente inscritta nel circuito tra interessi (intesi in senso "materiale", per usare una parola sbrigativa) e valutazione del loro soddisfacimento. Né il vuoto è stato colmato dal cd. neocostituzionalismo, in quanto la eticizzazione della costituzione che esso propugna si risolve in una eticizzazione della giurisdizione, senza toccare il tema della politica e delle virtù politiche. Anzi assumendo che la politica non è, né può essere, il luogo della virtù, il quale invece è la giurisdizione, in quanto fondata sulla saggia applicazione di un diritto che non coincide con la legge positiva politicamente prodotta.

Ci troviamo dunque in una situazione apparentemente paradossale. Da un lato - e da tempo - a fronte dei vizi anche ripugnanti di una parte cospicua della classe politica si diffonde il convincimento che le cattive azioni e gli scandali minino alla radice la capacità del sistema politico di adempiere alla propria funzione rappresentativa e di governo; dall'altro, il sapere scientifico e strumentale sembrano non riuscire a comprendere la connessione tra questione morale e questione democratica, a valorizzarla e a sistematizzarla nella teoria politica e costituzionale. Cosicché i comportamenti viziosi appaiono come un qualcosa, appunto, di scandaloso, di inaudito, di esterno, geneticamente solo privati e imperscrutabili.


4.
Prima di riprendere il filo della riflessione sul rapporto tra convivenza e vita buona, tra cittadinanza e virtù, può non essere inutile cercare di definire meglio la natura del sentimento oggi più diffuso: l'indignazione. E cercare di chiarire le differenze che lo separano dallo sdegno: l'uno, un sentimento potenzialmente o indirettamente politico e, l'altro, radicalmente antipolitico. Un po' scherzosamente (ma non troppo) potremmo chiederci: se nei tempi arcaici della magia il mondo generava sentimenti di terrore; in quelli della religione, di devozione; in quelli della scienza, di curiosità; in quelli delle rivoluzioni, di ribellione; in quelli dei totalitarismi, di resistenza; in quelli della democrazia, di partecipazione ... oggi, quale sentimento il (nostro) mondo genera? Non sarebbe sbagliato dire: lo sdegno.

Si usa molto, per definire l'atteggiamento di rifiuto di indirizzi o comportamenti politici, la parola "indignazione"; e l'indignazione è cosa sacrosanta. Ma a ben vedere l'atteggiamento più diffuso non è, sempre, di indignazione. Frequentemente, o forse più frequentemente, è di sdegno. Che è cosa diversa. Nel linguaggio corrente, indignazione e sdegno possono coincidere; ma lo sdegno ha un significato eccedente. La differenza sta nel fatto che l'indignazione è generata dalla violazione di principi morali reputati fondamentali, mentre lo sdegno può anche - nel significato "eccedente" - essere generato da una smisurata coscienza di sè: dall'orgoglio e dal disprezzo delle cose e delle persone. Può cioè designare l'atteggiamento di chi ritiene di non essere "alla pari" del suo interlocutore, o, peggio, di chi ritiene di non essere adeguatamente considerato o trattato dal suo interlocutore. L'indignazione genera ribellione verso gli autori dei comportamenti inaccettabili e mobilitazione collettiva; e trasporto caritatevole nei confronti delle loro vittime. Lo sdegno, disprezzo stizzito. Il problema è che molti che oggi si dicono, e sono definiti come, indignati sono, in realtà, sdegnati. Il che spiega anche perché oggi, quando l'indignazione - si dice - è diffusissima e dilagante, la mobilitazione politica sia invece scarsa (dal momento che l'esecrazione solitaria affidata ad un computer difficilmente può essere considerata, da sola, una mobilitazione), di gran lunga più scarsa di quella che si manifestò in anni passati, sugli stessi temi: appunto perché non di indignazione si tratta, ma di sdegno. Solo gli indignati si mobilitano.

Lo sdegno è un sentimento complessivo che può emergere in tutti i momenti della vita e riferirsi a qualunque oggetto, perché la sua caratteristica consiste proprio in questo: nel mettersi al centro del mondo per poi voltargli le spalle. Ma limitiamoci allo sdegno nei confronti della politica. Il suo diffondersi non è solo un fenomeno di costume, ma di immediato rilievo costituzionale perché è alla base della crisi della rappresentanza moderna, la quale trae il proprio valore da quello attribuito al conflitto e alla mediazione politica. Ed è qui, nel preciso punto di questa attribuzione di valore, che lo sdegno si manifesta.


5.
Se si ammette che la società è divisa, fratturata, e che qualunque contrasto (di interessi, religioso, etnico ...) può trasformarsi in un contrasto distruttivo, allora la politica - come arte della tessitura capace di indicare un cammino "nazionale" - acquista la sua nobiltà; anzi si pone come la più nobile delle attività umane. Ma se la politica delude - e fallisce, tanto più dopo essersi degradata in demagogia, ed aver adulato il popolo, come è avvenuto in Italia - allora assume immediatamente i connotati di una funzione inutile e parassitaria. A questo punto scatta la ribellione contro chi incarna tale disprezzata funzione. Ribellione che può essere propriamente politica (e cioè mirata alla restaurazione di un "vero" campo del conflitto), oppure propriamente anti-politica (e cioè mirata alla eliminazione del campo politico in sé, dal momento che l'operare della classe politica ne avrebbe definitivamente dimostrato il carattere finto e inutile).

In questo contesto emerge lo sdegno nella sua differenza radicale con l'indignazione. L'indignazione è una passione politica violenta; lo sdegno è una gelida mummificazione del rapporto con la vita: la classe politica, tutta, è inutile - dice lo sdegnato - e dunque non vado a votare; la classe politica è talmente e irrimediabilmente inutile che non merita di esistere: sia eliminata e il governo affidato a non importa chi (ai tecnici o a chi la provvidenza vorrà inviarci).

È ovvio che considerare la politica inutile, e parassitaria in quanto tale, comporta che non si attribuisca alcun valore non solo alla classe politica chiamata ad esercitarla, ma anche al conflitto politico in sé, perché non si attribuisce alcun riconoscimento alla difficoltà politica dei problemi (alla difficoltà generata dal fatto che non si tratta di problemi intellettuali, ma di questioni vitali - e dunque mortali - di interessi e di potere). Al contrario, si assume che siano problemi "tecnicamente" risolubili se solo non fossero intralciati dall'ignoranza e dalla voracità della classe politica stessa.

E se si guarda più a fondo si vede con chiarezza che ciò che viene rifiutato non è solo la complessità politica dei problemi, ma la loro complessità tout-court. È la cuoca di leniniana memoria che si reincarna in ogni sdegnato che si chiede "come si faccia a non capire quello che è così evidentemente necessario". È in questo tornante che si perfeziona lo sdegno: la politica è inutile non perché non è brava nell'affrontare problemi difficili, ma perché non capisce le cose che io invece capisco perfettamente.

In questo senso campioni dello sdegno sono molti editorialisti dei grandi giornali, che si presentano non come gli esperti che possiedono l'arte di spiegare in modo semplice i problemi difficili senza che la spiegazione perda di rigore, e dunque di verità scientifica (come il Luigi Einaudi ammirato da Piero Gobetti), ma come coloro che sistematicamente contrappongono il loro "ovvio" (offerto come un ovvio rappresentativo di ciò che i loro lettori già sanno) all'inutilmente complicato, o insensato, velleitario, pigro ... fare/non fare della politica. Questo atteggiamento è micidiale. I conflitti - di qualunque genere - non vengono delucidati nella loro cruda realtà, come conflitti "che ci sono", che il nostro mondo ha prodotto, e che dunque vanno affrontati nel loro essere storico; ma vengono invece presentati come conflitti "che non ci dovrebbero essere" se solo si capisse quel che la malvagità o l'inettitudine o la miopia politica non capisce. In tal modo i conflitti vengono banalizzati, totalmente soggettivizzati, e si getta il germe dello sdegno. Il mondo non è più un groviglio difficile da decifrare e da conformare, grande e terribile; è solo uno scenario di banalità, stupido e corrotto.

È questo continuum tra lo sdegno pubblico del maître à penser e del clerc e lo sdegno privato, ma vociante, della cuoca che costituisce un pericolo mortale per la democrazia. Se i problemi posti dalla vita sociale sono chiari e facili, a che cosa servono le istituzioni, i partiti ... Basta che ci sia "uno come noi" che li affronti. Non è questione della incapacità e della corruzione dimostrata da questo partito, da questo governo. È questione che "io" posso a fare a meno di qualunque partito, di qualunque "schieramento", di qualunque azione collettiva. E come me, tutti quelli come me. Se si potesse sorridere di tutto ciò - che è tragico - si potrebbe dire che lo sdegnato canta alla politica: Non sei degna di me; non mi meriti più....

Al male non si contrappone la critica e la passione per un bene. Si voltano le spalle, si crea un vuoto, si dà una delega assoluta: essendo ovvio che chi la raccoglierà non potrà che essere "come me". C'è dunque - e non solo nel nostro paese (e non solo rispetto alle cose politiche) - come una anti-passione diffusa, una voglia di gettare la spugna, di lasciar perdere, che però non è accompagnata dal sentimento della sconfitta, dalla rabbia di doversi arrendere all'impotenza, dal desiderio di riprendere in qualche modo la strada non appena possibile, ma piuttosto da un sentimento di fuga nella superiorità: fa tutto schifo, e io non voglio saperne.


6.
Il dilagare dello sdegno - ferme restando le colpe mortali della corruzione politica, che agisce da catalizzatore - potrebbe essere inteso come il nuovo volto di quella anomia che poco tempo fa veniva diagnosticata, dal Censis, sulle orme di riflessioni provenienti dal mondo della psicoanalisi soprattutto francese, come particolarmente evidente nella società italiana. Una anomia esprimentesi in una perversione del legame sociale, fattosi, da "oblativo", "rapace": perverso proprio in quanto non riconoscente altra regola se non quella del godimento. Una coazione all'appropriazione - al godimento compulsivo degli oggetti - sembrava dominare i comportamenti, non più capaci di vero desiderio. Oggi - tra i pianti e lo stridor di denti che la crisi provoca - c'è da chiedersi se quella rapacità sia stata sconfitta. Forse, in suo luogo, purificata dalla sofferenza, si è insediata la passione ribelle, di nuovo capace di azione collettiva? o quello stesso atteggiamento ha solo mutato la forma del suo manifestarsi, ed è diventato sdegno: egoistico esattamente come la precedente ricerca di godimento?

La risposta è difficile, ma le domande sono quanto meno sufficienti a dimostrare che è ragionevole pensare che la crisi non stia tutta nelle istituzioni, negli apparati, tra "i politici", ma che abbia radici profonde nella struttura psichica di massa, e che lo sdegno sia la parte sommersa, pesantissima, del problema. Lo sdegno è un voltar le spalle, un modo di andarsene dalla comunità politica. Ma non si può voltar le spalle alla comunità politica perché, come dice il filosofo, «chi (dice che) non ha bisogno di nulla, bastando a sé stesso, non è parte di una città, ma o una belva o un dio». Alternativa inquietante.


7.
Se non è la meccanica delle istituzioni, ma l'assenza di quella componente essenziali delle costituzioni che è la virtù, il cuore della crisi, come reagire a questa situazione? Come rendere la questione morale una questione costituzionale nel senso prima chiarito, e cioè assumendo la costituzione come ciò che fa essere la città una città non solo a parole? Come reagire, detto più prosaicamente, ad una situazione umiliante, per cui il nostro paese è considerato la pecora nera d'Europa quanto a inefficienza politico-amministrativa, a corruzione pubblica e privata, a estensione della delinquenza ...

Il primo passo dovrebbe consistere nello smettere - almeno da parte di qualche forza politica e di qualche settore della cultura - di praticare l'adulazione del popolo, e cioè la demagogia. Non c'è nessuna società civile che è sempre dalla parte della ragione, e nessuna classe sociale è buona per natura. Vizi e virtù sociali vanno criticati e discussi pubblicamente. Quanto siamo lontani dalla comprensione del vero "stato della nazione" lo dimostra la totale assenza - nella letteratura e nella filmografia - di opere critiche (amare o ironiche, satiriche o tragiche) nei confronti della società "normale". Non è inondando le televisioni di programmi fondati sulla lotta tra buoni e cattivi, tra eroi e mostri, che si fa progredire l'autoconsapevolezza critica. Si può pensare a Bunuel, ma anche solo chiedersi: chi ha più visto un dottor Tersilli? La "dannazione" di alcuni - come "i politici" o i trafficanti di droga - se presentati come totalmente altro, confinati in un mondo stilizzato, fantastico, che non ha contatti con quello quotidiano, non fa compiere alcun passo in avanti nel cammino verso l'educazione privata e pubblica. Anzi, genera tranquillizzanti capri espiatori.

La "virtù", nella tradizione greca, è «l'eccellenza in una "pratica", dove per "pratica" non si intende una singola azione, ma un'attività riconosciuta ed apprezzata da una determinata comunità. Tale eccellenza si configura come un "abito", cioè una disposizione abituale, frutto di una serie di interventi sul mero dato naturale - l'indole - quali l'educazione, l'esercizio, l'obbedienza alle leggi, l'elogio e il biasimo della comunità di appartenenza. L'insieme delle virtù viene così a formare il "carattere", in greco êthos (con la êta), da cui deriva "etica", il quale a sua volta è il frutto dell'abitudine, in greco ethos (con la epsilon), cioè della ripetizione di azioni buone, nel caso di un carattere virtuoso, o cattive, nel caso di un carattere vizioso»[2]. Se, a fronte di questo quadro attivo di costruzione sociale delle virtù, pensiamo a quanto oggi tutti - anche da altissimi scranni - dicono: che dobbiamo combattere la corruzione e approvare una apposita legge "perché ce lo chiede l'Europa", cadono le braccia. «Alla virtù e malvagità politica stanno attenti coloro che si curano del buon governo, perché è evidente che della virtù politica si deve preoccupare una città degna di questo nome e che non sia tale solo a parole», abbiamo letto in Aristotele. Da noi, occuparsi della virtù e malvagità politica è un "compito da fare a casa" perché altri ce lo hanno dettato. Non abbiamo più nemmeno la forza di assumerlo come nostro.

In questo orizzonte - ed è questo il secondo passo che andrebbe fatto, posto che riusciamo, se non a rimetterci in piedi, almeno in ginocchio - politica e cultura dovrebbero impegnarsi nello sforzo di riorientare, secondo le diverse visioni del mondo che si accolgano, i sentimenti dell'opinione pubblica, non più adulata, verso la passione politica e la responsabilità collettiva. Ma non basta dare uno sbocco alla indignazione immettendola nel conflitto politico secondo la mera logica dell'amico-nemico, separando bene e nettamente le parti, i campi, i giudizi, le responsabilità. Occorre che la passione politica abbia come elemento costitutivo essenziale una idea di bene (qualcosa di simile all'"amore del ben fare" che caratterizzava la cultura operaia e contadina): un'idea che possa fungere da parametro per l'elogio e il biasimo, strettamente intrecciando dimensione privata e pubblica. Cosicché il discorso politico abbia ad oggetto non solo l'utile, ma anche il bene.

Ammettiamo che percorsi educativi siano tuttora presenti nelle formazioni sociali. La parte più spinosa del discorso riguarda le forme di collegamento tra questi percorsi e l'ambiente pubblico dove quelle diverse forme di educazione dovrebbero assumere dimensione politica. È qui che viene il tema difficile dei partiti. È ovvio che non ci si può illudere sulla loro capacità attuale di assumersi questo compito. I partiti nel loro insieme si sono trasformati, ovviamente chi più chi meno, in artropodi, cioè in esseri che (come i granchi e le aragoste) non hanno, a differenza dei vertebrati, uno scheletro (una «sostanza sociale» che li regge, costituita da risorse di potere autonome, di natura culturale ed organizzativa), ma solo un esoscheletro (una corazza esteriore costituita dai ruoli istituzionali occupati in forza del potere di designare le candidature). Il che spiega la forza preponderante, al loro interno, dei titolari di cariche elettive e l'eclisse della dirigenza di partito come dirigenza autonoma. Anche il maggior partito della sinistra si è indebolito in quanto comunità politica. Non è certo più ovvio e naturale paragonarlo a un vertebrato (giraffa, rinoceronte, elefante o leone che si voglia, come nel celebre duello tra Togliatti e La Malfa).

Per quanto riguarda la cultura, che dovrebbe contribuire a sostenere questo processo, sarebbe necessario che l'egemonia del sapere scientifico e strumentale, e del radicale individualismo che lo ispira, si riducesse, e che si ampliasse invece l'influenza di quelle forme di sapere che si richiamano alla filosofia pratica e, per altro verso, all'istituzionalismo. Forme di sapere che si dimostrano più capaci di comprendere la struttura profonda dei comportamenti umani, e che sono interessate a non separare (nel senso di non rendere reciprocamente irrilevanti e ignoranti) il discorso morale da quello istituzionale; la tecnologia del potere dalla critica dei suoi fini; le tradizioni politiche dalle tecniche di governance; l'affidamento esclusivo alle regole repressive dello Stato dalla ricerca delle vie per garantire comportamenti buoni senza costrizione; la responsabilità come esposizione ad una sanzione da quella della responsabilità come assunzione di un compito in favore dell'altro; i diritti fondamentali come diritti pretesi dai singoli beati possidentes dai diritti fondamentali come diritti da rendere effettivi per tutti attraverso "belle azioni" ...



[1] Politica, III,9, 1280a, 31 - 1281a, 10.


[2] Enrico Berti, Alasdair MacIntyre: comunità e tradizione, in http://www.dircost.unito.it/dizionario/pdf/Berti-MacIntyre.pdf

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