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Democrazia senza partiti

Marco Dotti intervista Marco Revelli

«Non può esserci democrazia funzionante senza il canale dei partiti. Nessuna nuova o più vitale democrazia può nascere dalla demonizzazione dei partiti». Con queste parole, pronunciate al Teatro Toniolo di Mestre nel settembre del 2012, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è fatto interprete di un timore largamente diffuso tra le classi dirigenti: il rapporto tra democrazie e forma-partito sarebbe sul punto di rompersi definitivamente. A tutto svantaggio, sostiene Napolitano, della democrazia. È davvero così? Marco Revelli insegna Scienza della politica all’Università del Piemonte orientale e ha da poco pubblicato un libro, Finale di partito (Einaudi, pagine 138, euro 19), in cui affronta la questione collocandola in un passaggio d’epoca ben più radicale – il pieno ingresso in una società post industriale – senza il quale ogni “pro” e ogni “contro” i partiti rischia di rimanere una sterile petizione di principio.


Una caratteristiche della nostra società è che gli individui si fidano sempre meno gli uni degli altri, perché stentano a riconoscersi. Finita l’era dell’ottimismo – ottimismo tecnologico, fede nel progresso o nel mercato –  le  basi materiali della fiducia si sono sgretolate e la caduta generale del legame ha inevitabilmente toccato anche il rapporto tra cittadini e partiti. È una crisi che spinge non pochi analisti a una facile equazione: più si abbassa il livello di fiducia nei partiti, più cresce la passività tra i cittadini. La crisi della fiducia sarebbe quindi il vettore di ciò che impropriamente viene chiamato “populismo” o tacciato di “antipolitica”. Lei come legge la situazione dentro questo quadro generale di défiance

Marco Revelli: La caduta del legame di fiducia è clamorosa e oramai conclamata. La fiducia nei partiti, in Italia, tocca livelli parossistici e non supera il 5 per cento. Questo significa che solo un cittadino ogni venti crede ancora nella possibilità di un’azione concretamente democratica condotta attraverso i partiti politici.

Questa crisi di fiducia nei partiti rischia di intaccare anche la fiducia nelle istituzioni che, relativamente al Parlamento, si attesta su un misero 8 per cento. Comprendiamo subito che in una democrazia parlamentare come la nostra, laddove il Parlamento dovrebbe essere il vero sovrano, il sovrano è in realtà completamente sfiduciato. Fenomeno che in Italia, come detto, tocca livelli parossistici, ma è generale ed esteso a tutto l’Occidente. Negli anni Sessanta e Settanta, nonostante fossero anni di contestazione, di lotte sociali e di conflitti, la fiducia nelle istituzioni era altissima e toccava picchi del 70 per cento. Il mondo è cambiato ma troppo spesso chi ragiona “di” politica e “in” politica non registra questo cambiamento. Avverte il disagio, si accorge che le cose non funzionano ma come se ci si fosse allontanati da un modello che prima o dopo potrebbe riprendere funzionare: la democrazia dei partiti. Al contrario, quel modello è finito. Finito come è finita la grande impresa: come non possiamo illuderci che a Mirafiori tornino a lavorare cinquantamila operai, così non possiamo pensare che tornino i grandi partiti di massa. I partiti erano grandi fabbriche del consenso. Queste fabbriche non funzionano più, così come non funzionerebbero più le vecchie fabbriche di automobili. Dobbiamo cercare di capire come si riassesta la politica dopo questa mutazione genetica dei suoi protagonisti e dei suoi soggetti. Soggetti che, beninteso, non scompaiono ma i partiti di oggi hanno una parentela lontanissima con i loro progenitori.  


Negli scenari futuri è possibile quindi una prospettiva di democrazia senza partiti?

Marco Revelli: Abbiamo conosciuto una fase specifica della democrazia dei moderni, quella della seconda metà del Novecento. Una fase che si caratterizzava per un modello democratico il cui protagonista principale e quasi esclusivo era il partito politico. Gramsci lo definì «il moderno principe» e difatti il partito sembrava il soggetto destinato a occupare quasi per intero la nostra modernità politica. In realtà, sappiamo che la democrazia – e anche la democrazia dei moderni sorta dopo la Rivoluzione del 1789 – è nata ben prima dei partiti. Prima esistevano certamente gruppi di notabili, raggruppamenti di individui ma ciò che tecnicamente chiamiamo “partito” non esisteva. Sottolineerei che persino un pezzo di Italia liberale tardo ottocentesca non conosceva i partiti strutturati come li abbiamo conosciuti col partito di massa. Sono stati i partiti socialisti e i partiti cattolico-popolari che hanno introdotto quella forma nella politica. Questo è il contesto. La fine di questo modello non significa tout court fine della democrazia e il passaggio a una forma autoritaria o dittatoriale Ciò a cui assistiamo non è la pura e semplice estinzione di ogni forma di partito che lascerà spazio solo a una terra incognita abitata da individui da un lato e istituzioni dall’altro. È casomai una metamorfosi: i partiti non scompaiono di punto in bianco, ma diventano una cosa diversa da ciò che avevamo in precedenza conosciuto. La stessa cosa accadde con la fine del fordismo, ossia della grande industria centralizzata e organizzata secondo rigidi schemi interni. La fine dell’organizzazione fordista del lavoro non ha portato alla scomparsa delle imprese. Imprese che, semplicemente, hanno assunto una forma e un modello di organizzazione completamente diversi rispetto al modello fordista che prevedeva una tutela “dalla culla alla tomba”. Ricordiamoci che c’erano scuole materne, colonie estive, modelli di socializzazione che crescevano tutto attorno alla grande fabbrica della città forsista. Allo stesso modo, attorno ai partiti era tutto un fiorire di iniziative e istituzioni, diciamo così, “pedagogiche”. C’erano addirittura le edizioni  di partito –dagli Editori Riuniti alle edizioni delle Cinque lune -, le riviste teoriche in cui si svolgevano dibattiti di alto profilo culturale, ma soprattutto la gente frequentava le sezioni e lì si formava. Magari si formava male, perché c’erano forme di dogmatismo o di fideismo o di spirito gregario e conformismo. Però, pur in questo quadro critico e spesso criticabile, il partito aveva una struttura solida e con oligarchie ben formate. Su questo punto, osserverei che ci sono anche studiosi che leggono la trasformazione in atto in termini positivi. Il pubblico, secondo questa lettura, sarebbe scolarizzato, dotato di strumenti autonomi per la formazione delle proprie opinioni e non dipende più dalla “casa madre”. Il ruolo pedagogico del partito è stato superato e un pubblico dotato di una maggiore autonomia critica si informa altrove, magari in rete. 


Un secolo fa, Roberto Michels pubblicava la sua Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, il primo studio su quello che al tempo era ancora un oggetto misterioso: il partito politico. Michels, che partiva da posizioni di sinistra, ribadiva la sua convinzione che le organizzazioni fossero sottoposte a una “legge ferrea dell’oligarchia”. In sintesi: la naturale evoluzione di ogni partito politico condurrebbe da una struttura all’origine a aperta a una oligarchia. Lei dedica un capitolo del suo libro all’analisi di questa legge ferrea nel contesto post-industriale e post-fordista. Crede sia ancora attuale una lettura “élitista” del partito politico?

Marco Revelli: Michels aveva ben presente il modello “pesante” di partito della socialdemocrazia tedesca. Un modello plasmato sul modello organizzativo della burocrazia statale e di quella della grande fabbrica della produzione di massa. L’analisi delle oligarchie condotta da Michels si basava su questo dato di fatto e sulla netta distinzione tra governanti e governati. Il rapporto oligarchico, però, molto spesso si basava sulla fiducia dei subalterni. Una fiducia conquistata sul campo: ricordiamoci che molti leader avevano patito l’esilio o la prigione. Oggi le oligarchie non sono più legittimate da un rapporto di fedeltà stabile. Esattamente come le imprese si sono ramificate e delocalizzate in filiere lunghe nei territori e al tempo stesso si sono concentrate in alto, con vertici globali e incontrollabili da chiunque (persino dagli azionisti, non solo dai dipendenti), così i partiti si sono trasformati in strutture più leggere simili a aggregati di gruppi di potere, spesso caratterizzati da logiche affaristiche, che galleggiano su un elettorato liquido e non più caratterizzato da una fedeltà di lungo periodo. Questo elettorato sceglie quasi giorno per giorno  a chi dare il proprio consenso, seguendo logiche sempre più mediatiche.  


Stiamo andando quindi verso un
a “democrazia del pubblico”? In tal caso, possiamo davvero parlare di passività civico-politica dei cittadini o siamo anche qui ci troviamo davanti a fenomeni in evoluzione continua e asimmetrica (fenomeni che difficilmente entrano o entreranno nelle griglie concettuali in cui li si vorrebbe racchiudere)?

Marco Revelli: È una lettura. Questo pubblico è in grado di trarre da se stesso le risposte ai propri problemi e, quindi, è anche più critico e ragiona su temi come i beni comuni, l’ambiente, il territorio, la viabilità, i problemi etici. Un pubblico che si forma delle proprie opinioni e poi va a vedere a quale offerta politica indirizzarsi. Spesso, però, l’offerta politica è qualitativamente inferiore alla domanda e la cultura dei politici di professione è inferiore a quella dei loro elettori. Ecco allora che il rapporto si rompe e cresce una forma di disprezzo da parte di un elettorato più consapevole nei confronti di una classe politica più inconsapevole. C’è poi una seconda lettura, di origine francese. Pierre Rosanvallon propone di chiamare “controdemocrazia” una democrazia diversa da quella dei partiti, per nulla “antipolitica”, dove elettorato che non si illude più di poter governare attraverso i propri rappresentanti cerca di porre un argine, attestandosi su una linea difensiva. In sostanza, se non ci possiamo più aspettare che i nostri governanti ci rappresentino, possiamo però difenderci da loro. I politici di professione sono visti come nemici potenziali che con le loro decisioni possono danneggiarci. È una sorta di democrazia giudiziaria, dove i cittadini cercano una tutela giurisdizionale contro in ceto politico di potenziali criminali. Dentro questa logica – il «dobbiamo difenderci dai rischi che arrivano dall’alto» – c’è sicuramente un pezzo di populismo.  


Populismo, antipolitica e, concetto che lei richiama più volte nella sua analisi, subpolitica.

Marco Revelli: Più che di antipolitica, ci troviamo spesso di fronte a forme nuove di pratica politica in un contesto di democrazia mutato, proprio perché non più mediato dai partiti. Smetterei di usare il termine in modo spregiativo, perché rischiamo di non capire nulla rispetto ai processi in atto.  subpolitica è invece un concetto introdotto da Ulrich Beck, non per sminuire il valore di quest’altra politica, ma per sottolinearne il carattere basilare.


Che cos’è, dunque, la subpolitica?

Marco Revelli: È la politica della vita, il luogo dove si affrontano i problemi che riguardano la sopravvivenza degli uomini: i grandi problemi etici, il problema degli stili di vita, il problema del consumo energetico, i beni comuni. Su questi temi la politica dei partiti non ha molto da dire. Al massimo – pensiamo al referendum sul nucleare – subisce il problema. I recenti referendum hanno mostrato che 27 milioni di italiani sono andati a votare fuori dagli schemi di partito, ma soprattutto hanno dimostrato che una certa forma della politica, quella che vorrebbe ancora il partito al centro della scena, è anacronistica e inefficace.  


Grillo sembra molto avanti, rispetto a quelli che lo contestano. Al contempo è molto indietro, rispetto a dove vorremmo essere. Secondo lei è antipolitica o subpolitica nel senso da lei richiamato?

Marco Revelli: Grillo non è un fenomeno folcloristico. I protagonisti della politica partitica lo trattano con sufficienza come se fosse folclore. Grillo è un sintomo, non certo la causa della crisi e proprio per questo va preso con estrema attenzione. Ha sicuramente tratti populistici, ma nella prevalenza è questa politica nuova che sgorga e cerca le sue forme, Starei attento, molto attento a questo secondo aspetto.


Movimento e adesso “comunità”.  Nel suo comizio in Val di Susa, il 14 febbraio scorso, Beppe Grillo ha dichiarato infatti: «Siamo una comunità, qui c’è un sentimento». Non sembrano parole dette a caso.

Marco Revelli: «Comunità», parola magica, di cui c’è estremamente bisogno. Bisogna però intendersi su questo desiderio di comunità. Gran parte del nostro disagio esistenziale è legato al nostro desiderio di comunità. Una comunità terribilmente assente. Siamo spaesati perché la nostra voglia di vivere in comune con gli altri, la nostra “comunanza” è venuta meno. Diciamocelo sinceramente, se vogliamo andare al di là degli aspetti della cronaca e della statistica, dobbiamo ammettere che la crisi dei partiti si inserisce in una più generale crisi dell’Occidente, che è poi crisi del nostro stile di vita. Crisi epocale che attraversa tutti i livelli, arrivando persino a lambire persino la Chiesa. Una crisi che – mi e vi chiedo – non ha forse a che fare con questo cedimento strutturale dei meccanismi di produzione di senso condiviso? Si sono inceppati i meccanismi di produzione di un noi,  nel passaggio dalla solitudine di un “io” a alla condivisione di un “noi”. Un’apocalisse del senso che rende vuoti tutti i troni, da quelli secolari fino a quelli spirituali. I luoghi si sono dissolti nei flussi. È un horror vacui, quello che ci coglie. Proprio perché si avverte che la rottura di questi meccanismi di produzione di un senso condiviso ricade in termini di una conflittualità molecolare. Non ci sono più conflitti che organizzano il campo, ma una diffusa competitività aggressiva che rende inoperanti tutti i meccanismi di decisione collettiva e ha colpito, in particolare, i partiti. Ma non solo i partiti. Non è diverso per i sindacati, non è diverso per le imprese e non è diverso per la Chiesa.


Le apocalissi del consenso sono conseguenza di apocalissi del senso. Non abbiamo ancora capito come e se si condenseranno le molecole di questo sistema senza più legami.

Marco Revelli: Non ci sono più legami forti, solo legami deboli. La gestione dei legami deboli è di fatto un problema, soprattutto di fronte a un’antropologia e a un’identità modificata dai consumi. Ricordiamo che il consumismo è stato un grande virus che ha avvelenato i pozzi, quando  gli investimenti di identità si sono trasferiti sugli stili di consumo si è scoperchiato il vaso di Pandora di tutte le mutazioni antropologiche possibile. Con questa atomizzazione, con questo individualismo radicale che scambia per libertà la produzione di bisogni inutili. Questo meccanismo di scambio provoca la nostra permanente indigenza. Siamo incapaci di soddisfare qualsiasi risposta e qualsiasi richiesta di comunità attraverso legami. Tanto più il legame diventa debole, quanto più cresce la micro aggressività individuale. Simone Weil parlava di sradicamento. Simone Weil diceva che chi è sradicato, sradica. La rottura del legame riproduce un meccanismo di ostilità molecolare.


Le sembra davvero una via praticabile? La sfiducia da cui ha preso l’avvio la nostra conversazione non rischia di travolgere anche questa speranza di una democrazia oltre i partiti?

Marco Revelli: La possibilità di riuscita in positivo di questa crisi richiederebbe una condizione essenziale:  che i partiti rinuncino alla pretesa di monopolio su tutto ciò che è pubblico. Questo monopolio, non più legittimato né giustificato, finisce per soffocare tutto ciò che potrebbe crescere sotto o a fianco. È chiaro che la possibilità di stare in forma virtuosa in questa transizione complicata che forse coincide con l’uscita dal moderno, forse è una rifeudalizzazione delle nostre società in un crepuscolo delle forme statali forti, non può prescindere da una condizione: che tutto ciò che nasce, non venga immediatamente bruciato dallo sguardo delle macchine politiche. Macchine onnivore che reclutano, spesso in modo ornamentale, ciò che di virtuoso nasce nella società, lo incorporano e lo degradano. Bisognerebbe cominciare questo difficile esercizio del rapporto paritario fra ciò che nasce nel sociale e ciò che sta nel politico.

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