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Implosione

di Elisabetta Teghil

L’implosione dell’Unione Sovietica, nella lettura che va per la maggiore, viene attribuita a due ordini di problemi che non aiutano a capirne il motivo e, pertanto, la comprensione di quello che è accaduto richiede una riflessione.

Da un lato questa implosione viene attribuita ad una gestione dell’economia errata e, paradossalmente, per sostenere questa tesi, si usano i parametri del capitalismo assunti come i soli validi e possibili.

Dall’altro, si chiamano in causa motivi politico-istituzionali: assenza di democrazia, burocrazia, totalitarismo.

In tutti e due i casi, si rovescia il rapporto tra cause ed effetti e non si affronta l’intreccio tra vizi formali e contenuti di classe che è alla base del fallimento del primo esperimento di socialismo.

La soluzione sovietica è stata un tentativo di superare il capitalismo con l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ma questa scelta non ha sradicato il capitale dal sistema di riproduzione del metabolismo sociale.

La società sovietica era impostata sulla convinzione che il nodo principale fosse il modo di produzione e non la contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione.

Pertanto è caduta in una forma di economicismo che leggeva il capitalismo fondamentalmente come produzione di merci e non, come in effetti è, in primo luogo produzione e riproduzione del capitale in quanto rapporto sociale.


Il capitalismo è fondamentalmente produzione e riproduzione dei rapporti sociali piuttosto che fabbricazione di oggetti e le stesse forze produttive sono rapporti sociali.

Una tesi, quella sovietica, fondata sulla negazione della sopravvivenza e della riproduzione delle contraddizioni di classe anche dopo l’avvento al potere, negazione che produce burocratismo ed economicismo rimuovendo la necessità della rivoluzione ininterrotta.

Dice Marx nella Miseria della filosofia “le macchine non sono una categoria economica più di quanto lo sia il bue che trascina l’aratro. Le macchine non sono che una forza produttiva”.

Ponendo l’accento solo sulle forze produttive e sul loro sviluppo quantitativo si è aperta la strada ad una concezione evoluzionistica e, perciò, deterministica e quest’ultima non è altro che una variante dell’idealismo.

E’ tipico di tutte le varianti che si allontanano dal marxismo sostenere il concetto “la produzione al primo posto, la tecnica al primo posto”. In definitiva vedere lo sviluppo sociale soltanto come sviluppo degli strumenti di produzione e della tecnica e dimenticare che la lotta di classe è la forza motrice dello sviluppo sociale stesso.

Identificare forze produttive e rapporti di produzione significa omettere la natura contraddittoria delle stesse forze produttive, perché è vero che operano nella loro forma materiale , ma nello stesso tempo lo fanno entro determinate forme sociali.

La macchina è uno strumento di un rapporto sociale e pertanto diventa prioritaria la necessità della modificazione dei rapporti sociali e di classe in cui la macchina e la tecnologia sono inserite. Diventa centrale rimodellare le stesse forze produttive che non sono neutrali e nelle quali si è interiorizzato il dominio di classe.

Come naturale conseguenza,viene l’errore di fondo che ha caratterizzato l’URSS nell’ individuare nella proprietà statale le fondamenta del socialismo e nella pianificazione l’alternativa allo scambio mercantile visto come specifico della produzione capitalistica, mentre sono sempre i rapporti di produzione ad avere una funzione determinante e la trasformazione rivoluzionaria della società è tale quando investe i rapporti di produzione.

Da qui la necessità di un rivoluzionamento dell’insieme dei rapporti sociali siano essi economici , politici e culturali poiché essi si condizionano l’un l’altro.

Concependo la struttura e la sovrastruttura come due categorie rigide e definite una volta per tutte ne viene meno il rapporto dialettico e se ne determina uno di tipo meccanicistico. E, paradossalmente, si colloca la lotta di classe nella sovrastruttura negando nei fatti che essa sia la vera fonte della dinamica storico-sociale.

Ma l’errore di base dal quale, in ricaduta, vengono gli altri è stato la rimozione della contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione.

Infatti, nella teorizzazione sovietica, i rapporti di produzione occupano sempre una posizione subordinata rispetto alle forze produttive. Da qui il primato economicista e tecnicista dello stalinismo.

Posizione che diventa drammatica quando nel 1936, nel Progetto di Costituzione dell’Unione Sovietica, si annuncia con malriposto orgoglio che i cambiamenti in URSS “attestano in primo luogo che i confini tra la classe operaia e i contadini come anche tra queste classi e gli intellettuali scompaiono e scompare il vecchio esclusivismo di classe. Questo vuol dire che la distanza tra questi gruppi sociali diminuisce sempre più. Attestano in secondo luogo che le contraddizioni economiche tra questi gruppi sociali vengono meno, scompaiono. Attestano infine che vengono meno, scompaiono anche le contraddizioni politiche che esistono tra di loro.”

Pertanto la divisione del lavoro, che per Marx ed Engels ha prodotto nella società le classi antagoniste e da questa dicotomia la lotta di classe che si incardina sulla divisione del lavoro, per Stalin è venuta meno e, con essa, la necessità della lotta di classe una volta preso il potere e per tutta la durata della transizione socialista e, quindi, avalla la dominazione di una nuova borghesia sui contadini e sul proletariato sovietico.

Mascherare e fissare le contraddizioni di classe non è che una variante dell’ideologia borghese.

Nella visione stalinista, non esisterebbero più contraddizioni di classe, gravide di conseguenze politiche, frutto delle contraddizioni a livello dei rapporti di produzione, ma, al massimo, differenze non sostanziali, riconducibili non più alla divisione del lavoro, ma semplici differenze interindividuali fissate e, pertanto, bloccate per il resto della storia.

Per questo, l’esperimento sovietico che possiamo definire capitalismo di Stato, è fallito perché non ha sradicato il capitale dal sistema di riproduzione del metabolismo sociale, ma si è limitato semplicemente a una forma specifica di capitalismo.

Con la caduta del muro di Berlino e con l’implosione dell’Unione Sovietica non è fallito il comunismo, ma l’esperimento sovietico di capitalismo di Stato, ferma restando la cattiva fede o la visione infantile di chi pensa che, una volta preso il potere, la via della realizzazione del comunismo sia in discesa, facile, senza contraddizioni, senza ostacoli e con la venuta meno della lotta di classe.

E’ un esempio la storia del trionfo della borghesia ( quella almeno possiamo leggerla) che ha vissuto momenti difficili e battaglie perse.

Il corpo di Oliver Cromwell fu riesumato, sottoposto a processo ed esecuzione postuma, fu gettato in una fossa comune e la sua testa mozzata fu conficcata su un palo fuori dall’Abbazia di Westminster. E solo nel 1960, dopo varie traversie, gli fu data sepoltura.

Il comunismo non è una marcia trionfale, mano nella mano verso il sol dell’avvenire, non è il frutto inevitabile dello sviluppo delle forze produttive e del fallimento del capitalismo,ma, se sarà, lo sarà come risultato della lotta di classe.

Il passaggio ad un’alternativa totale non può che rimuovere l’idea della riproduzione allargata anche dopo che le forze produttive siano state liberate dalla proprietà privata. E’ questo il limite e la sconfitta dell’esperienza sovietica , non aver rescisso l’idea di sviluppo dalla riproduzione allargata del capitale, da chiunque e comunque gestita.

Quindi , il collasso sovietico non è il fallimento del comunismo, ma è leggibile solo come parte integrante dello sviluppo in corso del sistema del capitale in quanto tale.

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