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viaggio in italia

Limiti e necessità dello sperimentalismo democratico

Note a margine del memorandum di Barca

Salvatore Biasco

Introduzione

Il contributo che Barca da alla definizione di un modo d’essere del partito della sinistra non é solo metodologico. E’ politico nei giudizi sul deficit culturale e di rapporto con la società che ha avuto il Pd; é politico nell’indicazione della funzione che spetta al partito; nella corposità e radicamento sul territorio che esso deve necessariamente avere, nella sottolineatura del lavoro e dei beni pubblici come questioni prioritarie che deve porsi. Vi é, tuttavia, molta insistenza sulla forma partito; sulla ricerca, cioè di una organizzazione (ma direi un modo d’essere e di concepirsi) che lo renda un partito idoneo a sperimentare e cercare le sue linee programmatiche insieme ai militanti e alla collettività in un flusso di informazione e elaborazione che non può che essere bidirezionale. Barca chiama questo “sperimentalismo democratico”.

Il suo partito ideale può essere il mio e può non esserlo. Provo a capire. Io raccomanderei, per iniziare, a Barca – che sicuramente ha un opzione socialdemocratica all’orizzonte – di non porre la socialdemocrazia a un estremo della scala rispetto a quello che é il suo punto d’interesse (lo sperimentalismo), ponendo all’altro estremo l’opzione liberista (che egli chiama minimalista, cioè incline alla Stato minimo).

Mentre quest’ultima é descritta correttamente, la caratterizzazione della socialdemocrazia sembra posta in modo un po’ artificiale. Barca si pone come innovatore in una e nell’altra direzione, ma é opportuno che la socialdemocrazia (delle esperienze migliori) sia presa nella sua complessità e non come una forza incline a stabilire dall’alto posizioni illuminate, in una sorta di tecnocrazia benevolente e socialmente sensibile, tesa a realizzare lo stato sociale (in periodi di vacche grasse e spendendo in deficit). La socialdemocrazia é un modo di concepire il rapporto tra politica e società più composito. La sua essenza é nella consapevolezza che la società va governata, che i meccanismi, lasciati al mercato, producono instabilità, diseguaglianze e grave differenziazione di potere, che solo la politica può contrastare; che la società va costruita attraverso riforme e ingegnerie sociali che spostino potere e reddito e creino coesione e stabilizzazione; che a questo fine sia necessario contestualmente dotare i cittadini di strumenti politici e di partecipazione. E’ socialdemocratica, ancora, una visione che vede come fine dell’azione politica e della mobilitazione popolare l’obiettivo di spostare continuamente in avanti la frontiera della socialità da incorporare nel meccanismo capitalista. Quella forza é espressione di un anelito a dare l’opportunità di una vita dignitosa a piena di senso a ciascun cittadino. E’ ancora, espressione di una concezione comunitaria e solidaristica della società. La rappresentazione che ne da Barca é riduttiva, ammesso che sia effettivamente applicabile.


Lo sperimentalismo democratico


Nel modulo di Barca il partito si attrezza per una ricerca programmatica, svolta in mezzo alla “gente” e ai militanti, alimentata dagli stessi o da essi sottoposta a verifica diretta. Il partito é colto nella sua azione per definire le soluzioni di governo. Egli accantona (almeno per ora) altre funzioni di un partito politico, allo scopo di far risaltare il punto che tiene a sottolineare, la necessità di uno sperimentalismo democratico e di una mobilitazione cognitiva. In parte, però, finisce per squilibrare la sua impostazione, dando l’impressione (certamente involontaria) che un partito popolare possa vivere solo di programmi e soluzioni. Un partito popolare ha anche bisogno di definire le sue opzioni identitarie, essere portatore di una visione del mondo, avere una sua caratterizzazione culturale e pedagogica; funzioni tutte che non so quanto adattamento comportino allo sperimentalismo democratico. Un partito non sarà mai egemone senza la capacità di irradiare la sua visione del mondo e la sua concezione critica della società, svolgendo in essa anche un’opera di controcultura rispetto alle visioni opposte1. Nella situazione odierna é auspicabile che sia il portatore anche di una visione dell’Italia e di un modello di sviluppo per essa.

Starò, tuttavia, sul suo terreno di un partito che faccia dell’indagine cognitiva e dello sperimentalismo democratico un suo carattere distintivo. Sicuramente non é nelle intenzioni di Barca affermare che per essa esista un’unica metodologia. Devo dire, però, che la mancata distinzione dei settori sociali interessati direttamente a una casistica di scelte pubbliche, nonché dei modi differenziati che può richiedere il rapporto con ogni singolo settore, indebolisce il suo contributo. Esso sarebbe stato più ricco se egli avesse stabilito una tipologia di scelte pubbliche e di settori sociali, di micro e macro legislazione, e non avesse solo voluto stabilire un principio metodologico (e politico) per il partito rinnovato.

La decisione su cosa fare di un’area urbana dismessa é diversa, anche per platee direttamente interessate, dalla decisione se mantenere in vita la Pex2, di rimanere o meno in Afganistan, di consentire (e quanta) autonomia agli statuti societari, di privatizzare o meno Poste Italiane e, nel secondo caso di darle (e quale?) una missione pubblica, di puntare a una politica dei mercati o, in alternativa, su settori e produzioni specifiche (quali e come?), ecc.. Non dimentichiamo che il Paese dovrà affrontare questioni di competitività, di innovazione e crescita.

Salvati asserisce che la mobilitazione cognitiva di Barca si attagli meglio a decisioni su piccola scala che attengono al territorio e allo sviluppo locale (comunque tutt’altro che una diminutio). Quando Barca si ribella e cita l’Imu, obiettando che non vede perché questioni di quel livello non possano essere oggetto di decisione partecipata, non considera che esse (nel caso specifico: abolizione sulla prima casa, o correzione, restituzione sì o no) saranno per loro natura decisioni inserite in un pacchetto complesso di alternative e bilanciamenti. E’ bene, sì, che raccolgano pareri, proposte e approvazione in sezioni o assemblee informatiche (o quanto altro) prima di venire adottate, ma hanno una tale base tecnica che solo una minoranza é in grado di valutarle in termini ponderati (ma già é qualcosa). Difficilmente si prestano ad essere ridotte ad unum per raccogliere valutazioni e proposte che coinvolgono grandi masse, in una sorta di referendum per un sì o un no. Questo non vuol dite che il coinvolgimento del maggior numero di persone possibile non possa essere tentata, ma sarà comunque il partito nella sua responsabilità a trarre le conclusioni e la sintesi, giustificando la scelta.

Ma non voglio entrare nelle differenze che informano un’intera casistica di temi programmatici, di platee coinvolte e di modalità e significati differenziati che assume la decisione partecipata di fronte a casi specifici, quanto fermarmi su due tipologie di partecipazione attiva con le quali ho avuto a che fare e che presumibilmente conosco meglio in quanto testimone privilegiato: la decisione fiscale e ordinamentale che coinvolge nel suo assetto una vasta platea di operatori economici da un lato, e l’utilizzo delle conoscenze di una rete di intellettuali e tecnici, di cui recensire le idee e riflessioni dall’altro. Trarrò abbondantemente da riflessioni che ho già proposto a proposito, per cui mi scuso con chi le ritroverà qui. Alla stregua di Barca, traggo le mie osservazioni da esperienze dirette sia dal lato del governo (in senso lato), sia dal lato del partito. Come parlamentare, sono stato presidente di Commissione Bicamerale (“dei Trenta”) incaricata di vagliare e portare a termine (in piena autonomia dal Parlamento) la Riforma Fiscale del 1997- 2001, e poi presidente della Commissione consultiva (che porta il mio nome) che ha redatto il Libro Bianco sulla tassazione delle imprese (2007), i cui contenuti sono in gran parte riflessi nell’attuale legislazione; esperienze che mi hanno portato a immergermi nel mondo quotidiano degli operatori economici3. Come Presidente del Cespe, che allora era la Fondazione principe del Pci, ho condotto, invece, nel 1991-4 un censimento delle idee di governo circolanti presso una platea vastissima di studiosi, associazioni, istituzioni; tutti chiamati e dibattere e ragionare congiuntamente su tematiche specifiche, di cui fossero specialisti4.

In entrambe le circostanze, l’indagine e la partecipazione rivelano una tipologia particolare, che non é esattamente quella che Barca lascia trasparire, anche se non é neppure in contraddizione.


Problemi nel primo esempio: gli operatori economici


Nel primo caso, la premessa al Libro Bianco del 2007 riassume la metodologia seguita

“...Il lavoro di confronto einterlocuzione é stato intenso – e continuativo - durante l’arco dei lavori, consentendo alla Commissione di mettere a fuoco i punti critici percepiti dell’ordinamento esistente e fissare le motivazioni addotte dalle imprese nelle richieste di revisione.

Nel tirare le somme e avanzare le proposte, la Commissione ha assunto appieno le proprie responsabilità, esercitando le prerogative e la discrezionalità di valutazione che le competevano. Ma, al tempo stesso, essa ha anche la pretesa di aver costruito un processo corale di partecipazione, testimonianza e ascolto, in cui il mondo delle imprese e delle professioni ha avuto modo, attraverso le sue organizzazioni, di rappresentare con sistematicità e efficacia la vasta gamma di situazioni e problemi che incontra quotidianamente nella propria veste di contribuente (e anche le soluzioni valutate migliori). La complessità delle società moderne non consente di intervenire su una legislazione (a forte valenza tecnica) senza la verifica sul campo, l’indagine settoriale e l’analisi di impatto, per le quali i migliori agenti sono coloro sui quali quegli interventi ricadono..... Sebbene organo tecnico e consultivo, la Commissione si è sentita nel suo ambito investita di un compito politico nel senso alto del termine, se compito della politica è la creazione di istituzioni (regole) serventi ad obiettivi rivolti al futuro del Paese. Nell’accingersi a suggerire al Governo le linee di intervento che ritiene perseguibili nel ridisegno della legislazione concernente l’imposizione societaria, ha inteso come bene pubblico la coerenza e la sistematicità dell’infrastruttura normativa, la sua intelligibilità, l’evidenza riconosciuta e riconoscibile delle sue finalità e il consenso, ma anche la salvaguardia degli interessi dell’erario. Con i soggetti collettivi ha stabilito un’intesa proprio su questi obiettivi, lavorando in modo proficuo a far emergere i punti problematici del sistema esistente e pulirlo dagli effetti indesiderati, lasciando d’altra parte che risaltasse quell’area di discrezionalità che è pertinenza di chi ha il compito e il dovere di tenere il timone e trarre le conclusioni."


Al termine della Riforma della XIII Legislatura avevo scritto cose analoghe. In entrambi i casi, la verifica é avvenuta anche sul territorio, in aree campione, e un sito internet ha accolto anche i suggerimenti e commenti individuali. Le organizzazioni sono state a volte invitate a interrogare la loro base su soluzioni alternative.

Son varie le conclusioni che vorrei far emergere supponendo che a condurre l’indagine fossero stati non valorosi commissari in sede istituzionale, ma il Partito in sede di formazione di un programma politico.

In primo luogo, quando si tratta di produrre un orientamento e una proposta politica su tematiche fiscali, ordinamentali o di assetto normativo settoriale, di incentivazione o disincentivazione, che interessa una vasta platea di operatori dispersi, l’interlocutore principale non é il singolo cittadino, ma sono le organizzazioni attraverso le quali si coagulano gli interessi economici o settoriali (il che non esclude che singole istanze e testimonianze possano essere raccolte e avere cittadinanza). L’orientamento individuale nei confronti di quelle tematiche é filtrato per il singolo dai modi di percepirlo negli snodi associativi di riferimento che egli sente più contigui e con cui si identifica maggiormente per condizione sociale e professionale, percezione del mondo, senso comune. Ciò, anche quando il legame associativo diretto é assente. “La partecipazione diretta nel processo, sia esso pubblico che collettivo, di soluzione dei problemi o determinazione delle politiche – scrive T. Burns5 – non é mai stata così allargata e penetrante come oggi. Ma ha in sé qualcosa di nuovo: la partecipazione dei gruppi e delle organizzazioni più che di autonomi, singoli cittadini. La nuova governance che emerge é largamente di organizzazioni, attraverso organizzazioni, per organizzazioni. Porta con sé anche un ruolo significativo per gli esperti. Lo sviluppo di nuove soluzioni di governance comporta mutamenti sostanziali nelle componenti chiave del nuovo ordine politico”. Ovviamente questo assetto é replicato nell’interlocuzione con i vari livelli istituzionali, incluse le situazioni territoriali disperse, cui occorre fare riferimento e che occorre coinvolgere, se non altro come verifica di soluzioni adottate più centralmente.

In secondo luogo, in questi campi é difficile, temo, avere a che fare con una singola misura, quanto con un assetto organico della materia trattata, o per lo memo con un insieme coordinato di microinterventi. In altre parole, é difficile che sia in gioco la ricerca della singola proposta da inserire nel programma tradizionalmente concepito (o peggio ancora, la ricerca dell’eclatante colpo di maglio che vuole sostituire il lavoro di indagine con la collocazione sul mercato politico di idee clamorose e accattivanti; scorciatoia su cui spesso ha indugiato il Pd). Qui il programma tradizionalmente inteso viene sostituito dall’esigenza di un dossier specifico. Con ciò intendo l’atto terminale di una costruzione in continuo progresso svolta in diretta interlocuzione con i destinatari. Dal programma che le é specificamente diretto, ogni sezione della società ricava da indirizzi specifici, linguaggio, capacità di entrare in questioni - apparentemente minute, apparentemente tecniche - che informano la sua vita quotidiana una giudizio sulla sintonia in cui una formazione politica si trova con le sue pulsioni, col suo particulare, con i suoi problemi. La risposta positiva o negativa che trova alle sue domande é forse meno importante nel rapporto che tesse con quella formazione politica rispetto alla percezione che quest’ultima è in grado di esprimere una interlocuzione diretta e una immedesimazione con quel particulare (quand’anche opponga dei no). La politica stenta a percorrere questo terreno tecnico, che spesso é di micro legislazione (e quindi tende a giudicarlo irrilevante), ma é su di esso che spesso si esercita, invece, la domanda degli interessi economici dispersi. Gli stessi dossier, per quanto ben concepiti, non produrranno adesione e coinvolgimento se non sono essi stessi esiti di processi politici, che implicano una tessitura di rapporti a partire dal mondo specifico dei singoli interlocutori e lavoro congiunto con essi per venire a capo dei nodi e risolvere (spesso in via legislativa) una miriade di problemi di impatto diretto; implicano costruzione di relazioni di affidamento e stima: tutto ciò per cui è necessario una comprensione di merito, che è tutt'altro dalla generica captatio benevolentiae tratta dall'armamentario di circostanza. E sono necessari percorsi di raccordo concepiti con immaginazione e tenuti assieme da una visione, che li faccia ascendere fino alle opzioni generali e valoriali e, non ultimo, ai destini del Paese (o semplicemente, che ne imponga dei pezzi come questione generale).

In terzo luogo, va sottolineato che quel “lavorìo politico” calato nello specifico dei tanti particolari che la società produce - (quanto di più lontano oggi sia nel Dna della sinistra e dei suoi gruppi dirigenti) - presuppone personale politico capace di condurlo e con il gusto di condurlo; capace anche di conquistarsi il ruolo di interlocutore vero e competente di quei mondi. Con il prestigio verso di essi che acquisisce - nel suo lavoro di scavo, di immersione nella microlegislazione e nel rapporto con il quotidiano della vita economica, che ogni singolo dossier presuppone - quel personale politico é costruttore di un consenso e di una liason con il partito dei mondi interessati. Questo, mi sono convinto, é il vero nodo della questione in questo tipo di lavoro cognitivo, che trova da parecchio il partito su altra sponda (convinto che qualche candidatura mirata nel momento elettorale risolva tutto). L’esperienza vissuta mi porta a pensare che le persone contino. Ripensandola oggi ritengo di aver costruito allora un capitale politico attorno ai Ds, poi Pd, lasciato perire irresponsabilmente. Quando quel mondo non trova poi interlocutori o, peggio, deve mettersi le “mani nei capelli”6 ogni volta che ne incontra qualcuno virtualmente preposto, il prestigio del partito ruota all’incontrario.

Forse aggiungerei un quarto punto. Il personale politico competente - strategico per una un’offerta politica mirata di coinvolgimento - non é e non deve essere il paladino di quei mondi nel partito né il loro rappresentante diretto. Questa funzione attiene ad altro personale politico, che é bene che un partito abbia altrettanto al suo interno; un diverso personale, che funge da trait d’union ed esercita verso di essi una sorta di “apostolato laico” e ne rappresenta la volontà di non essere solo espressioni anonime (o entità sociologiche) nella condotta della politica o del governo. Un partito dovrebbe, cioè, avere al suo interno le domande e le risposte (provenienti da e dirette verso quei mondi). E’ una questione più ampia di quella riguardante solo gli interessi economici diffusi. In campi suscettibili (sindacato, territorio, corpi sociali, settori tematici, periferie delle città, mondo agrario, volontariato, e non ultimo strati operai, ecc), il ruolo di chi si spende dentro quei mondi e ne assume la rappresentanza (che prima ho chiamato “apostoli”) é di ricongiunzione e condensazione del pullulare di figure e situazioni sociali differenziate, nonché delle disparate situazioni soggettive; é quello di coagulare e trasmettere istanze e domande. Ma il partito deve altrettanto mettere in campo la sponda in un’offerta politica elaborata nella pratica cognitiva e partecipativa che renda protagonisti gli stessi settori e, allo stesso tempo, li spinga verso una coesione col Paese nel suo complesso, con i suoi destini e priorità.


Problemi nel secondo esempio: gli intellettuali, i tecnici, gli esperti


Se la questione del rapporto delle forze sociali é più articolato e meno standardizzato di quanto emerga (penso involontariamente) dal memorandum di Barca, la questione del lavoro di massa con il mondo del saperi o non é da meno. Quale che siano le modalità cognitive e le tematiche su cui il partito forma la sua posizione partecipata, il rapporto é spesso triangolare, perché la sponda al contributo e alle opinioni di militanti e cittadini non sta tutta nel partito; gran parte dei saperi, dell’ideazione, delle competenze, delle esperienze, necessarie per una definizione dei temi e delle opzioni e per una elaborazione compiuta sta quantitativamente fuori di esso e va ricondotta all’interno attraverso una vera e propria mobilitazione, che é una raccolta sui generis di opinioni e idee per la formazione partecipata di posizioni culturali e programmi.

L’integrazione e l’utilizzo nella “macchina politica” dell’elaborazione intellettuale e tecnica non é un processo spontaneo a cui presieda qualche contatto personale o la circolazione di articoli, atti di convegno, siti internet, libri, ecc. (o tanto meno la lettura più diffusa: la rassegna stampa). Quell’integrazione é frutto di strutturazione, volontà e prassi politica, nonché di routine organizzate; il tutto mosso dalla volontà di utilizzare quante più idee e proposte di soluzione circolino fuori dal partito. Ma esso non potrà raccogliere questa ricchezza senza essere il centro, come committente e destinatario, di un fermento intellettuale che esso stesso può far montare e che deve saper far convergere attorno a sé con lucida capacità di programmazione e discernimento. Ma ciò ha dei presupposti (che purtroppo al pd, e ai suoi progenitori, hanno fatto difetto).

In primo luogo, cruciale é l’esistenza di uno strato intermedio di personale politico riconosciuto nei vari mondi professionali e accademici capace di selezionare, sollecitare e tradurre in visione e proposta politica l’espressione, l’elaborazione e la testimonianza che da essi proviene, integrando nei processi di partito le persone e ciò che di utilizzabile politicamente é elaborato fuori nei modi più vari. Questi mediatori culturali (meglio se leader nei loro campi) sono merce rarissima e preziosissima. Sono scienziati, tecnici, intellettuali, sindacalisti, professionisti nei loro campi, quadri della società civile o altro con anni di lavoro alle spalle, con prestigio professionale, ma anche con visione politica e capacità di organizzazione della cultura. Le stesse figure costituiscono anche il canale per dare rappresentanza a coloro che non si avvicineranno mai all’attività politica diretta, ma che per il loro lavoro si trovano in punti sensibili della società. Ritorniamo a un problema gemello a quello precedente, che, tuttavia, qui ha implicazioni politiche più profonde.

Infatti, - ed é la seconda osservazione - anche l’esistenza di uno strato intermedio (“di liaison, raccolta e traduzione in termini politici”) é solo condizione necessaria. Esso ha funzione politica se ha una sua estensione numerica e una connessione e strutturazione interna (questa o quella individualità non colmano certamente la carenza), ma soprattutto se ha per quel compito una investitura politica esplicita o implicita, riflessa nella fluidità di canali con cui la sua elaborazione risale verso l’agenda politica del partito. Per questo é necessaria da un lato la rottura della separazione tra funzioni intellettuali e dirigenti e dall’altro un partito organizzato su assi culturali e programmatici meno empirici nello svolgimento delle proprie funzioni. E’ ovvio che a questa funzione potrebbe in parte supplire il gruppo parlamentare (che, invece, l’investitura ce l’ha per definizione), se questo fosse formato con l’idea che ogni singolo membro fosse anche un attivatore di reti di competenze per la progettazione e l’ideazione di termini specifici di proposta; o con l’idea di fare del gruppo il catalizzatore, interlocutore e punto di raccordo delle conoscenze utili, o il nucleo centrale di una elaborazione di merito, prodotta in modo partecipato. Per quanto vi siano eccezioni individuali, i chiari di luna sono e sono stati altri.

Come terzo punto porrei che le persone attivate – tanto più quanto più vasta é la mobilitazione - abbiano la sensazione di prender parte a qualche significativo impiego che confluisce verso la politica. Il che avviene quando quella mobilitazione intellettuale é anche leva per l’allargamento dei ruoli e per il rinnovamento delle routine politiche. Ma se i luoghi di selezione e di formazione degli indirizzi programmatici e culturali sono definiti a prescindere dalla cattura delle potenzialità insite in questa mobilitazione intellettuale e tecnica, se poco o nulla viene capitalizzato e se le routine politiche rimangono ad uso esclusivo del professionismo politico, l’interesse individuale scema o si disperde ed é difficile riattivarlo poi7.

Certamente, la mobilitazione dei sapere può avvenire in via più mediata, attraverso la costellazione di centri e fondazioni che ruotano intorno al Partito. Ma, a parte il dato di fatto che a partire da questi centri (che hanno il limite di vivere attorno a personalità) non sia stato possibile far risalire verso l’alto punti di vista programmatici o visioni culturali (non per loro demeriti, ma perché sono rimasti altri e indefiniti i luoghi di elaborazione), é ovvio che qualsiasi impegno e partecipazione avvenga attraverso essi è altrettanto destinato a disperdersi e a recedere se i centri stessi sono privi di investitura. Più ancora, se chi vi partecipa sente il suo ruolo non come epopea vissuta collettivamente, ma come divertissement vissuto individualmente per propria soddisfazione intellettuale. Purtroppo, il diaframma con il partito non si é mai assottigliato, per cui la decadenza dei centri come canale indiretto di partecipazione politica é avvenuta puntualmente; oppure, i centri per sopravvivere si sono autonomizzati diventando interessanti, ma disincantati, cenacoli intellettuali.


Quale sostrato comune


Chiudo qui i due spaccati da cui emerge una esortazione a Barca di andare oltre l’espressione di una esigenza (per quanto giusta) di mobilitazione cognitiva espressa genericamente. Ma mi rendo conto che non tutto é prefigurabile a priori e la prova della torta é mangiarla.

L’ultimo spaccato, sugli intellettuali, mi porta poi a discutere con lui un altro punto. Personalmente lo esorterei a non insistere sulla parte valoriale (che nel memorandum costituisce una Appendice provvisoria, ma comunque esprime un riconoscimento alla necessità di qualche amalgama che unisca membri, simpatizzanti ed elettori del partito). E’ bene che egli sia consapevole di riferirsi a una sinistra, il Pd e i suoi predecessori, in cui la prevalenza di un elemento identitario declinato in termini etico-valoriali è stato talmente assorbente da riempire quasi tutto lo spazio e il “senso” della sua ragion d’essere. Quell’elemento ha sopraffatto e in parte sostituito la confluenza dei militanti su un’asse identitario di tipo progettuale, programmatico e culturale, che ha avuto difficoltà a emergere.

Se é difficile oggi per un partito di sinistra definire le sue coordinate sul piano del pensiero filosofico, sociale e storico, tuttavia, lo stare insieme deve comunque poggiare sul sostrato culturale di una comune lettura della società, nonché su una comune interpretazione della funzione strategica nella società italiana, su un fondamento comune di proposizioni e idee sulla società e sulla politica, sulle relazioni di causa-effetto che muovono l’economia e la società, nonché nell’utilizzo di idiomi e universi simbolici. Dall’omogeneità circa i valori di fondo (su cui si é fatta tanta leva) a questo sostrato comune il passo é lunghissimo, ma é quest’ultimo a delineare il campo di approfondimento più promettente. Personalmente darei per scontati i valori (cui potrebbe in fin dei conti aderire anche un conservatore illuminato) e lavorerei su assi identitari effettivamente discriminanti e tali da disegnare un “noi” e “loro”.

Li declinerei in quattro capisaldi, di cui ho parlato in varie sedi8.

Il primo si riferisce a quell’insieme di convincimenti che prima ho attribuito (integrando Barca) a una visione socialdemocratica del rapporto tra politica e società. Il più importante, a mio avviso, é la missione per un avanzamento continuo della socialità in un meccanismo capitalistico il più possibile regolato. Non ritorno per non ripetermi sul tema, anche perché ad esso ho dedicato un intero libro. Tuttavia la missione va esplicitata e declinata in fronti specifici. Una società, ho scritto nello stesso libro, incorpora tanti più elementi di democrazia quanto maggiori siano le possibilità di scelta individuale e collettiva in merito ai vari aspetti dell’assetto sociale ed economico /quanta più partecipazione quel sistema consenta /quanta più capacità di controllo abbiano i singoli sui processi che su di loro ricadono /quanta più socialità di qualsiasi forma sia incorporata nel processo produttivo /quanto più protetti siano i rischi sociali /quanto maggiore sia l’equilibrio di poteri in campo economico /quanta maggiore sia la trasparenza in tutti campi dell’agire economico /quanto minore sia l’area del conflitto di interessi di coloro le cui scelte coinvolgono terzi /quanto più il sistema sia protetto dall’incertezza economica e preservato da crisi e oscillazioni. “Noi siamo il partito cha fa della democrazia economica una dei cardini della sua identità” e che si propone di avanzare su tutti questi fronti.

Al secondo punto porrei come discrimine identitario l’essere “il partito con la visione comunitaria”, che vuole prefigurare, quanto più avvicinabile una società cooperativa e mutualistica, che valorizza la collegialità sociale e mira (nella sua prassi quotidiana come nelle indicazioni di governo) a ricostruire il senso di collettività e comunità pezzo a pezzo. E’ una opzione che si sposa bene con lo sperimentalismo democratico. E’ un’ opzione, che deve essere riscontrabile anche e soprattutto in indicazioni operative che mirino a costruire i piccoli e grandi cementi della vita nazionale. Possono esser previsti, ad esempio, patti sociali costruiti nello stesso tessuto istituzionale, deleghe di autogoverno e di autoriforma da concedere a settori sociali per fini stabiliti dal potere pubblico, premio a qualsiasi comunione o accorpamento di soggetti individuali o collettivi, moltiplicazione delle partnership pubblico-privato, nonché supporto e deleghe alle partnership tra attori sociali (esempio: commissioni bilaterali e quant’altro), utilizzo di consulte, gestione organica di questioni inerenti i distretti, ecc. Chiunque unisca le forze per realizzare qualcosa deve avere il supporto del partito. Inoltre, si immagini un partito che nella sua volontà programmatica abbia quello di realizzare qualche idonea infrastruttura mobilitando moltitudini di persone per azioni collettive volontarie, o che si riprometta di inserire appropriati beni pubblici in Fondazioni nelle quali partecipino i cittadini, che chiami la collettività interessata nella gestione (mutualistica) di pezzi di sanità, che dichiari formalmente che non darà mai alle imprese cooperative il diritto di demutualizzarsi, né cederà territorio pubblico a fini di lucro senza il consenso dei cittadini, ecc.. Si tratta, quindi di un corpo nutrito di indicazioni, che chiamano anch’esse a una mobilitazione collettiva, abbinata a distribuzione di responsabilità, che presuppone fantasia, ma anche una chiara definizione di dove sia la barra.

Il terzo punto discriminante lo porrei nella concezione della società e dei compiti dell’azione pubblica: “siamo il Partito che si pone come il difensore (intelligente) delle prerogative e della proprietà pubblica, in alternativa alla società liberalizzata”. Ma per essere questo, occorre anche esser il partito che scommette sulla possibilità (e sulla sua determinazione) a rendere il settore pubblico efficiente, impegnando sé stesso a mettere in campo tutti i dispositivi necessari a vincere la sfida (controlli rigorosi, incentivi, soddisfazione degli utenti, target da rispettare, potere esteso di sostituzione degli amministratori, trasparenza, meritocrazia nel settore, guerra alla rendite politiche, oltre che un’intelligente disciplina del lavoro pubblico e dell’apparato amministrativo e quant’altro necessario affinché la produzione pubblica di beni e servizi sia pervasa da culture di servizio al cittadino). Sono temi che anche Barca richiama.

L’opzione per la preservazione di un’ampia sfera pubblica o per la presenza di capitale pubblico, dove è necessaria come forza d’urto per la protezione dei più deboli, per la crescita, per lo stimolo agli investimenti e alla tecnologia, per la creazione di spazi condivisi con i cittadini nella fornitura dei servizi collettivi, non é una religione né deve essere perseguita con fondamentalismo. Ciononostante, quell’opzione richiederebbe la solennità e la determinazione che hanno le idee forza che fanno la distinzione di uno schieramento politico rispetto agli altri (“noi” e “loro”), nella consapevolezza che la legittimazione dell’opzione viene dai risultati e da un ritrovato prestigio della sfera pubblica. Il che é una sfida e un programma.

Ultimo punto, ma non ultimo, é nel valore dell’eguaglianza. Non tanto ribadito come tale, quanto vissuto come programma politico che punta all’aggregazione e al riconoscimento reciproco di coloro che la società pone alla base della piramide sociale, o in condizioni di insicurezza, o che relega nell’anonimato di routine prive di gratificazione, di opportunità, di soddisfazioni, o pone in condizioni subordinate a poteri più forti, a fronte dei quali vi é una parte benestante che può beneficiare di una vita serena, soddisfacente, agiata, totalmente inserita nella società del consumo opulento. Anche quando non vi sia relazione di causa e effetto nella condizione dei due campi, la spaccatura é intollerabile, ma può essere solo colmata da coalizioni lottino per l’eguaglianza e che identifichino tale spaccatura come meccanismo sociale (e non come stato di natura) e trovino il partito come organizzatore e rappresentante del loro anelito di giustizia. Quindi: “eguaglianza” come costruzione politica e culturale affinché via sia la forza per realizzarla. “Noi” da una parte e “loro” dal’altra, pur scontando che occorra operare per allargare le coalizioni e che nel “loro” possono esservi molti pezzi che non si oppongono a una società più egalitaria e alla limitazione della loro ricchezza.


Conclusione


In conclusione, ben venga il contributo di Barca. Il fatto che abbia sollevato temi cruciali su quali sia nato un dibattito é salutare. E’ incontrovertibile che la sinistra non può essere chiusa in sé stessa, ma essere sciolta nella società italiana, pur senza rinunciare a un compito di avanguardia. La forma partito conta. In fin dei conti la sinistra é nata con la missione di cambiare l’ordine costituito, intervenire su di esso, far valere una cultura alternativa a quella dominante. Non può adempierla senza avanzare con i cittadini e con il suo popolo. Abbiamo bisogno di una sinistra che si proponga di mantenere (sia pur duttilmente) sempre viva e aperta la ricerca (e la mobilitazione attiva) sugli assetti della società e di costruire un consenso mag-gioritario attorno alla socialità del mercato, concepita non in termini tecnocratici, ma di progetto morale condiviso.

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Note

1 Beninteso, questo non riguarda solo la questione del metodo “democratico”, come erroneamente ha ritenuto il Pd attraverso le primarie, che ha finito per elevare a suo carattere distintivo.

2 Cito volutamente la Pex come campione di argomenti ignoti al grande pubblico, mentre vitali per una parte consistente di contribuenti. La questione relativa alla Pex si é posta a suo tempo e forse non é del tutto risolta.

3 Sono stato anche capofila di una indagine a vasto raggio con esperti e operatori per la costruzione di un insieme di azioni di governo dirette alla piccola e media impresa, preparato in occasione delle elezioni del 2006 e pubblicata e sponsorizzata da ItalianiEuropei (“Il mondo laborioso delle piccole e medie imprese”, I.E. 2006)

4 Ovviamente non ero solo, ma coadiuvato da un Direttivo di prim’ordine: Andriani, Artoni, Cavazzuti, De Vincenti, Fabiani, Paci, Pennacchi, Rodano, Salvati e Visco. Reichlin ne era lo sponsor come responsabile economico del Pds. Quelle idee hanno formato il grosso del programma Pds del 1994 e dell’Ulivo nel 1996. Barca fu uno degli interlocutori sul tema “Privatizzazioni”.

5 “The Future of Parliamentary Democracy: Transition and Challenge in European Governance” . Libro Verde preparato per la Conferenza dei Presidenti delle Assemblee parlamentari dei Paesi europei, tenuta a Roma nel sett. 2000, e presentato da Tom R. Burns (Presidente) per conto di una Commissione di esperti.
http://www.camera.it/_ccppueg/ing/conferenza_odg_Conclusioni_gruppoesperti.asp , p. 3

6 Sono frasi che ho sentito più volte pronunciare.

7 Vorrei ricordare qui la Fabbrica del Programma, che fu un’altro interessantissimo momento di mobilitazione degli intellettuali e tecnici. Si svolse con la finalità di raccogliere di idee di governo, e ne fu sponsor Prodi nel 2005-6. Anche l’informatica aiutò molto quella mobilitazione. Non fu capitalizzata e la stessa campagna elettorale si svolse attorno a alla promessa di un provvedimento economico (5 punti di abbattimento del cuneo fiscale) non incluso nel programma che fu in senso lato il prodotto di quella mobilitazione (il famoso programma di 296 pagine).

8 Ripensando il capitalismo. La crisi economica e il futuro della sinistra. Luiss University Press, Roma 2013

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