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il rasoio di occam

Sulla distinzione fra democrazia e populismo

di John McCormick

Anche se le democrazie dirette, dove il popolo veramente si auto-governa, sono largamente preferibili a quasi tutte le forme di populismo, John McCormick, uno dei maggiori conoscitori di Machiavelli nel mondo americano, sostiene, in un intervento ancora inedito in inglese, che alcune forme di populismo sono assolutamente necessarie per rendere gli attuali sistemi elettorali-rappresentativi più genuinamente democratici

27pol2f01-cipro-protesta-troika-studenti-reutersIntroduzione

di Lorenzo del Savio e Matteo Mameli

Si può veramente dire che i populismi abbiano un potenziale democratico? Nell’articolo “Il populismo è democratico: Machiavelli e gli appetiti delle élite” abbiamo sostenuto che la risposta a questa domanda è .[1] Lo abbiamo fatto presentando gli argomenti anti-oligarchici che Machiavelli espone nei Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio e rielaborando la lettura di Machiavelli di John McCormick nel suo importante volume Machiavellian Democracy. Per gentile concessione dell’autore, qui offriamo la nostra traduzione di un breve articolo di McCormick sul rapporto tra i populismi e le democrazie rappresentative contemporanee. McCormick torna a parlare di Machiavelli e delle sue ricette anti-oligarchiche e spiega come i populismi (o perlomeno alcuni populismi) possano essere un’importante risorsa per la democrazia.

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Durkheim disse una volta che il socialismo era il grido di dolore della società moderna. Il populismo è il grido di dolore delle moderne democrazie rappresentative. Il populismo è inevitabile nei regimi politici che aderiscono formalmente ai principi democratici ma di fatto escludono il popolo dal governo.

Il populismo espone i cittadini comuni delle moderne democrazie a una tensione del tutto peculiare: la richiesta di politiche che riflettano o attuino le preferenze e gli interessi dei cittadini comuni meglio o più fedelmente di quanto facciano le istituzioni elettorali/rappresentative è affidata a individui o partiti che di fatto ‘rappresentano’ il popolo in modo più tenue. Molto raramente, o forse mai, il populismo riesce a produrre leggi, politiche o riforme istituzionali che permettono al popolo di partecipare più direttamente e in modo efficace al governo. L’attuazione di politiche vantaggiose per le maggioranze da parte di partiti e di leader politici populisti dipende interamente dalla competenza e dalla buona fede di tali élite, che però si rivelano troppo spesso incompetenti o dedite esclusivamente ai propri interessi.

In una democrazia, il popolo governa. Il popolo è necessariamente un gruppo sufficientemente esteso da includere un numero sostanziale di persone che possono genuinamente essere definite povere. (È per questo che in epoca antica i critici della democrazia la deridevano quale ‘governo dei poveri’.) Il popolo può governare tramite: (1) assemblee legislative aperte a tutti i cittadini; (2) cariche esecutive assegnate per sorteggio; (3) tribunali politici comprendenti numerosi membri selezionati anch’essi per sorteggio tra i cittadini comuni. Nelle assemblee democratiche, ogni cittadino può proporre e discutere leggi, la cui promulgazione finale è decisa tramite il voto a maggioranza. Ogni cittadino che desidera ed è in grado di concorrere per una magistratura può iscriversi alle liste per le procedure di sorteggio. Ogni ex magistrato, e invero ogni cittadino, può essere incriminato e processato dalle giurie popolari nel caso lo si sospetti di azioni che minacciano o minano la democrazia.

Ovviamente, questa descrizione stilizzata della democrazia è tratta dalle costituzioni delle democrazie antiche e in particolar modo da quella di Atene.[2] Più un regime politico si distanzia dalle pratiche legislative dirette e popolari e dal sorteggio delle cariche esecutive e giudiziarie, meno è democratico.[3] Le repubbliche elettorali moderne sono più democratiche delle democrazie antiche perché estendono la cittadinanza a un numero più elevato di persone, inclusi coloro che possono definirsi poveri, e perché attribuiscono piena cittadinanza politica alle donne e hanno vietato la schiavitù.[4] Ma le repubbliche elettorali moderne sono allo stesso tempo molto meno democratiche perché sostituiscono al potere diretto la rappresentanza, le elezioni al sorteggio, e affidano a giudici professionisti o ai rappresentanti eletti stessi, piuttosto che a cittadini comuni, il compito di perseguire penalmente quei rappresentanti politici che si sono macchiati di delitti politici.[5] Una democrazia moderna ha più demos e meno kratos della sua tipica controparte antica; una democrazia moderna include tra i cittadini una porzione più ampia del popolo ma dà a essi un potere più debole di quello tipico, ad esempio, dell’Atene democratica.

Il populismo attiene a movimenti politici caratterizzati da mobilitazione popolare ma dove non esiste un governo del popolo. Il populismo tende a manifestarsi al di fuori delle istituzioni di governo, nello spazio proprio delle associazioni di cittadini e delle dimostrazioni di massa. Il populismo è popolare quanto a genesi e intenzioni: un numero elevato di individui (anche se non sempre la maggioranza della popolazione) si raccoglie attorno a un determinato problema o programma politico il cui obiettivo è sempre formulato nei termini dei benefici che ne possono derivare per la maggioranza dei cittadini. Una differenza cruciale fra populismo e democrazia è la seguente: il primo incarica da ultimo un leader o un partito politico per la realizzazione concreta degli obiettivi politici adottati o espressi dal movimento. Al contrario, in una democrazia è il popolo a decidere.

Quindi, quando i critici identificano la demagogia quale pericolo endemico sia al populismo sia alla democrazia, confondono due fenomeni molto diversi. Il demagogo populista sale al potere lui stesso e attua personalmente il programma supportato dal movimento (è il caso di Mussolini e di Lenin); oppure, usa il suo prestigio e capitale politico per influenzare coloro che occupano importanti cariche politiche, in modo che siano poi loro ad attuare il programma del movimento (è il caso di Martin Luther King e di Gandhi). Il demagogo democratico, invece, cerca di persuadere il popolo riunito in assemblea a prendere decisioni che, a detta del demagogo, beneficiano il popolo (è il caso di Pericle, di Alcibiade e di Cleone). In una democrazia, dunque, la responsabilità ultima per le leggi o le politiche adottate risiede nelle scelte dirette del popolo piuttosto che, come nel caso del populismo, nelle scelte delle élite che agiscono (per così dire, di seconda o terza mano) nel nome o per conto del popolo.

In questo senso, il populismo non esisteva nelle democrazie antiche e nelle repubbliche del passato. Tiberio Gracco può aver deposto un tribuno ostruzionista che si opponeva alla riforma agraria; ma fu il populus Romanus stesso che, da ultimo, fece passare tale legislazione. Al contrario, i plebei delle repubbliche moderne si affidano interamente a degli agenti per la negoziazione di politiche che assicurino un maggior grado di uguaglianza (nelle democrazie occidentali, i sindacati) o per la distruzione e ricostruzione dell’intero sistema politico e istituzionale al fine di raggiungere l’eguaglianza (i partiti comunisti russo e cinese nel ventesimo secolo). Tra gli esempi più tipici di populismo occorre includere il Giacobinismo nella Francia rivoluzionaria, il Cartismo nel Regno Unito nel diciannovesimo secolo, il Bolscevismo e il Fascismo in Russia e Italia nel ventesimo secolo, e il People’s Party negli anni ‘90 dell’ottocento negli Stati Uniti. Oggi, il termine è di solito utilizzato per parlare dello Chavismo in Venezuela, di alcuni partiti di estrema destra in Europa e del Tea Party negli Stati Uniti.

Il populismo è l’altra faccia della medaglia della normalità politica nelle repubbliche elettorali. Le repubbliche elettorali riescono quasi sempre ad assegnare le cariche pubbliche a persone che tendono a fare in modo che l’uguaglianza politica formale, nella misura in cui è effettivamente garantita, non si traduca in eguaglianza socio-economica. Nei sistemi elettorali i candidati più ricchi tendono a prevalere e, anche quando questo non avviene, gli eletti (qualunque sia la loro condizione socio-economica) hanno le mani legate da interessi economici, a causa dell’enorme quantità di denaro necessaria a prevalere nelle campagne elettorali. Per questo motivo, le repubbliche basate su sistemi elettorali sono spesso definite democrazie oligarchiche. Le democrazie antiche si basavano su di una tregua informale fra cittadini ricchi e poveri, tregua che garantiva ai ricchi di non essere “spennati” dal demos, a patto però che i ricchi non usassero le proprie enormi risorse economiche e la loro influenza pubblica per minare l’eguaglianza politica dei cittadini.[6] Al contrario, e per motivi strutturali, le democrazie elettorali impongono una tregua che in circostanze normali favorisce i cittadini più ricchi in modo estremamente asimmetrico.[7]

Per questo motivo, quando si sentono minacciati dai vantaggi economici dei ricchi, i cittadini più poveri delle repubbliche elettorali si dedicano al populismo di sinistra, in modo da influenzare gli esiti di meccanismi politichi che s’impedisce loro di controllare in modo diretto. Quando il populismo riesce a influenzare i processi politici così da favorire una riduzione delle diseguaglianze socio-economiche, riduzione che può garantire e sostenere in modo più robusto l’eguaglianza politica formale (come ad esempio in Europa occidentale dopo prima e la seconda guerra mondiale), le élite socio-economiche reagiscono nella maggior parte dei casi innescando movimenti populisti di destra il cui obiettivo è la riduzione o l’eliminazione dei progressi socio-economici in direzione egualitaria precedentemente ottenuti. Questi populismi di destra invocano l’identità nazionale, nei suoi aspetti religiosi, etnici o culturali, nel tentativo di coinvolgere i più poveri tra i cittadini in battaglie che molto spesso sono in contrasto con il desiderio di eguaglianza politica e socio-economica. Molto spesso, in tali circostanze si attribuisce ai principi di libertà e uguaglianza una connotazione culturale piuttosto che politica o economica. Le élite si appellano ai legami affettivi che le persone comuni hanno verso la nazione, oppure alle paure di minacce esterne che si generano a livello domestico o internazionale, in modo da ricompattare il sentimento di solidarietà nazionale su basi diverse da quelle dell’eguaglianza socio-economica o politica. È per tale motivo che i critici accusano il Tea Party americano di essere un fenomeno di Astroturf piuttosto che di grass roots [e cioè un prodotto concepito a tavolino piuttosto che un movimento spontaneo proveniente dal basso, n.d.t.].[8] Gli stessi critici accusano il fascismo e i partiti europei di estrema destra più recenti di essere o esser stati più elitisti dei sindacalismi e dei comunismi europei occidentali (anch’essi peraltro, in larga misura, movimenti guidati da élite).[9]

Gli esempi appena citati suggeriscono che l’ostilità politica è più intensa nei movimenti populisti rispetto ai regimi politici genuinamente democratici. Il demos o la plebe di Atene o di Roma guardavano gli oligarchi e il patriziato con sospetto e ne sorvegliavano attentamente i comportamenti. Eppure, forse perché avevano accesso diretto ai meccanismi del governo, i cittadini comuni delle repubbliche antiche non sentivano l’esigenza di considerare i loro avversari quali veri e propri nemici politici, come invece accade spesso nei populismi: i giacobini si scagliarono contro gli aristocratici e gli émigré, i comunisti e i fascisti contro la borghesia, i nazisti contro gli ebrei e i bolscevichi, e il Tea Party contro un’indefinita classe politico-intellettuale elitista e liberal.

Questa intensità e, in molti casi, stupidità, può dipendere dalla naturale frustrazione che i cittadini provano nelle repubbliche elettorali che, come disse con orgoglio Madison, implicano  “l’esclusione totale del popolo nella sua capacità collettiva da qualsiasi porzione” del governo.[10] Come nota Machiavelli, le accuse di estremismo e di incostanza che i critici di parte aristocratica lanciano contro il popolo sono meno pertinenti laddove il popolo sia in grado di partecipare direttamente alla decisioni politiche. Il popolo fa richieste di ogni tipo, anche le più ridicole (come quella di uccidere tutti gli aristocratici), quando è escluso dal governo, ma decide invece in modo responsabile e accurato, sostiene Machiavelli, quando gli è data la possibilità di governare, e in tali occasioni prende decisioni più responsabili e più corrette di quelle prese dalle élite.[11]

Nel regno della riflessione teorica, Carl Schmitt e Lenin sono forse i più importanti difensori di ciò che sto chiamando populismo.[12] Schmitt ribadì che la volontà del popolo si realizzava meglio in presenza di un capo dell’esecutivo eletto per plebiscito (ad esempio, il Reichspräsident della repubblica di Weimar) o di un leader di partito scelto per acclamazione popolare che riuscisse ad imporre omogeneità all’intero Volk tedesco (ossia, Hitler). Con la nozione di centralismo democratico, Lenin giustificava in modo del tutto simile la pretesa del Partito Comunista di governare in nome del proletariato russo. Forme progressiste di populismo, come il movimento populista statunitense di fine ottocento e inizio novecento o il sindacalismo europeo occidentale del ventesimo secolo, non hanno avuto analoghi grandi teorici.

È forse per ragioni simili che i difensori delle democrazie antiche sono assai rari tra i filosofi e gli storici. Aristotele è il più grande analista ‘oggettivo’ delle democrazie antiche e, come detto sopra, Machiavelli (e non Rousseau)[13] è verosimilmente il più convinto difensore di istituzioni e di pratiche simili a quelle delle democrazie antiche.[14] Machiavelli propose l’istituzione di ampie assemblee nelle quali tutti i cittadini, indipendentemente dalla condizione sociale, potessero proporre, discutere e decidere le leggi, oltre che determinare la sorte di quelli accusati di delitti politici. Inoltre, Machiavelli suggerì l’istituzione di cariche, come il tribunato della plebe, dalle quali i ricchi e i potenti fossero esclusi, cariche che dovevano essere dotate di autorità legislativa e giudiziaria e di importanti poteri di veto. Se è vero che queste cariche con caratterizzazione classista non possono distribuire il potere in maniera diffusa come permettevano di fare le lotterie ateniesi, è anche vero che esse possono produrre una distribuzione più ampia di quella tipica generata dalle elezioni nelle democrazie rappresentative moderne.

Consentitemi un pensiero finale che spero sia meno banale di quanto sembri. Anche se le democrazie dirette, dove il popolo si auto-governa per davvero, sono largamente preferibili per ragioni normative a quasi tutte le forme di populismo, alcune forme di populismo sono assolutamente necessarie per rendere le repubbliche elettorali moderne più genuinamente democratiche. Paradossalmente, un fenomeno politico in cui il popolo non ha accesso diretto al governo, è indispensabile ai giorni nostri per la creazione di regimi politici in cui il popolo possa governare.

 

Il testo
John McCormick, ‘On the distinction between democracy and populism’. La versione originale in inglese non è mai stata pubblicata. Una traduzione spagnola è stata pubblicata sulla rivista Letras Libres nel 2012; si veda: http://www.letraslibres.com/revista/dossier/sobre-la-distincion-entre-democracia-y-populismo. La traduzione dall’inglese all’italiano è di Lorenzo del Savio e Matteo Mameli.
 
L’autore
John P. McCormick: Professor of Political Science, University of Chicago. Tra i suoi libri: Machiavellian Democracy, Cambridge University Press, 2011. Si veda:
http://political-science.uchicago.edu/people/faculty/mccormick.shtml
 
NOTE
[1] Si veda: http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/02/13/il-populismo-e-democratico-machiavelli-e-gli-appetiti-delle-elite/
[2] Si veda: Mogens Herman Hansen, The Athenian Democracy in the Age of Demosthenes (University of Oklahoma Press, 1991).
[3] Si veda: Moses I. Finley, Democracy Ancient and Modern (Rutgers University Press, 1985).
[4] Si veda: Robert Alan Dahl, Democracy and Its Critics (Yale University Press, 1989).
[5] Si veda: Bernard Manin, The Principles of Representative Government (Cambridge University Press, 1997).
[6] Si veda: Josiah Ober, Mass and Elite in Democratic Athens: Rhetoric, Ideology, and the Power of the People (Princeton University Press, 1991).
[7] Si veda: Jeffrey A. Winters, Oligarchy (Cambridge University, Press 2011).
[8] Si veda: Theda Skocpol & Vanessa Williamson, The Tea Party and the Remaking of Republican Conservatism (Oxford University Press 2012).
[9] Si veda: Timothy W. Mason & Jane Caplan, (a cura di), Nazism, Fascism and the Working Class (Cambridge University Press 1995).
[10] Si veda: James Madison, Federalist Papers, # 63.
[11] Si veda: Niccolò Machiavelli, Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio, I.7-8, 47, 58.
[12] Si veda: Carl Schmitt, Constitutional Theory, J. Seitzer, trans. (Duke University Press, 2008); Legality and legitimacy, J. Seitzer, trans. (Duke University Press 2004); Der Hüter der Verfassung (Tubingen: J.C.B. Mohr [Paul Siebeck] 1931); ‘Der Führer schützt das Recht’, Deutsche Juristen-Zeitung 38, August 1, 1934; Vladimir I. Lenin, Essential Works of Lenin: “What is to be done?” and other writings, H.M. Christman, trans. (Courier Dover Publications, 1987).
[13] Non c’è critico più severo della democrazia ateniese di Rousseau, il quale raccomandava anche che nelle grandi repubbliche al voto dei ricchi venisse dato proporzionalmente più peso rispetto a quello dei meno abbienti. Si veda: Jean-Jacques Rousseau, Of the Social Contract, or Principles of Political Right [1762] in Rousseau: The Social Contract and Other Later Political Writings, ed. V Gourevitch, (Cambridge 1997), 39-152; IV-4, p. 133. Si veda inoltre: John P. McCormick, “Rousseau’s Rome and the Repudiation of Populist Republicanism,” Critical Review of International Social and Political Philosophy (CRISPP) 10/1 (March 2007) 3-27.
[14] Si veda: John McCormick, Machiavellian Democracy (Cambridge University Press, 2011).

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