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Sulla crisi della democrazia

Un contributo alla critica del regime democratico

Sebastiano Isaia

Quanto più il singolo diventa impotente, tanto più si restringe la giurisdizione della coscienza. La coscienza regredisce (M. Horkheimer, Potere e coscienza).

maltempo-york-295073Leggo da Il Post del 5 marzo 2014: «La “crisi della democrazia” è un tema che negli ultimi tempi è sempre più frequente nelle discussioni sullo stato del mondo e dei suoi paesi, ma anche sempre più banalizzato: una specie di modo di dire che spiega ogni cosa senza spiegare niente». Cercherò, nel modo più stringato possibile, di chiarire il mio punto di vista sul concetto di democrazia e sulla sua prassi, cosicché si possa capire da quale prospettiva approccio il tema in questione, il quale è ormai diventato una sorta di tormentone che ricorda molto da vicino, almeno a chi scrive, un altro evergreen tematico italiano: la crisi del cinema.

Gli intellettuali e i politici antiliberisti (statalisti) di “sinistra” e di “destra” fanno risalire l’attuale «crisi della democrazia» alla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso; essi insomma mettono tale fenomeno in una relazione di causa-effetto con la cosiddetta «controrivoluzione neoliberista» che porta i famigerati nomi di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. La potente accelerazione del processo di globalizzazione alla fine degli anni Ottanta (crisi della sovranità nazionale, dominio della finanza sulla cosiddetta economia reale) e la crisi economica internazionale che travaglia l’Occidente (soprattutto il Vecchio Continente) dalla fine del 2007 avrebbero poi rafforzato tanto le cause quanto i sintomi di questa crisi, rendendola per certi versi permanente – strutturale.

In effetti, è almeno dalla fine del XIX secolo, dall’epoca in cui apparve definitivo il passaggio dalla vecchia struttura concorrenziale del Capitalismo (quella, per intenderci, che tanto piaceva a Schumpeter) a quella nuova (basata sui grandi gruppi monopolistici industriali, commerciali e finanziari) che la «crisi della democrazia» riempie libri e riviste specializzate. La stessa «società di massa» ha costretto politologi e filosofi della politica a ridefinire il concetto di democrazia, a declinarlo in termini del tutto nuovi, per certi versi contraddittori, in modo da renderla quantomeno pensabile nell’epoca dei partiti di massa, dei sindacati di massa, delle altre organizzazioni (private, statali e parastatali) rigorosamente “di massa”, dei mezzi di comunicazione di massa – mass media.

Si è pure parlato di un brusco passaggio dalla «democrazia elitaria» di stampo liberale a quella appunto «di massa», caratterizzata dalla sempre più occhiuta ingerenza dello Stato anche nella sfera “privata” dei cittadini (anche questo concetto ha subito col passare del tempo una straordinaria evoluzione, finendo per incrociare il concetto di “sfera pubblica”) e da un crescente spostamento di potere reale dalle funzioni legislative del Parlamento a quelle esecutive che fanno capo al governo.

La Grande Guerra rese evidente agli occhi delle “larghe masse” che la tanto celebrata democrazia non solo non aveva mantenuto le promesse di graduale ma sicuro riscatto sociale, ma come essa non avesse impedito all’umanità di precipitare, prima col sorriso sulle labbra e poi con il volto sconvolto dall’orrore, nell’abisso dell’inferno bellico.

La Prima guerra mondiale e la società che da essa venne fuori diedero insomma un nuovo e assai ricco materiale di riflessione ai cultori della materia, e soprattutto chiusero definitivamente ogni discorso sulla natura storicamente progressiva della democrazia borghese, la quale quasi spontaneamente si trasformò di fatto (e in alcuni casi anche di diritto) in un regime autoritario nonché, in alcuni importanti Paesi, totalitario. Sotto questo aspetto, l’esempio tedesco degli anni Venti e Trenta del secolo scorso (massacro dei comunisti e distruzione delle organizzazioni rivoluzionarie del proletariato a opera della democrazia, successiva ascesa del Socialnazionalismo) è semplicemente paradigmatico. Anche il caso italiano (dal «biennio rosso» alla «marcia su Roma») fa, come si dice, epoca: il regime democratico fiaccò la volontà di ribellione e di resistenza del proletariato italiano, secondo gli auspici di Giolitti, e il Fascismo completò l’opera controrivoluzionaria, annientando le organizzazioni proletarie e dando nuovo slancio alla riscossa di tutti gli strati sociali del Paese interessati a mettere la classe operaia e i contadini salariati nella condizione di non nuocere.

Solo un pensiero incapace di cogliere i processi sociali nella loro essenza e nella loro complessa dialettica può vedere nel Fascismo un corpo estraneo rispetto alla democrazia liberale che l’ha preceduto (e per molti aspetti generato con parto spontanea), e nel Nazismo (sterminio degli ebrei compreso) una maligna degenerazione della civiltà borghese. Anche Hitler compì un errore per certi versi analogo, che lo portò alla catastrofe: «La nemesi immanente di Hitler è questa: che egli, il boia della società liberale, era troppo “liberale” per capire come altrove, sotto il velo del liberismo, si costruisse l’irresistibile supremazia del potenziale industriale. Hitler, che scrutò come nessun altro borghese quel che c’è di falso nel liberalismo, non comprese fino in fondo la potenza che gli sta dietro, cioè la tendenza sociale di cui egli stesso non era che il tamburino […] La stoltezza di Hitler è stata un’astuzia della ragione» (Minima Moralia, Einaudi, 1994). Della ragione capitalistica, se posso aggiungere. Una potente ragione che il Führer del Terzo Reich che sarebbe dovuto essere Millenario non riuscì a cogliere dietro la «cultura degenerata» (o incultura) degli Stati Uniti, da egli considerati un Paese troppo avvezzo alla impotente e stucchevole prassi democratica e alle delizie della «vita borghese», per poter reggere il confronto con una Nazione virile fatta di sudditi abituati a lavorare duramente e a obbedire disciplinatamente.

In realtà, ciò che il pensiero borghese coglie come «crisi» (della politica, della democrazia, della sovranità nazionale, della cultura, della struttura psichica, etica e morale degli individui) altro non è che le continue accelerazioni del processo di espansione del dominio capitalistico, che generano scossoni e a volte veri e propri terremoti in grado di incrinare il vecchio status quo politico-istituzionale di un Paese, o contemporaneamente di più Paesi. Di più: la natura «rivoluzionaria» (nel senso marxiano ripreso anche da Schumpeter con il concetto di distruzione creatrice) del Capitalismo rende la «crisi» della cosiddetta sovrastruttura un fatto permanente e strutturale, fenomeno che si osserva meglio nei Paesi capitalisticamente più dinamici del pianeta (vedi Stati Uniti). In questi Paesi la «crisi» è un dato della realtà così naturale, da risultare praticamente invisibile, salvo apparire in tutta la sua pregnanza quando fa capolino la crisi economica. In Paesi relativamente meno dinamici sul piano economico e politicamente più rigidi (è il caso dell’Italia e, in parte, della Francia), i mutamenti nella sovrastruttura resi a un certo punto necessari e non più dilazionabili dalle trasformazioni tecnologiche e sociali assumono un carattere più dirompente, assumendo appunto il classico aspetto della «crisi».

Quando riflettiamo intorno alla «sovrastruttura» politico-istituzionale di un Paese, non dovremmo mai dimenticare la «struttura» sociale sopra la quale essa riposa. Intendo riferirmi più precisamente alla struttura classista della società, la quale presuppone e pone sempre di nuovo peculiari rapporti sociali di dominio e sfruttamento. «Un vero Stato e un vero governo dello Stato si determinano solo quando sussiste una differenza di classe, quando, cioè, divengono massime la ricchezza e la povertà» (Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia). Per Hegel la dimensione classista della società è un fatto insuperabile, contro il quale sarebbe vano e stupido insorgere; Marx, sviluppando criticamente la concezione storico-dialettica dello stesso Ragno di Stoccarda, giunse invece a un’opposta conclusione, ossia che fosse possibile, oltre che auspicabile, il superamento di quella disumana dimensione, tesi che postulava la possibilità/necessità dell’estinzione dello Stato e della stessa politica in quanto espressione dei conflitti di classe. Com’è noto, Marx individuò nel proletariato la sola classe «che non può emancipare se stessa senza emancipare tutte le rimanenti sfere della società» (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel).

Ecco perché la domanda centrale della storia del pensiero politico: «Qual è il governo migliore, quello degli uomini o quello delle leggi?» coglie, magari solo intuitivamente o senza volerlo, il cuore del problema. La mia risposta è che dove regna l’Uomo non può regnare la Legge. E viceversa.

La peculiarità storica dei rapporti sociali, i quali costituiscono la reale struttura portante dell’edificio sociale, ha prodotto forme molto diverse di democrazia (quella classica di Atene e quella borghese, ed esempio), diverse al punto da rendere improponibile ogni comparazione fra le due forme. Ecco perché mi appare infecondo approcciare il tema in oggetto nei termini che seguono: «L’unico modo di intendersi quando si parla di democrazia, in quanto contrapposta a tutte le forme di governo autocratico, è di considerarla caratterizzata da un insieme di regole, primarie o fondamentali, che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive e con quali procedure.” (N. Bobbio, Il futuro della democrazia).

Come scrisse Marx nella Critica al programma di Gotha (1875), un testo, sia detto di passaggio, fondamentale per chi desidera cogliere la differenza abissale che corre fra il pensiero marxiano e il “marxismo” che si affermò nel movimento operaio internazionale, «Il diritto non può essere mai superiore alla configurazione economica e allo sviluppo, da essa condizionato, della società». Ecco perché faccio sempre riferimento non a un astratto diritto, ma al diritto borghese e, ancor più precisamente, al diritto borghese nella fase imperialista dello sviluppo capitalistico. Con tutto quello che ne segue a proposito di democrazia.

Democratica, autoritaria o dittatoriale che sia, la forma politico-istituzionale del XXI secolo ha ovunque come suo fondamento e presupposto oggettivo (materiale nel senso del marxiano «materialismo nuovo») il dominio dei rapporti sociali capitalistici su scala planetaria. Democratico, autoritario o dittatoriale che sia, il regime politico-istituzionale di un Paese non è che l’espressione di quel Dominio: esso ne è, necessariamente, il cane da guardia, il suo più potente strumento di conservazione ed espansione.

Tutto questo si dà naturalmente sopra le teste del personale politico, prescinde completamente dalla sua buona o cattiva volontà. In perfetta buonafede, il politico agisce in vista di quel «bene comune» dietro il quale si cela la realtà classista appena abbozzata; una realtà fatta di dominati e dominanti, di sfruttati e sfruttatori.

Come ogni altra forma politico-istituzionale, il regime democratico è chiamato a governare la prassi sociale di un Paese all’epoca della sussunzione totalitaria della natura e degli individui sotto gli interessi del Capitale. Più che concentrarsi sui veri o presunti pericoli di «involuzione/deriva autoritaria», chi aspira al pensiero critico-radicale dovrebbe piuttosto puntare i riflettori sulla natura totalitaria di quegli interessi.

Oggi il potere reale (sociale, ossia economico, politico, ideologico, culturale, psicologico) non può che stare nelle mani delle classi dominanti, e questo a prescindere dai soggetti politici che pro tempore sono chiamati a gestire lo Stato nelle sue diverse articolazioni politico-istituzionali.

Nella sua forma ideologica la democrazia è il governo del popolo; nella sua essenza sociale la democrazia equivale a dittatura delle classi dominanti, e questo già ai suoi albori storici, quando le decisioni della città erano influenzate fortemente dai ceti più ricchi, senza parlare dell’esclusione degli schiavi da ogni forma di prassi politica.

Lo stesso concetto di popolo (il «Terzo Stato» della Rivoluzione francese del 1789) presuppone l’esistenza delle classi. Come scrivevano Bouchez e Roux nella loro Storia parlamentare della Rivoluzione Francese (1834), i proclamatori dei diritti umani sacri e inviolabili si opposero risolutamente alla libertà di coalizione riguardante i proletari: «Certo a tutti i cittadini deve essere riconosciuto il diritto di riunirsi», sostenne un amico del popolo all’Assemblea costituente del 1791, «ma non si deve permettere che i cittadini di determinate professioni si riuniscano allo scopo di tutelare i loro presunti interessi comini». A mio avviso qui non si deve leggere solo o essenzialmente un dato di ipocrisia borghese scientemente fabbricato. In effetti, solo con il tempo, attraverso sanguinose esperienze, la democrazia radicale capirà che le organizzazioni del cosiddetto Quarto Stato avevano poco a che fare con le vecchie gilde corporative.

Concetti come popolo e cittadino non realizzavano l’hegeliana notte che rendeva invisibili le contraddizioni sociali e l’antagonismo sociale fra possidenti e nullatenenti. La proclamazione dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla Legge ben presto mostrerà la sua natura di parte (di classe, insomma borghese), gettando nello sconforto gli intellettuali che in buona fede avevano creduto possibile la realizzazione della Patria degli uomini là dove continuava a imperare la divisione di classe. La stessa esperienza del Terrore giacobino si può almeno in parte spiegare come il vano tentativo messo in opera dall’ala più estrema del Terzo Stato di piegare con la volontà (che si fa violenza passando all’atto, per dirla freudianamente) una realtà irriducibile al progetto illuminista della trasformazione integrale degli individui. Senza umanizzare l’intero spazio sociale, la pretesa di costruire l’uomo nuovo deve necessariamente generare disastri. D’altra parte, più che di creare il mitico “uomo nuovo” si tratta di rendere possibile la vita agli uomini.

Il concetto di potere del popolo oggi non ha insomma alcun fondamento reale (se non quello ideologico/mistificante che sto cercando di denunciare in queste pagine), mentre in parte lo ha avuto in altre epoche storiche, ad esempio nell’epoca rivoluzionaria dell’ascesa al potere della borghesia, quando persino Napoleone poteva legittimamente dire di essere a capo di un’Armata popolare che mirava a fare, manu militari,  tabula rasa in tutta Europa dei vecchi privilegi monarchici e aristocratici – salvo poi proclamarsi Imperatore dei francesi.

Fare l’apologia del cosiddetto popolo sovrano equivale, eo ipso, a fare l’apologia del Dominio che ci inchioda nella disumana dimensione del Moloch capitalistico.

L’art. 49 della Costituzione italiana recita: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». I limiti di questa “libertà” sono dunque fissati con estrema precisione: essi corrono lungo i solchi tracciati dagli interessi nazionali, i quali necessariamente corrispondono agli interessi delle classi dominanti, o comunque agli interessi di quelle frazioni di esse momentaneamente più forti.  La Nazione moderna è storicamente lo spazio geosociale creato dalla borghesia, e non a caso il nazionalismo (o patriottismo nella fase ascendente della borghesia rivoluzionaria) sostituì la religione come cemento ideologico per tenere unito il popolo. Con piena legittimità lo Stato italiano ricusa il «diritto di associarsi liberamente» a quei soggetti politici che concorrono con metodo rivoluzionario a contrastare la politica nazionale.

Detto en passant, la natura borghese della Costituzione Italiana è rivelata nel modo più chiaro, oserei dire sfacciato, proprio da quell’Art. 1 a cui molti politici, filosofi della politica e giuristi attribuiscono un significato se non proprio socialista, certamente assai prossimo a questo concetto, almeno nella sua concezione triviale. Infatti, che altro sarebbe il lavoro che fonda la Repubblica Italiana se non il lavoro salariato che inchioda i nullatenenti al carro del Capitale? Come non esiste una democrazia in generale, uno Stato in generale, un Imperialismo in generale e via discorrendo, allo stesso modo, e anzi in maniere più pertinente, non esiste il lavoro astrattamente considerato ma una forma storicamente determinata di lavoro. In generale si può solo dire che nelle società divise in classi chi produce la ricchezza sociale è uno sfruttato, schiavo, servo o moderno lavoratore salariato che sia.

Per Emma Baglioni, «Ciò che va sotto il nome di crisi della rappresentanza ha il suo senso pregnante nella rinuncia della democrazia a costituirsi come “politica dell’uomo per l’uomo”» (La crisi del concetto di democrazia, Treccani.it, gennaio 2008). Ma proprio la democrazia, e in generale ogni forma di politica, presuppone la negazione dell’uomo in quanto uomo, il quale non è nemmeno concepibile nel seno di comunità segnate dalla divisione in classi degli individui. Ho sviluppato questi concetti in L’Angelo Nero sfida il Dominio e in Eutanasia del Dominio, e a questi scritti rimando.

Ancora la Baglioni: «D’altra parte la crisi della democrazia è, per se stessa, non solo crisi del potere (krátos) e delle istituzioni, delle loro procedure, dei loro equilibri, ma anche crisi dei cittadini (démos) sempre più dimentichi della responsabilità di soggetti politici, sempre più passivi portatori di emozioni irriflesse, pronti a seguire chi sa eccitarle e cavalcarle» (La crisi del concetto di democrazia). Qui siamo dinanzi alla classica ideologia borghese che presenta la democrazia come il migliore dei mondi concepibili. Ora, come dimostra la prassi quotidiana ormai da qualche secolo, non solo il potere politico, qualunque sia la sua configurazione istituzionale, è saldamente nelle mani delle classi dominanti, ma il Potere Sociale, che è un concetto assai più decisivo e che comunque incorpora il politico, fa capo direttamente e mediatamente alla prassi economica, la quale è dominata dalla ricerca del massimo profitto. Già Marx parlava del capitale come di una potenza sociale estranea e ostile agli individui, che pure la producono sempre di nuovo, producendo e distribuendo la ricchezza sociale nella sua attuale forma capitalistica. Nemmeno i singoli detentori di capitale (i «funzionari del capitale», insomma i capitalisti) controllano il meccanismo economico che pure genera i loro profitti. Se questo era vero ai tempi dell’antidemocratico Marx, a suo tempo fustigatore dei socialisti piccolo borghesi ammalati di democraticismo (la democrazia come feticcio), figuriamoci oggi, all’epoca del dominio totalitario (sempre nella pregnante e radicale accezione del concetto che ho cercato di mettere in luce) e mondiale del Capitale.

Oggi il libero arbitrio si dà interamente dentro la società strutturata fin nei minimi dettagli dai rapporti sociali capitalistici. È dentro la dimensione dominata dal discorso del Capitale, per dirla con Lacan, che esercitiamo la nostra libertà di scelta sul mercato: delle merci, delle idee (politiche, religiose, filosofiche, ecc.), delle relazioni affettive e via di seguito. Parlare «dei cittadini» nei termini di «soggetti politici responsabili» significa dunque fare dell’ideologia, ossia negare una realtà che fa degli individui degli oggetti sociali sussunti da una prassi che per l’essenziale essi non controllano e che piuttosto li controlla.

Posto tutto questo, ha senso parlare di responsabilità personale? Comunque sia, la ricerca del significato e dei limiti di questa responsabilità non può prescindere dal quadro di radicale disumanità e illibertà (due modi di alludere alla stessa cosa) qui solo abbozzato. Questo, naturalmente, se non si vuole fare dell’ideologia e dell’apologia dello status quo sociale.

Non controllando il mondo che lo circonda, nonostante sia un suo prodotto, il non-ancora-uomo non ha potere nemmeno su se stesso, come ha messo in luce anche la psicoanalisi. Per questo, come osservò Adorno, «La massima “Sii ciò che sei”», usatissima in pubblicità (che fa del singolo consumatore il centro del mondo, che dico: dell’Universo!), «diventa una beffa»: essa suona infatti come una cinica apologia dell’impotenza sociale degli individui. Lotta contro ciò che sei! Lotta contro ciò che il Dominio ti fa essere. Chi, al pari di chi scrive, si sforza di conquistare un punto di vista autenticamente critico-radicale sulle cose del mondo non può chiudere gli occhi dinanzi a questa vera e propria tragedia dei nostri tempi. Scriveva Max Horkheimer (Sociologia e filosofia): «La società, la quale è diventata alla fine proprio la mostruosità che Hobbes ha descritto al suo inizio, scoraggia il pensiero che cerca di coglierla come intero». Dobbiamo farci coraggio.

 

Una breve divagazione intorno al concetto di coscienza di classe

La coscienza di essere sfruttati dal Capitale non è sufficiente, da sola, a fare dei lavoratori una classe rivoluzionaria. Infatti, si può benissimo dare, e nei fatti essa si dà come regola, la circostanza per cui i lavoratori considerino il proprio sfruttamento come rispondente a una legge metastorica che assegna ad alcuni individui la funzione dello sfruttato e ad altri quella dello sfruttatore. «Da che mondo è mondo esistono sfruttati e sfruttatori, ricchi e poveri, governati e governanti, pecore e lupi, gazzelle e leoni. È inutile e infantile opporsi a questo destino ultra millenario». Quante volte abbiamo ascoltato questo sermone realistico proferito da chi vive nei bassifondi della scala sociale! Mio padre, un muratore bruciato dal sole, azzannato dal freddo e brutalizzato dal Capitale me lo ripeteva sempre.

Semmai, si criticano le esasperazioni, le “degenerazioni” e gli eccessi di una simile Legge, che sono vissuti come ingiustizia, mentre il fatto in sé stesso viene collocato appunto in una tetragona dimensione atemporale e naturale. Appena qualcuno fa cadere nel discorso il fatidico «Da che mondo è mondo», la mia mano corre istintivamente alla pistola.

Alla coscienza dello sfruttamento deve affiancarsi qualcos’altro. La ricerca – la definizione – di questo qualcosa mi appare molto affascinante, oltre che decisiva sul terreno della prassi.

Una volta Arthur Schopenhauer scrisse che «Dove c’è colpa ci deve anche essere responsabilità» (La libertà del volere umano). Ebbene, la Colpa che a mio avviso fa luce (non sto dicendo che annulla ma che relativizza, contestualizza) su ogni altra colpa che ha come protagonista il singolo individuo deve essere individuata nella struttura classista della società. «Se infatti un’azione cattiva proviene dalla natura, cioè dall’innata qualità dell’uomo, la colpa è evidentemente dell’autore di questa natura. Per questo si è inventata la libertà del volere». Inutile dire che l’autore del Mondo come volontà e rappresentazione alludeva all’Artefice Massimo di tutte le cose, a Dio. «Pertanto», concludeva Schopenhauer, «l’uomo rimarrebbe innocente in ogni caso… mentre lo si fa responsabile». Aggiungo: di tutto.

Scriveva Arthur Rosenberg a proposito della «democrazia proletaria» che si realizzò ad Atena ai tempi di Pericle, di Sofocle e di Nicia: «È significativo che Atene, proprio dopo la presa del potere da parte del proletariato [461 a.C.], si sia contemporaneamente lanciata in due vere e proprie guerre di rapina: una contro i persiani per la conquista dell’Egitto, l’altra nella stessa Grecia per annientare due concorrenti commerciali come le repubbliche di Egina e di Corinto» (Democrazia e lotta di classe nell’antichità). Questo equivale forse a dire che è nella “natura umana” fare il Male?  Credo proprio di no. Significa piuttosto, e mi scuso per la ripetizione, che il Male è radicato nella struttura classista della società, che allora non venne sostanzialmente intaccata dalle riforme sociali. Infatti, «La politica estera imperialista intrapresa dall’Atene democratica fu a tutto vantaggio degli interessi degli imprenditori». Attraverso la guerra di rapina i nullatenenti ateniesi (teti) cercarono di partecipare nelle migliori condizioni alla spartizione del bottino. Le distinzioni di classe scomparvero solo sul piano formale e «il potere della maggioranza più povera», come definì Rosenberg la democrazia ai tempi di Pericle e degli altri democratici radicali, si rivelò alla fine incapace di vero Potere. Non solo, ma lo stesso proletariato ateniese partecipò con entusiasmo e raddoppiata violenza allo sfruttamento esercitato da Atene ai danni delle altre città. «Ciò che si propone di prosperare sotto il dominio, rischia di riprodurre il dominio stesso» (M. Horkheimer, Lo Stato autoritario).

Nonostante la loro formale uguaglianza di diritti, le classi subalterne anche in democrazia risultano di fatto completamente esclusi tanto dall’attività politica dirimente ai fini dell’effettivo governo del Paese, quanto dall’amministrazione della cosiddetta giustizia – o, più correttamente, della giustizia nella sua attuale configurazione borghese. Per un verso, la prassi elettorale si risolve, soprattutto per i nullatenenti salariati, in una “scelta” dell’albero a cui impiccarsi (albero di “destra”, di “centro” e di “sinistra”); e per altro verso, questa stessa prassi attesta la completa subalternità politico-ideologica di chi per vivere è costretto a vendere la propria capacità lavorativa. Se davvero il proletaria potesse impadronirsi del potere attraverso le elezioni, possiamo star certi che queste ultime verrebbero immediatamente soppresse come la più “eversiva” delle attività concepibili in regime democratico. È perché la prassi elettorale esprime l’ideologia dominante, in tutte le sue svariate coloriture apprezzabili nel mercato politico (e quello italiano è, sotto questo aspetto, particolarmente ricco e “frastagliato”), che essa si presta assai bene come strumento politico-ideologico di gestione delle contraddizioni e tensioni sociali. Finché è possibile usare la carota, la classe dominante non ha alcun interesse a mettere in campo quelle procedure di repressione e di controllo sociale che meglio si prestano a gestire il conflitto sociale in condizioni di acuta crisi del sistema capitalistico. Un mix di carota e di bastone: è questa la normalità della prassi democratica.

Chi parla di «vera democrazia», contrapponendola alla «democrazia reale», con chiara allusione al cosiddetto «socialismo reale», a mio avviso non comprende l’essenza del processo storico passato e presente. Invece di rivendicare la «vera democrazia», chi si batte per l’emancipazione degli individui dovrebbe lottare per il superamento della società divisa in classi, cosa che postula la rivoluzione sociale anticapitalistica.

Va da sé che gli ideologi delle classi dominanti non smettono di bollare come utopistica, e di denunciare come «foriera di folli e violente avventure rivoluzionarie», la tesi anticapitalistica appena svolta. Ma è il loro mestiere, devono farlo, e certo non sarò io a stigmatizzarne il legittimo impegno al servizio dello status quo.

Il mio impegno è un altro, questo: cercar di convincere le persone che la struttura classista della società in generale, e della società capitalistica in particolare non ha nulla di naturale, ma che essa è il prodotto di una genesi storica che chiunque è in grado di capire, se davvero ha interesse e desiderio di capirla.

All’obiezione, “classica”, secondo la quale l’esperienza del cosiddetto «socialismo reale» confuta la mia tesi, rispondo che 1) il mondo non ha ancora conosciuto nessun tipo di socialismo (soprattutto quello “reale”, che fu in realtà un Capitalismo di Stato), e che 2) la sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (che ebbe nello stalinismo la sua maligna fenomenologia) prova solo che la vittoria delle rivoluzioni non è assicurata in anticipo o decisa per decreto, umano o divino che sia. A mio avviso, questa tesi vale tanto più se si riflette sull’eccezionalità storica di quella esperienza: un proletariato socialmente assai minoritario si organizzò per qualche tempo in potere autonomo (sovietico, ossia basata sui soviet) in un Paese capitalisticamente molto arretrato. Di qui, l’estrema debolezza di quel potere, che si palesò in tutta la sua drammatica misura quando il proletariato occidentale rifluì su una posizione di attesa, e poi di rinuncia. Su questo aspetto rimando al mio studio sulla Rivoluzione d’Ottobre.

«La novità sconvolgente per un marxista critico è che la dimensione “rivoluzionaria” è passata dall’altra parte. È il capitale che viaggia con ritmi rivoluzionari, tali da determinare istantaneamente dei cambiamenti radicali. Chi sta dall’altra parte non può che praticare forme di gradualismo! Negli anni ’30 si poteva ancora scommettere sul crollo: dalla testa di Giove sarebbe scaturita la Minerva del nuovo ordine, senza danni evidenti, anzi, con grandi vantaggi per le masse. Ma oggi più che mai, nell’interdipendenza globale, con i processi di urbanizzazione così spinti, un crollo del capitalismo non lascerebbe sopravvivere alle proprie macerie quasi nulla. Non solo perché non c’è un modello alternativo di società; ma perché questa società è così implicata coi suoi meccanismi, dai quali siamo diventati così dipendenti, che non saremmo in grado di sopravvivere senza» (La crisi del capitalismo e la mancanza di alternative, Il Corsaro, 23 febbraio 2012). Così scriveva Marco Revelli due anni fa, quando sulla scia del suo maestro Norberto Bobbio sceglieva di appoggiare, ovviamente in odio all’ex Cavaliere Nero di Arcore, il «male minore»: «Io oggi considero Monti il male minore». Evidente l’ex Premier col loden era chiamato a svolgere una funzione katéchontica in vista di tempi più propizi alla nota Palingenesi sociale. Come diceva Kant, il caos è peggiore persino di un ordine cattivo. Faccio dell’ironia, è chiaro.

Dopo aver sostenuto per decenni, magari con qualche “riserva critica”, lo stalinismo in tutte le sue versioni nazionali (dal titoismo al maoismo, dall’oxhismo al castrismo); dopo aver cianciato per decenni di terze e quarte vie tutte rigorosamente di stampo statalista, oggi i “marxisti critici” scoprono che alle viste «non c’è un modello alternativo di società»; non solo, ma hanno capito, a beneficio dell’intera umanità (soprattutto a beneficio dei lavoratori, si capisce), «che non saremmo in grado di sopravvivere senza questa società». Personalmente ricuso di concedere anche un solo atomo di credibilità a personaggi di tal fatta.

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