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La politica è uno specialismo. Però…

Aldo Giannuli

20101007cSo di toccare un tema delicato che fa scattare molte suscettibilità, ma, tanto vale, dirla subito con franchezza: chi sogna una politica senza intermediazioni, praticabile immediatamente da tutti, è completamente fuori strada, perché la politica è inevitabilmente uno specialismo, come l’economia, la medicina, l’architettura o la matematica.  Mi dispiace ma è così.

Questo non significa che ci si debba mettere, ad occhi chiusi, nelle mani dei politici di professione o degli “esperti”, perché politici e tecnici sono tutt’altro che gente disinteressata di cui ci si possa fidare. E, peraltro, ognuno ha diritto di intervenire su decisioni che incidono sulla sua vita e sulla vita dei suoi figli. Il problema è come fare. Procediamo con ordine.

In primo luogo: perché la politica è uno specialismo ed in che senso lo è?

La politica non è fatta di pochi atti, come ad esempio fare sette leggi all’anno o decidere una volta per tutto come si spende il denaro dello Stato e come si alimentano le casse dello Stato. E’ fatta di decine di decisioni ogni giorno. Per limitarci alla sfera nazionale (senza tener conto degli enti locali) in un anno, il Parlamento approva mediamente 200 leggi, ma accanto ad esse ci sono le disposizioni ministeriali che ne guidano l’applicazione (regolamenti, circolari ecc.), inoltre ci sono gli atti di politica estera, le commissioni di inchiesta e di indagine, gli atti di controllo ecc.

Certo: molte leggi sono inutili e potrebbero essere eliminate, ma questo non farebbe che spostare la decisione dal momento legislativo a quello amministrativo, per cui la situazione non cambierebbe di molto e, comunque, resterebbe sempre un numero consistente di decisioni da prendere ogni giorno. Infine, solo una parte delle leggi è fatta di pochi articoli (sono le cd leggi di interesse micro settoriale o personale), mentre una parte non piccola è fatta di diversi articoli suddivisi in paragrafi e, spesso, la discussione verte sulla proposta di emendamento di un singolo articolo o paragrafo ed è la conseguente votazione ad assorbire non poco tempo.

Tutto questo implica che si tratti di un lavoro a tempo pieno per parlamentari, ministri, sottosegretari e personale di supporto, e già questo dice che ci sono alcune migliaia di persone (qualche decina di migliaia se consideriamo anche i consigli regionali, sindaci ed assessori dei centri maggiori ecc.) che devono fare solo quel lavoro. La stragrande maggioranza delle persone non avrebbe il tempo anche solo di votare ogni giorno su tutte le questioni che si pongono, senza contare che, per decidere, occorrerebbe studiare il problema e discuterlo e che una singola legge può richiedere anche molte decine di votazioni articolo per articolo, emendamento per emendamento.

Dunque mettiamoci il cuore in pace: anche stando attaccati alla tastiera del pc per qualche ora al giorno, non sarebbe possibile partecipare a tutte le decisioni necessarie. Ma, qualcuno obietterà, ciascuno potrebbe seguire la materia che lo interessa, per cui, se a me importa l’università, seguirò tutte le decisioni che la riguardano, mentre un altro seguirà i lavori sulla politica agricola ed un terzo il fisco. In fondo, anche i parlamentari sono divisi in commissioni ed in aula vanno solo poche leggi di interesse generale.

Non cambierebbe lo stesso, perché, comunque ci sarebbe da assumere una quantità di decisioni tali da riempire abbondantemente lo spazio di una giornata e la gente deve lavorare e risolvere i suoi problemi quotidiani, per cui non sarebbe materialmente possibile seguire anche solo una parte della produzione legislativa, senza contare gli atti di politica non legislativa (politica estera, atti di controllo ecc.).

Si porrebbe poi un altro problema: la politica non è la sommatoria più o meno casuale di una serie di decisioni non correlate fra loro, occorre che, per quanto possibile, ci sia una coerenza di fondo nell’intera produzione legislativa, per ragioni economiche, culturali o anche propriamente politiche. Se abbiamo scelto un certo indirizzo di politica economica, ad esempio di contenimento della spesa, poi non possiamo produrre leggi di settore che, invece, incrementino la spesa e se la priorità è, ad esempio,  della scuola, occorre che poi altri settori stiano fermi. Ed è solo un esempio.

Indubbiamente, anche il Parlamento non è spesso in grado di assicurare questo grado di coerenza necessario, ma, infatti, anche per questo le cose vanno male.

Dunque occorre che un qualche soggetto assicuri questo quadro di insieme ed a più forte ragione questo problema si pone quanto più il centro decisionale si avvicina al popolo: è dimostrato per lunga esperienza che, quanto più il centro decisionale di spesa si avvicina all’elettorato,  tanto più aumenta la propensione alla spesa. E quanto più il centro decisionale si avvicina al popolo (o, se preferite, ai “cittadini”) tanto più aumentano le spinte divaricanti e, di conseguenza, la propensione all’entropia del sistema. E questo non perché il cittadino comune sia sprovvisto di buon senso e di razionalità, ma perché spesso non ha gli strumenti culturali necessari (come vedremo più avanti) e, soprattutto, perché il “popolo” non è una aggregazione organica ed omogenea. Il popolo è diviso per interessi (pare che quelli di un lavoratore, almeno in parte, non coincidano con quelli de suo datore di lavoro, che un commerciante la veda in modo diverso dal suo cliente, e così un debitore rispetto al creditore ecc.) per orientamenti culturali, politici, religiosi, per fasce di età e per sesso. Tutto questo dà luogo al doppio fenomeno dei gruppi di interesse (per classi, fasce generazionali, aree culturali, divisioni per sesso, aree geografiche ecc.) e delle “identità plurime” (per cui un cittadino sarà insieme maschio, lavoratore dipendente, cattolico  e giovane, un altro sarà sempre maschio e giovane ma lavoratore precario ed islamico, una terza persona sarà donna, atea, lavoratrice dipendente e di mezza età ed un altro armeno, gay e professionista e altre cose ancora e ciascuno risponderà con maggiore o minore sensibilità ad uno dei tratti della sua identità sociale, anche in base al proporsi di ogni singolo problema). Ovviamente, ciascun gruppo tende a “tirare l’acqua al suo mulino” e l’insieme della domanda politica difficilmente sarà compatibile ed ordinato. Occorre quindi che ci siano dei soggetti “aggregatori della domanda politica” che cerchino di ridurre le tendenze centrifughe, e questo è il ruolo degli intermediatori politici (partiti, sindacati, movimenti di interesse macro settoriale, associazioni) che, con spettro prospettico maggiore o minore, effettuano questo primo lavoro di aggregazione, da negoziare poi non altri soggetti analoghi nelle istituzioni. Non ci sono soluzioni alternative, o meglio, ci sono ma si tratta del fenomeno populista che si affida al leader carismatico (Peron, De Gaulle, Reagan ecc.) mettendo nelle sue mani il compito di risolvere ogni problema sociale, il che rappresenta il massimo della delega e, pertanto, il massimo di negazione della partecipazione democratica. Dunque, la presenza di corpi intermedi è ineliminabile in democrazia  sia che si tratti di democrazia diretta che di democrazia rappresentativa. E questo, a sua volta, individua un’altra specializzazione.

Infine, c’è un’altra ragione per cui la politica è uno specialismo a sé. In una società sviluppata, come la nostra, i problemi non possono che presentarsi in forma complessa ed i problemi complessi, per definizione, non hanno soluzioni semplici.

Facciamo un esempio: dobbiamo decidere quale politica tenere nei confronti degli immigrati e partiamo da un dilemma base: accoglierli o respingerli. Accoglierli significa assumersi un carico economico considerevole (almeno per un certo lasso di tempo), andare incontro a forti resistenze interne, gestire l’integrazione di persone delle più disparate provenienze geografiche e culturali, affrontare rischi di infiltrazioni terroristiche e malavitose ecc. Respingerli significa mettere comunque in conto spese considerevoli per gli apparati di respingimento, fare i conti con una cospicua fascia di clandestini che possono diventare area di reclutamento mafioso e possibili veicoli di malattie contagiose, peggiorare l’immagine del nostro paese in aree geografiche nelle quali si hanno interessi economici, privarsi di una forza lavoro indispensabile in alcuni settori, peggiorare lo stato di invecchiamento della popolazione. Probabilmente, prevarrà una soluzione intermedia, per cui si accoglierà una determinata quota di immigrati, cercando, in qualche modo, di integrarli, e, nello stesso tempo attrezzarsi per contenere i flussi. Ma una certa quota cosa significa? Quanti? Poi, dire una certa quota significa anche scegliere chi deve entrare ed in che proporzioni. Allora, scegliamo sulla base della vicinanza geografica? In questo caso è probabile che rendiamo meno facili arrivi clandestini, ma non è detto che questa sia una soluzione desiderabile su altri piani. Scegliamo sulla base dell’affinità culturale (ad es. particolari requisiti religiosi e linguistici)? Questo rischia di urtare profondamente gli altri e magari si tratta di paesi con i quali abbiamo un importante interscambio commerciale. Scegliamo sulla base delle caratteristiche professionali (tante badanti, tanti elettrotecnici, tanti operai con quella determinata specializzazione)? Potremmo trovarci di fronte a problemi di integrazione, di controllo dei flussi ecc.

Poi: favorire i ricongiungimenti familiari o no? Se li favoriamo la crescita del numero degli immigrati e stimoliamo altri a venire, ma se non lo facciamo alimentiamo il fenomeno delle rimesse all’estero, con conseguente esportazione di denaro fuori dai confini nazionali.

Come si vede ogni soluzione ha i suoi vantaggi e le sue controindicazioni e spesso si tratta di controindicazioni non immediatamente individuabili ma di natura controintuitiva. Bisogna cercare di “azzeccare” il cocktail giusto di misure che riduca gli effetti negativi ed amplifichi quelli positivi. Ma questo è tutt’altro che semplice perché, appunto, i problemi complessi non hanno soluzioni semplici.

Dunque, mettiamoci l’anima in pace anche in questo caso: l’onestà personale, il senso comune, la buona volontà sono belle cose, ma in politica servono a poco, esattamente come i rimedi tradizionali della nonna in un caso di cardiopatia gravemente scompensata.

E, dunque, piaccia o no, la politica è uno specialismo che richiede tempo, preparazione specifica e, spesso, sensibilità, intuito e coraggio che non tutti hanno.

So di aver rovinato la digestione a molti amici, soprattutto del M5s, e me ne dispiace, ma, per farmi perdonare, dico anche che ci sono molti contrappesi per evitare di delegare tutti ai politici, che spesso sono cricche di delinquenti comuni, e tecnici che spesso sono soprattutto esperti di come ricavare i massimi vantaggi per sé. I cittadini hanno comunque modo di pesare nelle scelte, come è giusto che sia. Ma di questo parleremo in un prossimo pezzo perché questo è già troppo lungo.

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