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micromega

Bruxelles: per un mea culpa dell’Occidente

di Marco Alloni

bruxelles 510Mi dispiace essere disfattista, ma parlare di “misure di sicurezza” per scongiurare futuri attentati terroristici in Europa equivale a suggerire di sorvegliare gli ingressi delle scuole per contrastare il traffico di droga internazionale. Una scemenza sia sul piano logico che su quello politico. Allo stesso modo temo che obbligare il dibattito all’attualità – con il risibile argomento che, essendo assediati, saremmo perciò stesso obbligati a misure d’urgenza – equivalga a presumere che le grandi psicopatologie che si manifestano in età adulta non abbiano origine in un’infanzia assai remota.

Agli analisti di queste ore, di proposte “usa-e-getta”, suggerisco dunque di tenere presente, oltre all’implicito insegnamento di Freud – secondo cui esiste un’infanzia anche simbolica dietro ogni sintomo del presente – quello di ogni elementare spirito analitico: il bubbone che sta esplodendo in Europa ha radici antiche. E solo comprendendolo nell’ampio raggio delle sue determinazioni pregresse e secolari è possibile sottoporlo a una qualche forma di cura. Ogni provvisoria e isterica terapia di tamponamento non leva linfa al suo perpetuo riprodursi e, soprattutto, al suo possibile estendersi. In altre parole, non si cura il terrorismo global-jihadista con le miserrime “misure di sicurezza” dalle parvenze di tamponi-cerotti apposti frettolosamente sul bubbone, ma interrogandosi sulle sue remote scaturigini.

Lavoro complesso, naturalmente, che il giornalismo e gli spazi esigui dell’analisi mediatica non hanno gli strumenti per garantire. Ma almeno qualche accenno è possibile farlo. E se dobbiamo restringere i margini della questione, ecco in sintesi alcune modeste riflessioni:

Primo: parlare di “aggressione all’Occidente” è quanto meno una falsa pista di analisi. Almeno da quattro secoli a questa parte, migliaia di esempi ci parlano di una politica estera occidentale che, dalla Pace di Karlowitz in poi, insemina il Medioriente dei migliori ingredienti per la formazione e la proliferazione del risentimento: dall’occupazione coloniale e poi neo-coloniale e neo-imperialista alla spoliazione sistematica dei suoi beni (petrolio in primis), all’imposizione di confini innaturali tra le sue terre, al sostegno e al foraggiamento di dittature in funzione dei nostri interessi geo-strategici, alla “balcanizzazione” deliberata del Medioriente come strategia di dissoluzione preventiva di ogni sua unità, al sostegno dello scontro interconfessionale (sciiti versus sunniti in primo luogo) e via elencando. Quindi non di “aggressione” si tratta ma a rigore di “rappresaglia”. Finché si produce la dubbia e malafidosa vulgata secondo la quale l’“odio per l’Occidente” non procede naturaliter dall’odio manifestato dall’Occidente negli ultimi quattro secoli nei confronti del mondo arabo, non si coglie nulla del famoso “perché” che sottende le pulsioni ideologiche jihadiste anti-occidentali.

Secondo: nello specifico di Isis (Daesh), è evidente ormai a tutti – ma non alla stampa e all’opinione pubblica occidentale – che si tratta, come per Al Qaeda, di un prodotto atlantico. Fino a quando si vorrà nascondere l’ovvietà che alleati strategici come la Turchia e l’Arabia Saudita hanno fornito, sotto copertura americana, armi, soldi e strumenti operativi al Califfato, si persevererà in una narrativa “innocentista” che non sta né in cielo né in terra. E finché una simile narrativa continuerà a tenere banco presso televisioni e giornali è del tutto evidente che nessuna soluzione “alla radice” sarà mai possibile: poiché una soluzione “alla radice” pressupone, oltre a un radicale mea culpa da parte dell’Occidente, un ripensamento autocritico di tutte le sue strategie destabilizzanti sul Medioriente. Le colonne di pick-up fiammanti di Isis e le file di cisterne cariche di petrolio pronte a essere smerciate via Turchia dai territori del Califfato sono solo due esempi macroscopici che raccontono una irrefutabile colpa dell’Occidente.

Terzo: l’intollerabile gioco prestidigitatorio linguistico e terminologico che chiama ogni offensiva, cioè ogni “aggressione”, occidentale come “missione umanitaria” o “esportazione della democrazia” e ogni afflato difensivo arabo-islamico come “terrorismo” è all’origine stessa della guerra. Se dimentichiamo che dalla Libia all’Afghanistan, passando per l’Iraq, decine se non centinaia di migliaia di innocenti hanno trovato la morte per bombe atlantiche, dimentichiamo che nessuna fra quelle vittime, nessuno dei famigliari di quelle vittime, avrebbe potuto in nessun modo rubricare come “missione umanitaria” la morte che si è scaraventata dal cielo sopra le loro teste. Dunque, anche in questo caso, sospendiamo l’innocentismo e domandiamoci: non è del tutto consequenziale odiare chi ti massacra indiscriminatamente o, una volta accolto (si fa per dire) in Occidente, ti odia come outsider individuale esattamente come ti odiava come outsider statuale prima?

Quarto: l’apriorismo sterile dei difensori dei cosiddetti “valori fondanti occidentali” (quali?) vorrebbe indifendibile qualunque cosiddetto “dittatore” mediorientale impegnato a garantire, in condizioni proibitive, la stabilità del proprio paese. Ma questo perbenismo da salotto dimentica quanto meno i due scenari che con maggiore eloquenza sconfessano il principio dell’applicazione à tout prix della democrazia in Medioriente: la Libia e l’Iraq. Caduti Saddam e Gheddafi i due paesi sono finiti in mano a fazioni antagonistiche e a jihadisti di ogni risma. Pure, di fronte all’evidenza che un determinato contesto storico e politico impone quanto meno prudenza, ecco che oggi si reclama la caduta di El-Sisi in Egitto. La miopia occidentale è pari solo, quando va bene, al suo deliberato piano di dissoluzione della stabilità in Medioriente. Fate cadere El-Sisi, riportate al potere gli islamisti della Fratellanza musulmana, e poi non lamentatevi se il global-jihadismo si moltiplicherà, come per magia, per cento e per mille sotto i balconi delle vostre case.

Quinto: la solidarietà nei confronti delle vittime occidentali non corrisponde in nulla a una percezione storica delle vittime “umane” globali in quanto tali. Se in Medioriente si dovesse issare a mezz’asta la bandiera nazionale di questo o quel paese dilaniato dalle bombe atlantiche, farebbero prima, i costruttori di bandiere di quegli Stati, a fabbricarle già dimezzate. Nulla di incomprensibile, ovviamente, nel cordoglio verso gli innocenti. Ma una domanda non va elusa: esiste una sensibilità globale o la sensibilità procede a corrente alternata e quando non è occidentale semplicemente non è? È tempo che l’Occidente meno prono alle strategie dei guerrafondai dell’Impero si accorga che una bandiera palestinese, irachena, afghana o siriana nei profili Facebook avrebbe suggerito al mondo arabo una solidarietà reale e non solo unilaterale. L’indifferenza ai loro morti è un altro bel mucchio di polvere da sparo nello spirito del risentimento.

Sesto: supporre che si possa odiare l’Occidente perché così è scritto nel Corano è il fenomeno più palese dell’imbecillizzazione delle coscienze indotto dai media. E qui non aggiungo altro: mi chiedo solo perché l’idiozia possa attecchire tra le masse in dosi così inverosimili.

Settimo: se è il sistema capitalistico-mercantile a determinare la logica e la necessità della sopraffazione dei deboli in nome e in funzione dei propri disegni di benessere – come io sospetto – sarebbe ora che si avviasse un dibattito sulle ragioni “marxiste” del terrorismo internazionale. E anche in questo caso, non aggiungo altro: il tema è troppo complesso e richiederebbe, di nuovo, una domanda radicale: perché il più estremista dei paesi islamici, l’Arabia Saudita, non odia l’Occidente? Forse che il wahabismo chiude un occhio di fronte agli interessi economici? O non è piuttosto la logica del capitalismo monoteistico occidentale ad aver fatto chiudere entrambi gli occhi a chiunque, musulmani compresi, vi si acclimati?

Fatti questi brevissimi accenni, torniamo allora alla domanda inziale: come parlare di “misure di sicurezza” laddove sono ormai richieste vere e proprie rivoluzioni di ogni precedente politica internazionale occidentale nei confronti del Medioriente e quindi anche dei suoi migranti senza orizzonte? Come sperare che con qualche misura-tampone si possa prevenire futuri attentati sul suolo europeo? E come accogliere senza un sorriso di compatimento quanti affermerebbero che la “prevenzione” andrebbe fatta nelle moschee europee? Stiamo parlando sul serio? Ma questi sono epifenomeni del tutto trascurabili. L’unica strada – se mai esiste un desiderio di pace planetaria, cosa di cui dubito fortemente – per scongiurare la moltiplicazione degli atti terroristici è quella di riconsiderare alla radice le nostre politiche occidentali verso il Medioriente. Altre vie non servono. L’unica direzione da intraprendere è, partendo da un responsabile mea culpa e da un coerente spirito autocritico, quella di ribaltare gli assunti: non più il Medioriente da sfruttare e umiliare, ma il Medioriente da aiutare. Solo questo può scardinare alla radice il futuro Orrore che abbiamo sconsideratamente favorito e determinato alle porte del Mediterraneo e dentro le nostre stesse città.

Alzate pure muri e presidiate i tombini delle vostre amate capitali. La morte non cesserà, anzi, aumenterà esponenzialmente. Finché il mondo arabo-islamico si sentirà umiliato, deriso, sfruttato, maltrattato, spoliato e massacrato di bombe dall’Occidente, ogni soluzione securitaria è pura cosmesi.

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