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La “variante populista” che fa discutere

di Carlo Formenti

Carlo Formenti – autore del recente libro "La variante populista" – replica alla critica di Cristina Morini apparsa su Alfabeta2

renzistattacasaLa “requisitoria” di Cristina Morini nei confronti di “La variante populista” apparsa su Alfabeta2  impone una replica. Sarò sintetico, limitandomi a esaminare le critiche che giudico palesemente infondate e a ribadire i motivi di dissenso nei confronti del paradigma teorico cui Cristina si ispira. In particolare, affronterò i seguenti temi: evoluzione della stratificazione del lavoro in relazione alle mutazioni del modo di produzione; composizione politica; Gramsci e il populismo; rifiuto delle posizioni “neofrontiste” assunte da parte delle sinistre radicali e antagoniste nei confronti del populismo di destra.

Cristina mi riconosce di essere stato (quando ero ancora “buono”?) fra i primi ad analizzare l’evoluzione delle forme del dominio capitalistico, e della resistenza a tali forme, associate alla rivoluzione digitale. Dopodiché mi rimprovera di essere regredito a una visione “lavorista”, dimenticando tutto quanto avevo teorizzato da La fine del valore d’uso a Cybersoviet. Incasso il riconoscimento anche se associato, come altri che lo hanno preceduto, a un fraintendimento: fin dai tempi di Incantati dalla Rete avevo infatti espresso il mio dissenso nei confronti della tesi sul presunto ruolo rivoluzionario “immanente” al general intellect. In merito a tale tema (e in particolare alle tesi di Negri e Gorz sulla presunta autonomizzazione del lavoro vivo dal capitale) rinvio a quanto scritto nel mio libro e alle opere di Dardot e Laval che, a mio parere, hanno avanzato argomenti definitivi sull’argomento.

Veniamo, invece, all’analisi concreta dei mutamenti nella stratificazione di classe. Su questo punto è vero che ho cambiato posizione, e questo perché è cambiata la realtà. In particolare, è cambiato il conflitto tra stati superiori e inferiori – conflitto che Cristina articola in termini di conflitto di genere, identificando con le donne gli “strati emergenti”, cui attribuisce il tentativo di operare una “contaminazione tra saperi alti e bassi”. Rispetto a quindici/vent’anni fa, una quota minoritaria è “emersa”, ed è stata pienamente integrata nello strato superiore che gestisce assieme al management la governance dei processi produttivi, mentre la maggioranza è sprofondata nella proletarizzazione: mansioni taylorizzate, salari da fame, precarietà travestita da lavoro autonomo, ecc. Dunque la contaminazione alto/basso è fallita, così come si sono esaurite “le tensioni fra nuovi processi di fragilizzazione e nuovi margini di creatività e autonomia” (Cristina ricorda che tempo fa riconoscevo l’esistenza di tensioni non ancora risolte fra i due processi: vero, ma oggi si sono ampiamente risolte nel senso della fragilizzazione).

Del resto, è la stessa Cristina a riconoscere la spaccatura interna allo strato sociale cui fa riferimento il suo progetto politico:

“Mi rendo conto, – scrive, – che lo smantellamento ulteriore dei diritti di cittadinanza (welfare, reddito, equità sociale) dentro la crisi infinita e l’infinita austerity europea, a colpi di Jobs Act e Loi Travail, rende la mia attuale precarietà meno aspra rispetto a quella delle generazioni dei precari dell’economia della conoscenza e non solo, anche maschi, che si sono velocemente succedute, le quali non hanno più accesso a forme di inclusione e sono costrette a spendere giovinezza ed energie – tra povertà materiale e ricchezza del lavoro e del sapere vivo – al servizio della cultura della start up, un mito che ha il potere di rovinarti la vita”.

Tuttavia chi milita nel suo campo non si è mai seriamente posto il problema di come unificare sul piano politico non solo questi strati interni a quella che era e resta una minoranza della forza lavoro globale (anche se i postoperaisti si affannano ad arruolare nelle schiere dei lavoratori della conoscenza operai cinesi, facchini della logistica, badanti, campesindios e quant’altro), ma anche e soprattutto le larghe masse che vivono e lavorano al di sotto di tale strato. O meglio, il problema se lo pongono, ma non come problema “politico ed esistenziale” bensì, cito, come problema “esistenziale e dunque politico”. Nel paradigma biopolitico e nel concetto di moltitudine come coacervo di singolarità (su cui tornerò più avanti) non c’è spazio per un’unificazione che non parta da processi di soggettivazione orizzontali, individuali, mentre l’unificazione fra soggetti collettivi politicamente organizzati è esclusa in quanto autoritaria, verticistica, ecc. Di qui la lotta “contro le corporazioni disciplinari del lavoro”, una lotta che – vale la pena di ricordare – ha visto i teorici del lavoro autonomo di seconda generazione assumere posizioni esplicitamente antisindacali, schierandosi di fatto a sostegno del processo di smantellamento del welfare e dei diritti di cittadinanza di cui sopra (e guadagnandosi, non a caso, il plauso di Dario Di Vico, punta di lancia della crociata del Corriere della Sera contro le organizzazioni dei lavoratori). Il tutto si giustifica (e qui Cristina ha un bel dire che il postoperaismo non è riconducibile a un paradigma unico) in base alla tesi che, siccome il capitalismo è oggi potenza che organizza la vita stessa (ma lo ha sempre fatto, anche se in forme storicamente diverse!), la ricchezza è ormai inseparabile dalla vita stessa, e la transizione a una società postcapitalista si presenta come un processo tutto soggettivo di riappropriazione dell’esistenza (vedi sopra).

È per avere criticato queste tesi che mi becco le accuse di essere un “feticista del lavoro produttivo”; di avere dimenticato il mio contributo all’analisi dei processi di terziarizzazione per approdare all’esaltazione del lavoro manuale (nelle mie pagine risuonerebbe un “clangore di acciaio”); di esaltare il terziario arretrato “alla ricerca spasmodica di un soggetto centrale delle lotte”; di riproporre una anacronistica divisione fra lavoro manuale e intellettuale, materiale e immateriale. E qui si rasenta la mala fede (anche se preferisco pensare a un eccesso di vis polemica). In quasi trent’anni di produzione teorica non mi sono infatti mai scostato dalla definizione di lavoro produttivo che Marx ci ha consegnato nel Capitolo VI inedito del Capitale: a mano a mano che tutte le mansioni lavorative vengono integrate nel processo di cooperazione organizzato dal capitale, tutti coloro che le svolgono divengono lavoratori produttivi a prescindere dal compito svolto. Quanto alla terziarizzazione (che è tutt’altro problema rispetto al lavoro produttivo o improduttivo) ciò che critico è l’assolutizzazione del concetto, cioè la sua impropria estensione priva di ogni riferimento alla realtà empirica (dalla morte di Romano Alquati la ricerca sul campo latita nel campo postoperaista!). Così come critico il concetto di capitale e lavoro “immateriali” (si parli piuttosto di capitale e lavoro digitali, l’immateriale lasciamolo ai preti). Questo vuol dire che cerco salvezza nei lucidi muscoli dei monumenti all’operaio sovietico, o nella miseria dei lavoratori della logistica e degli altri settori del terziario arretrato? No, ciò che cerco è la composizione politica di classe, vale a dire l’analisi empirica di chi lotta realmente contro lo sfruttamento, e di quali sono oggi le modalità più avanzate e radicali di lotta, perché è da lì che ogni progetto anticapitalista deve obbligatoriamente prendere le mosse. Non si tratta dunque di costruzione “naturalistica” di un’avanguardia, bensì della capacità (Lenin docet) di fare analisi concreta della situazione concreta, di cogliere il processo sempre mutabile e contingente della formazione di coscienze (collettive, non individuali!) antagoniste.

Veniamo al populismo. Anche qui non mancano le mistificazioni. Vengo presentano come un fan delle tesi di Laclau e Mouffe, quindi è bene puntualizzare. Al dibattito teorico sul populismo come forma della lotta di classe il libro dedica ampio spazio, analizzando altri approcci teorici oltre a quello di Laclau. Ciò detto, è vero che considero le teorie di Laclau più utili (in quanto più aderenti alla realtà concreta delle lotte contro il neoliberismo) della categoria postoperaista di moltitudine, perché descrivono un processo di aggregazione di soggetti collettivi e non di astratte individualità. Dopodiché avanzo una serie di critiche radicali alle sue tesi, reinterpretandole alla luce delle categorie gramsciane di blocco sociale, farsi stato e farsi partito delle classi subordinate, guerra di posizione, ecc. Sospetto che sia soprattutto questo a infastidire, visto che le sinistre occidentali hanno rimosso Gramsci (recuperandone tardivamente la versione edulcorata che ne offrono i cultural studies) in quanto sospetto di proporre un impianto “verticale/gerarchico” della lotta di classe. Il punto sta proprio qui: non credo esista la dicotomia secca fra orizzontalismo e verticalismo da cui muove il punto di vista postoperaista. Personalmente mi sono sempre ispirato alla tradizione del comunismo consigliare, senza rimuovere, tuttavia, la necessità di un momento di verticalizzazione politica, in assenza del quale ogni movimento è votato alla sconfitta. Verticalizzazione che non identifico con il ruolo del leader (altra critica palesemente falsa) ma con un processo di aggregazione confederativa di soggetti politicamente organizzati che esprimono una direzione politica unitaria (non “unica e uniforme”, come scrive Cristina), che è poi il modello boliviano teorizzato da Linera (per inciso: che le esperienze sudamericane vengano liquidate come inattuali e “arretrate” mi sembra tipico di una arrogante visione eurocentrica).

Veniamo al tema squisitamente politico. Il punto è: se il populismo è la forma che assume la lotta di classe nella nostra epoca – sia esso di destra o di sinistra: esistono anche le rivoluzioni passive! – allora qualsiasi reazione neofrontista (un’anticaglia ideologica da anni Trenta!) manca il bersaglio. Peggio: compie un passo ulteriore verso l’integrazione delle sinistre nel blocco di potere liberista che denuncio nel secondo capitolo del libro. Un errore tragico, che ha visto disperdere le energie del movimento che aveva sostenuto Sanders invitate a votare per la campionessa del capitale globale Hillary Clinton, che induce la femminista Rosi Braidotti ad arruolarsi nel fronte renziano del sì, che spinge le sinistre radicali europee a difendere l’oligarchia di Bruxelles contro i movimenti anti Ue e a guardare con disprezzo alle “plebi” inglesi che hanno votato per la Brexit, ecc. Il tutto in nome della difesa della democrazia contro il pericolo fascista. Ma quale democrazia!? (perché Cristina sorvola sull’analisi del regime oligarchico e postdemocratico contenuta nel libro?). E ancora: come si fa a indentificare gli attuali populismi di destra con il fascismo di novecentesca memoria? È nel campo populista che i comunisti (non le sinistre, di cui non mi potrebbe importare di meno) si giocano oggi le chance di contendere l’egemonia ai vari Trump, Le Pen e soci. Perché, come ha lucidamente detto il direttore del Wall Street Journal (portavoce delle “vere” élite, non dei fantocci Clinton e Trump) “la lotta politica sarà sempre meno fra progressisti e conservatori e sempre più fra globalisti e populisti”. Chi milita nel campo populista per contenderne l’egemonia alle destre può perdere, chi si arruola nel campo globalista in nome della democrazia ha già perso.

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