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Mentre l’Italia è alla deriva in Germania si pensa alla deglobalizzazione

nique la police

In Germania iniziano a veicolare analisi circa la prossima fine del loro modello di esportazione che ha vinto la globalizzazione. In Italia invece si continua a parlare delle dichiarazioni del politico di turno e di soluzioni autoreferenziali 

prussianiNello stesso periodo in cui le immagini del Barnum Italia scorrono vivacemente, in Germania si comincia a pensare a quella che viene chiamata deglobalizzazione.

Ma prima qualche fermo immagine su, appunto, il Barnum Italia: dopo il 4 dicembre nessuna delle fazioni in campo ha una soluzione per cambiare il paese. Il blocco che ha appoggiato il clan renziano al referendum -un qualcosa cementato dai media generalisti che è composto dal sindacato come da confindustria, le  grandi coop, l’asfittica finanza tricolore e ciò che resta delle banche- è disorientato dal caos attuale proprio perchè rappresenta degli interessi concreti non delle opinioni in libertà.  Quando poi il blocco protagonista del No, i giovani sotto i 30 anni, all’indomani del voto viene semplicemente ignorato nei commenti da tutti gli attori in campo, il segnale è chiaro. Questa non è crisi della rappresentanza politica, o una mutazione dei soggetti del politico, è l’apogeo dell’autoreferenzialità dei cartelli elettorali.

Del resto, la cosidetta politica istituzionale, è pura, per quanto sgangherata lotta per il potere. Ed è un potere sempre meno  efficace, viste le mutazioni della società. Per questo tutti i cartelli elettorali in campo, al netto delle lotte interne, convergono verso una soluzione: cercare di azzeccare la combinazione di legge elettorale che ottimizzi, al meglio, il potere disponibile. La classica risposta del ripiego su sè stessi di fronte alle grandi mutazioni. Una specialità molto italiana, in politica, da oltre tre decenni. Lo stesso Renzi adesso non appoggia più di tanto una linea di rappresentanza di interessi. Al momento Renzi, dopo lo spettacolo delle dimissioni a mezzanotte, di interessi rappresenta solo i propri, quelli della pura lotta per la sopravvivenza politica. Certo, se guardiamo ai classici della politica che, come Weber, che pensavano che la lotta per la sopravvivenza fosse un prerequisito per la potenza politica, anche per loro questo non è periodo di certezze. Renzi, come i suoi competitor, lotta per la sopravvivenza per assicurarsi non la potenza ma la presenza politica, ristretta rendita di influenza e di ricchezza nonchè di forte esposizione mediatica. La potenza la politica l’ha persa da tempo, tra lobby, processi di governance, economia della finanza e processi di sovradeterminazione globale del politico. Ecco così che il gesticolare da guappo da discoteca di provincia, che caratterizza Renzi ad ogni apparizione alla direzione Pd e che sembra far parte del suo processo di formazione, non è una interpretazione minimalista di un potere reale. Ma l’interpretazione reale di un potere minimalista, che tanto più si fa immagine tanto più risulta, in questo caso per fortuna, privo di quella sostanza che rende il potere politico esercitabile e temibile: quella capacità di far valere le proprie ragioni, incondizionatamente e senza veri vincoli.

Certo, se Renzi è questo, una maschera vernacolare destinata a rimanere incompiuto potere politico, non è che dalle parti del movimento 5 stelle si stia meglio. L’intervista di Di Battista a Die Welt, testata che vedeva già il M5S come i monaci benedettini vedevano il giaciglio di Satana, è un capolavoro di autoaffondamento del proprio tentativo accreditamento all’estero. Di Battista, di fronte ad un giornale attrezzato e molto sensibile alle posizioni di Weidmann (presidente della Bundesbank), nel migliore dei casi non ha affatto passato la prova. Infatti, riesce  a dire che un governo 5 stelle, il cui programma da lui delineato sembra più una portata di piatti scelta da un menu che qualcosa di politico, farà quello che per la Germania, e metà dei mercati finanziari mondiali, è la bomba fine di mondo, altro che i plebisciti mancati di Renzi: un referendum sull’euro. Sicuramente Di Battista se voleva alimentare tutte le paure emerse sulla stampa tedesca, e non solo, riguardo al  M5S  c’è riuscito brillantemente. Tra l’altro è un’ipotesi devastante, uno scenario che sottoporrebbe il paese ad un triplo, fatale stress: quello derivato dall’incertezza di andare al governo con un programma politico inapplicabile perché in attesa di un referendum la cui portata investirebbe l’eurozona e il terzo mercato obbligazionario al mondo (l’Italia), con vere, potenziali catastrofi economiche e finanziarie globali nello spazio questa incertezza; quello di progettare un referendum incostituzionale secondo le norme della costituzione appena difesa, proprio dai pentastellati, via referendum, alimentando una vertigine di veti, ostruzionismi, proteste e ricorsi; quello di dare vita a politiche economiche con l’euro in attesa, spasmodica, del referendum sulla moneta unica, praticamente il contrario dei requisiti politici di stabilità necessari per progettare e costruire l’uscita economica dal declino di un paese qualsiasi sia la strada da intraprendere. Da non credere, se non fosse tutto vero.

Del resto l’ultimo pentastellato che si è addentrato in questi temi è l’ex membro del direttorio ed ex responsabile economia M5s Carlo Sibilia, quello che ha twittato sull’inesistenza dello sbarco dell’uomo sulla luna, autore di una  proposta di legge sul matrimonio di gruppo o tra specie diverse. Sibilia ha sostenuto pubblicamente di voler uscire dall’euro ma, beninteso, con i bond del debito pubblico europeo, quindi anche italiano, pagati dai tedeschi. Chissà se a Berlino ha prevalso più il riso o l’urlo di Munch. Di sicuro, l’intervista di Di Battista non ha migliorato la situazione. Tra Renzi e il movimento 5 stelle, se la qualità del confronto politico rimane questa, è evidente che l’Italia è alla deriva. E, senza misure politiche innovative, la sentenza è già scritta dai mancati investimenti nei settori strategici (infrastutture, tecnologie, sapere) che latitano da lustri nel nostro paese.

Certo, i tedeschi ancora oggi si rifiutano di capire, cosa che magari è meglio che imparino presto, che nella politica italiana niente va preso alla lettera e, tantomeno, sul serio. Eppure l’esempio di Tsipras,  che ha cavalcato un referendum anti-Merkel per poi consegnare la testa dei greci alla stessa cancelliera in meno di una settimana dal voto, dovrebbe insegnare loro definitivamente qualcosa anche sulla politica italiana. Ma è anche vero che le dimensioni dell’Italia non sono quelli della Grecia. L’ordigno in mano agli Stranamore pardon, i Sibilia di turno, che si annidano allegramente anche tra i renziani, sarebbe eventualmente più grosso. Che ci pensino tutti e resettino tutto prima di danni irreparabili. L’Italia è un paese alla deriva, non è la prima volta, magari arriva quel sussulto del naufrago che cerca di ritrovare una rotta che sia una. Ma intanto, è deriva conclamata.

Bene, proprio con Die Welt veniamo al mondo reale. Quello che si muove e determina trasformazioni potenti che cambiano le nostre vite, come è puntualmente accaduto dalla caduta del Muro fino ad oggi. Certo il mondo reale non è quella familiare, calda bolla di imitazione di mondo fatta di chiacchiere, indiscrezioni di stampa, leggi elettorali da riscrivere ad ogni occasione, di personaggi bizzarri che, in ogni schieramento, cercano di risolvere una crisi pluridecennale con qualche battuta di repertorio.

Die Welt, giornale sponda Weidmann e in area (seppur critica) Merkel, non molte settimane fa ha prodotto una inchiesta su un quarto di secolo di globalizzazione economica, nella prossimità dell’anniversario dalla firma del trattato di Maastricht (nel febbraio 1992 cadono i primi 25 anni). Tra l’altro, in quell’occasione, c’era un articolo  avrebbe dovuto essere trattato con minor indifferenza in Italia. Quello che ha recitato, testuale “noi [la Germania, non l’Ue o l’eurozona, ndr], siamo dalla parte dei vincenti della globalizzazione”. Un’affermazione, quella si, di potenza che celebrava, dal punto di vista dell’analisi non quello delle cerimonie, la capacità della Repubblica federale di entrare pienamente nei processi economici globali apertisi proprio dopo la caduta del muro. Un’economia innovativa, export-oriented, un sistema bancario e finanziario a supporto di questa economia in tutto il mondo, ben integrato nel Gotha della finanza globale (titoli tossici compresi), una riforma dello stato sociale adatta a queste mutazioni, un complesso statuale, amministrativo, universitario in grado di supportare con intelligenza, ed efficienza, decisioni politiche e supporto alle imprese. Del resto la capacità della Germania, subito dopo il crack di Lehman Brothers, di saper orientare l’export in Cina e in tutti gli allora paesi Brics, tanto da far pesare questi paesi più dell’export verso l’Ue, può esercitarsi solo se un paese ha una infrastruttura sistemica flessibile, intelligente e veloce. Certo, niente, in politica ed in economia, non ha delle controindicazioni e degli angoli ciechi, ma questo è scontato. Come, purtroppo, i milioni di lavori precari che ha prodotto, nel ridefinirsi dello stato sociale tedesco, questo modello.

Il punto vero è che, proprio in chi si vede dal lato vincente della globalizzazione, le analisi cominciano a cambiare. E non è poco. Sulla stessa Die Welt esce infatti un’analisi che da noi stenterebbe a decollare. Non solo perché la politica oggi da noi  è pensare a breve ma, anche, per una visione sacrale della globalizzazione che ci caratterizza, specie a sinistra. La globalizzazione è vista come elemento doloroso ma inevitabile ma anche, ad un certo punto, dopo una certa soglia di dolore, portatrice di nuovi diritti sostanziali e materiali. Solo che nel punto più alto dell’Europa la si comincia a pensare in un altro modo. Insomma, proprio nel solco del dibattito, aperto da Die Welt sulla globalizzazione, esce un articolo di Holger Zschäpitz, redattore senior delle pagine economiche dello stesso giornale, che fa una riflessione diversa. Cominciando proprio sul successo tedesco nella mondializzazione economica. In sostanza  Zschäpitz conferma la riuscita del modello tedesco nella globalizzazione dell’ultimo quarto di secolo, quello riassumibile con il mantra “vendere merci tedesche tramite l’intermediazione finanziaria tedesca”, però sostiene le tesi di una analisi di Commerzbank sulla futura insostenibilità di questo modello. Non a caso nell’articolo di Zschäpitz si trovano, con chiarezza, queste parole: “la Germania deve reinvertarsi”. Infatti, seguendo l’analisi di Commerzbank, i paesi verso i quali la Germania esporta sono destinati a declinare. Stavolta, secondo questa lettura, sta diventando sempre più difficile appoggiarsi a paesi come la Cina per compensare le perdite di export dovute alle crisi. L’Europa, sempre secondo Commerzbank, è stagnante e gli stessi paesi, come i Brics, che hanno supportato l’export tedesco sono visti come frenati o, addirittura, verso una “drastica contrazione” economica. Ecco quindi, riprendendo poi le analisi di Deutsche Bank, che Zschäpitz arriva al concetto di deglobalizzazione. Vista come un processo economicamente ineluttabile, dove l’export ha un ruolo minore che nel passato, che riduce la presenza di un’altra stella polare dell’economia e della politica tedesca: la gestione dei surplus commerciali (il surplus commerciale tedesco rappresenta l’80% di quello dell’eurozona. Il suo sostanziale mancato reinvestimento, secondo diversi analisti è funzionale ad un euro più basso quindi favorevole a nuovo export. Inoltre deprime l’economia continentale).  Zschäpitz, in una analisi puntuale dei rapporti commerciali tedeschi con Francia, Gran Bretagna, Olanda, e prendendo nota del recente deficit commerciale con la Cina, pubblica un grafico di Commerzbank dal titolo eloquente, messo proprio alla testa di questo grafico: “E’ finito il tempo della crescita dell’export”.

esportazioni

Come si vede dall’andamento storico presupposto dal grafico, nonostante Lehman Brothers, che aveva coinvolto tanta finanza tedesca oltre che provocare uno choc economico globale, i volumi di export tedeschi, negli ultimi anni, sono comunque cresciuti. Ma, allo stesso tempo, si sostiene che questi volumi siano oggi al capolinea. Problema primario in un paese, la Germania, dove il modello economico, dominante a livello continentale, è orientato all’esportazione. Per rendere questa analisi più incisiva  Zschäpitz pubblica un secondo grafico prendendolo stavolta da Deutsche Bank. Qui l’analisi non è centrata sull’ultimo quindicennio ma sui cicli storici. Il grafico sotto è eloquente prima di tutto nel titolo che lo presenta parlando di assenza di regolarità storica nella globalizzazione. E giù l’incidenza degli scambi globali nella determinazione del pil mondiale, rappresentata graficamente epoca per epoca.

globalizzazione

Come si vede quello che preoccupa (grosso modo sia Commerzbank che Deustche Bank che Die Welt) è la contrazione recente, dal punto di vista storico, della quota di commercio mondiale nella determinazione del Pil globale.  Quota di commercio mondiale che, seguendo le tendenze del grafico, potrebbe anche tornare al livello del 1995. Insomma un ventennio di “Europa” per tornare al punto di partenza. In un paese come la Germania che, dal dopoguerra, si è dato un modello di crescita orientato all’export, se l’analisi è centrata, la questione si fa molto seria. Vuol dire che si allentano, sul serio, le condizioni globali che rendono ricco questo modello economico. E che, come afferma  Zschäpitz, la Germania deve reinventarsi. Con processi che, ovviamente, avrebbero una forte ricaduta sul nostro paese. Certo, occasioni per investire il forte surplus tedesco, magari con ricaduta positiva sul resto dell’Europa, ci sarebbero.

Dal 2008 al 2015 gli investimenti in Germania, per inseguire il modello export-oriented,  sono calati di quasi cento miliardi l’anno. Certo, l’Italia, se parliamo di mondo reale, ha fatto ben peggio, infatti è in declino. Dal 2010, e qui si vede cosa vuol dire ristrutturare lo stato sociale e il mercato del lavoro, proprio l’incidenza della spesa delle famiglie tedesche in proporzione al reddito nazionale è precipitata di cinque punti percentuali. E il governo tedesco, investendo nel surplus commerciale degli anni passati, potrebbe rinnovare migliaia di strade o ponti e finanziare lo smantellamento di quasi 20 centrali nucleari. In fondo, se la vediamo in questo modo, la deglobalizzazione potrebbe anche essere positiva per il continente, rilanciandolo attorno a un boom del mercato interno tedesco su tutti questi piani. Solo che, fino ad adesso, l’unificazione europea e la moneta unica sono state esattamente il contrario di un processo di unificazione: per proteggere la propria quota di export, il  comportamento, tedesco ma anche francese, ricordava la guerra di dazi degli anni 30: allora ogni governo cercava di reagire alle difficoltà proteggendo i propri produttori, senza capire che così collettivamente tutti insieme distruggevano l’economia globale e i propri stessi Paesi. Con il processo che ha prodotto l’euro, e nel periodo successivo, invece, si è aperta una guerra silenziosa in Europa dal quale è uscito egemone un modello tedesco export-oriented che ha depresso economicamente il continente e non ha invertito, come abbiamo visto, la curva di depressione degli ricchezza prodotta dagli scambi mondiali entro il Pil globale.

Il fatto che la Germania entri in una fase politica che tiene conto di una deglobalizzazione magari invertendo i processi di feroce competività, e gli squilibri, all’interno del continente è tutto da dimostrare. Ad oggi sarebbe solo una petizione di principio visto come è  strutturalmente fatta l’Europa: per penalizzare le politiche di mercato interno (sul quale comunque la Germania è cresciuta nel 2015), contrarre il welfare state come occasione di crescita, deprimere i salari, contenere al minimo i redditi di cittadinanza.

Comunque, se il sistema politico tedesco finisse per fare completamente proprie queste analisi -che ognimodo non emergono da settori secondari dell’opinione pubblica e delle banche- nel continente accadrebbe qualcosa di serio. Dal punto di vista economico e della governance continentale. Verso una maggiore integrazione europea o un accentuarsi del protezionismo nazionale? Finora tutti i segnali sono in quest’ultima direzione. Il cambiamento di politica tedesca, per intraprendere una direzione diversa, dovrebbe essere una vera rivoluzione.

Naturalmente non bisogna mai abituarsi a credere all’istante, e  alla lettera, a ciò che viene dall’estero. Ad esempio, Commerzbank e Deutsche Bank, da cui Die Welt ha rielaborato le analisi, sono due banche che hanno bisogno di rafforzare il concetto di interesse nazionale nel caso la loro situazione di bilancio precipitasse. Visto che il loro eventuale salvataggio non sarebbe una passeggiata. Queste possono essere anche analisi di stagione. Magari, per un’altra stagione, la ripresa americana fa da traino, in molti modi, all’export tedesco. Certo, solo 5 anni fa si celebrava, quasi non avesse limiti temporali, il modello dell’export tedesco anche sotto l’onda del gigantesco stimolo fiscale cinese e della forza dei Brics.  E sulle stesse pagine di Die Welt e sotto suggerimento Commerzbank e Deutsche Bank naturalmente. In un lustro, invece, emergono analisi di segno opposto, rovesciato. E questi  dati, con le analisi,  e i grafici a disposizione vanno comunque messi a rilettura, fatti decantare. Il punto è che non possono essere ignorati. Soprattutto da chi fa politica, per non subire quei radicali processi di brutale spiazzamento che, specie da sinistra, avvengono da un quarto di secolo, appunto.

Tra l’altro i media italiani continuano a vedere l’Italia esclusivamente con occhi italiani. Non rappresentano mai, e in un mondo storicamente interconnesso, come ci vedono davvero gli altri. Non parliamo dei social media che, nonostane la loro forza di persuasione e mobilitazione, non di rado finiscono per essere un ripiegamento politicamente provinciale  fatto usando strumenti tecnologicamente globali. E così un posizionamento di Franceschini, un ripensamento di Orfini finiscono per pesare di più, nella rappresentazione degli eventi, di come la Frankfurter Allgemeine, o la Sueddeutsche Zeitung preparano l’opinione pubblica tedesca alle politiche da attuare nei confronti del nostro paese. Una autoreferenzialità che, come è già accaduto, pagheremo fino in fondo. Salvo trovarci un qualche capro espiatorio come caldo espediente per spiegazioni di fantasia che rendano meno amara una situazione drammatica. Ed è proprio questo che dobbiamo evitare visto che anche i caldi espedienti, i facili capri espiatori sembrano avviarsi verso l’esaurimento.

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