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machina

Rosso giornale dentro il movimento

Memorie di un redattore

di Paolo Pozzi

Pubblichiamo la seconda delle quattro tranche di «Rosso» (1974-1975). La prima è disponibile qui. Seguiranno «Rosso dentro il movimento (nuova serie)» e «Rosso per il potere oparaio»

0e99dc aabd13b1cbcb4217a5bce23fa01e79e5mv2«Rosso» si stampava nell’hinterland milanese, quando ancora c’era la bruma che oggi non c’è più. La galaverna rivestiva di bianco i campi dove sfrecciava la metropolitana. La verde.

Neograf, Cartotecnica, Il Registro: alcuni dei nomi. Magari ci sono ancora. Gli stampatori: tutta gente che pensava alla lira. Cataloghi di bagni e docce, dépliant di fiere e mercati, giornalini dei commercianti locali, qualche rivista pornografica e «Rosso». L’importante erano i danè. Le cambiali non le volevano.

Capitava anche di finire adottati. Uno di questi, con un nome indimenticabile, si chiamava Tresoldi, mi veniva a prendere alla stazione del metrò di Cologno, mi portava a pranzo con lui e alla sera mi riaccompagnava a Milano. Aveva una casa molto grande e nella sala un angolo bar tutto di marmo. A lui devo la conoscenza, ahimè tardiva visto che non ero più un ragazzino, di quel dono degli dei che va sotto il nome di Campari shakerato col gin. Con lui sono entrato per la prima volta in vita mia a San Siro. Mi portava nel pomeriggio a vedere le partire di Coppa Italia del Milan.

«Rosso dentro il movimento» era curato sostanzialmente dal sottoscritto che raccoglieva i contributi degli organismi operai e studenteschi e quelli provenienti dai movimenti femminista e omosessuale. Non esisteva un menabò fisso. Ma non potevano mancare i contributi delle principali realtà dell’autonomia di fabbrica, dei servizi (Alfa, Sit Siemens, Face Standard, Fiat di Cassino, Petrolchimico di Marghera, Policlinico di Roma, ecc.) e dei collettivi studenteschi. Come non potevano mancare le cronache del movimento di autoriduzione che stava dilagando e le pagine sulla repressione che colpiva il movimento. Lo spazio di «Rosso tutto il resto» a ogni numero diventava più grande.

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nuovadirezione

Appunti per una discussione sui nostri compiti

di Carlo Formenti

Foiso Fois La mattanza 1951 372x221Il progetto di Nuova Direzione è nato in un clima economico, politico e sociale caratterizzato dai seguenti fattori fondamentali:

1) il prolungarsi della crisi economica globale iniziata nel 2008, che ha visto un’Italia penalizzata da processi di deindustrializzazione, ataviche debolezze strutturali, tagli alla spesa pubblica e instabilità politica, incapace di recuperare i livelli pre crisi. Fra i maggiori sintomi di sofferenza del sistema Paese: elevati livelli di disoccupazione, con punte da record della disoccupazione giovanile; aumento vertiginoso dei livelli di disuguaglianza; aggravamento dello squilibrio fra regioni del Nord e del Sud; progressivo deterioramento dei servizi pubblici, penalizzati da tagli e privatizzazioni; processi di gentrificazione dei maggiori centri urbani e acuirsi delle contraddizioni con periferie e semiperiferie; difficoltà di gestione dei flussi migratori.

2) Le crescenti contraddizioni con l’Unione Europea, prodotto delle scelte politiche di quelle élite nazionali (di sinistra come di destra) che, a partire dagli anni Novanta, hanno costantemente utilizzato l’integrazione del Paese nel quadro delle regole economiche e istituzionali imposte dal processo di integrazione europea come vincolo esterno per giustificare politiche antipopolari (austerità, riforme delle pensioni e del lavoro, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, ecc.).

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perunsocialismodelXXI

Dal Gruppo Gramsci all'Autonomia Operaia: un percorso tutt'altro che lineare (II)

di Carlo Formenti

Rosso giugno 74Nella prima puntata Piero Pagliani ha già colto alcuni degli snodi essenziali che consentono di decodificare quel mix di elementi di continuità e di discontinuità che caratterizzò la transizione dal primo al secondo Rosso e la (parziale) confluenza dei militanti del Gruppo Gramsci nell’Autonomia. Credo valga tuttavia la pena di compiere un ulteriore sforzo di approfondimento, non tanto per soddisfare le curiosità storiografiche degli appassionati di quella convulsa stagione della lotta di classe (né tantomeno per appagare le smanie memorialistiche del sottoscritto, che di quella stagione fu uno dei tanti protagonisti), ma perché penso che molti dei problemi teorici e delle sfide politiche che ci troviamo oggi di fronte fossero già contenuti – almeno in nuce – in quegli eventi.

Gli autori che hanno introdotto la pubblicazione della prima tranche dei materiali di “Rosso” su “Machina” richiamano giustamente l’attenzione sulle differenti scelte organizzative effettuate da Gruppo Gramsci e proto Autonomia per strutturare l’intervento politico in fabbrica. In effetti, i CPO (collettivi politici operai) e le Assemblee Autonome non rispecchiavano solo diverse opzioni “tecniche”. I primi erano concepiti come un’articolazione politica destinata a operare all’interno dei consigli dei delegati, la struttura sindacale di base subentrata alle vecchie Commissioni Interne per estendere la base di rappresentanza democratica al di là degli iscritti alle organizzazioni sindacali. Attribuendo a quelle inedite strutture sindacali un potenziale di auto organizzazione paragonabile (nei limiti dettati dai differenti contesti storici) ai consigli operai di inizio Novecento, il Gruppo Gramsci concepiva l’intervento al loro interno come un obiettivo prioritario di cui i CPO erano gli strumenti organizzativi (il modello era quello dell’intervento di fabbrica dell’Ordine Nuovo nel Biennio Rosso).

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perunsocialismodelXXI

Dal Gruppo Gramsci all'autonomia operaia: un percorso tutt'altro che lineare(I)

di Piero Pagliani

rosso avete pagato caro non avete pagato tuttoIntroducendo la pubblicazione della prima delle tre sezioni di archivio della rivista "Rosso" sul sito Machina https://www.machina-deriveapprodi.com/post/rosso-quindicinale-del-gruppo-gramsci, Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi e Massimiliano Mita cercano di spiegare come mai la più nota rivista dell'Autonomia non sia nata dal filone "classico" dell'operaismo che si è dipanato da "Quaderni Rossi" a "Contropiano", bensì da un'altra componente "eretica" delle sinistre radicali, vale a dire dal Gruppo Gramsci, nato dalla confluenza di due scissioni, la prima dai gruppi dell'area marxista leninista "ortodossa", la seconda dal Movimento studentesco milanese. La presentazione sopra citata, pur fornendo alcuni elementi utili per ricostruire quella originale esperienza storica presenta - dal punto di vista di chi, come chi scrive, ne ha vissuto in prima persona la fase iniziale - due limiti di fondo: in primo luogo, si tratta di una versione troppo "continuista" del passaggio dalla prima alla seconda versione di Rosso, laddove le differenze sia teoriche sia pratico organizzative fra Gruppo Gramsci e Autonomia furono non di poco conto (non a caso solo una parte di chi aveva militato nel Gramsci confluì in Autonomia), inoltre manca un'adeguata riflessione sulle contraddizioni e sui limiti soggettivi che contribuirono - non meno delle condizioni oggettive create dalla crisi e dalla ristrutturazione capitalistica, oltre che dal riflusso delle lotte operaie e dalla repressione di Stato - al tragico epilogo della storia dell'Autonomia. A questi due punti il blog dedicherà due interventi: qui di seguito potete leggere il primo, di Piero Pagliani, ne seguirà un secondo del sottoscritto. (Carlo Formenti)

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machina

Rosso: quindicinale del Gruppo Gramsci*

di Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi, Massimiliano Mita

Pubblichiamo la prima delle tre sezioni di archivio della rivista «Rosso». A questa seguiranno «Rosso – giornale dentro il movimento» e «Rosso – per il potere operaio».

La raccolta è scaricabile gratuitamente in fondo a questa pagina

Schermata del 2021 02 02 15 08 22Può apparire strano che la nascita della più celebre rivista dell’Autonomia non sia da attribuire a nessun segmento di quella dirompente costellazione teorico-politica che si è soliti chiamare «operaismo» italiano. Tanto più che, proprio a leggendarie pubblicazioni periodiche, le molteplici traiettorie del marxismo operaista hanno legato, da «Quaderni rossi» a «Contropiano», la loro travagliata fortuna.

Imprevedibili diversivi del caso? Bizzarrie della Storia? Oppure segni indicativi che prefigurano ciò che sarà? Difficile da dire. Di sicuro, sulla copertina del primo numero – recante la data del 19 marzo 1973 – si legge: «Rosso quindicinale politico-culturale del Gruppo Gramsci».

Agli albori, dunque, c’è un’altra eterodossia: quella deviazione dal formalismo dogmatico della tradizione emme-elle, praticata da un’area in rotta con il Partito comunista d’Italia (marxista-leninista) e facente capo a Romano Madera. Se l’intera vicenda di «Rosso» è avvolta dalle nebbie della rimozione, pedaggio pagato al permanere d’una riserva inquisitoria in campo storiografico, altrettanto arduo risulta ricostruire il profilo della realtà che ne promosse la fondazione. Delle ragioni di questa difficoltà si è scritto di recente, alludendo – da un lato – ai velenosi frutti della stagione repressiva e, dall’altro, a quella naturale assimilazione del «prima» al «dopo» che si generò, nella percezione di molti protagonisti, al momento dello scioglimento del Gruppo, ufficializzato nel dicembre del ’73.

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machina

Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi»

di Marco Cerotto

0e99dc 01b5cec3962941708a9c75f6be0ec075mv2Quest’anno ricorrono i cento anni dalla nascita di Raniero Panzieri, romano di nascita e torinese di adozione, prematuramente scomparsa a soli 43 anni. È stata una figura eclettica, dal punto di vista teorico e politico: dirigente del Partito socialista, direttore di «Mondo operaio», traduttore del secondo libro del Capitale, collaborare della casa editrice Einaudi, fondatore dei «Quaderni rossi», Panzieri è stato uno dei principali intellettuali e organizzatori del movimento operaio italiano nel secondo dopoguerra. Fin dalle sue «Tesi sul controllo operaio», scritte insieme a Lucio Libertini, ha dato un contributo importante alla rilettura di Marx; analizzando l’uso capitalistico delle macchine, ha messo a critica l’ideologia oggettivistica del movimento operaio, evidenziando l’intima connessione tra scienza, tecnologia e sviluppo dei rapporti di sfruttamento. In questo articolo Marco Cerotto ricostruisce alcuni dei tratti principali della biografia politico-intellettuale di Panzieri, soffermandosi sui lasciti e sulla sua eredità. Per un approfondimento rimandiamo al suo libro Panzieri e i «Quaderni rossi», fresco di stampa nella collana Input di DeriveApprodi.

Il 21 gennaio, poi, verrà pubblicato nella sezione «scavi» un dossier, a cura di Alessandro Marucci e Sergio Bianchi, dal titolo «Raniero Panzieri: prima, durante e dopo “Quaderni Rossi”»; seguirà, il 25 gennaio nella sezione «reflex», il film di Alberto Zola e Maurizio Pellegrini «Il decennio rosso. Torino, 1959 - 1969. Dai Quaderni Rossi a Lotta Continua», con voce narrante di Romolo Gobbi.
 

* * * *

1. La formazione politico-culturale

Raniero Panzieri, nato a Roma nel 1921, fu un militante politico del Partito socialista italiano e un raffinato intellettuale marxiano, che animerà la discussione sul controllo operaio negli anni più critici del movimento operaio inaugurando la stagione operaista italiana.

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la citta futura

Il socialismo per cui dobbiamo batterci, e il partito comunista che ci serve

di Fosco Giannini

I limiti teorici, organizzativi e pratici che sono alla radice della scomparsa del Pci. Quale partito comunista serve oggi?

220px Tesserapcd21Ponendomi l’obiettivo di star dentro uno spazio ragionevole per poter affrontare seriamente la questione postami dall’ormai prestigioso giornale “La Città Futura” (un ragionamento sul 100esimo del PCd’I e su quale partito comunista per il presente e il futuro) non posso che preannunciare un linguaggio simile alla musica jazz, spesso basata su interi periodi sincopati.

Per ciò che riguarda l’intera storia del Pcd’I-Pci c’è innanzitutto da liberarsi da un “equivoco” che è stato ed è ancora obliquamente coltivato da alcuni dei gruppi dirigenti comunisti italiani successivi allo scioglimento del Pci: l’“equivoco” per cui la colpa dell’autodissolvimento del più grande partito comunista dell’occidente capitalistico sia stata solamente di Achille Occhetto. Credo che le avanguardie a cui posso rivolgermi attraverso “La Città Futura” sappiano già che questa “lettura” non solo è perniciosamente idealistica, ma è soprattutto brutalmente opportunista, poiché punta a deresponsabilizzare tutta la lunga fase “berlingueriana” che precede l’assassinio politico di Occhetto e a mitizzare acriticamente l’intera storia del Pci. Questo atteggiamento di rimozione è opportunista poiché tendente a ottenere il consenso (elettorale, militante) dei comunisti/e provenienti dal Pci, ed è nefasto poiché ha precluso e continua a precludere un’analisi seria della storia del movimento comunista italiano da cui possa partire un progetto di ricostruzione di un partito comunista all’altezza dei tempi e dell’odierno scontro di classe in Italia. D’altra parte, vi saranno pure dei motivi oggettivi per i quali le formazioni comuniste italiane successive al Pci siano andate tutte incontro a sostanziali e sempre più tristi fallimenti. E la rinuncia a un’analisi senza sconti della lunga storia del dissolvimento del Pci è senz’altro uno dei motivi oggettivi del fallimento delle esperienze politiche successive a essa.

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dellospiritolibero

Origini ed eredità dell’operaismo

Giulia Dettori intervista Mario Tronti

Pubblichiamo un’intervista curata da Giulia Dettori per la rivista “Filosofia Italiana” sul numero 2 del 2020

220px Operaismo anni 70Mario Tronti è un filosofo e politico italiano, fondatore, insieme a Raniero Panzieri, dell’operaismo, corrente eterodossa del marxismo teorico in Italia attraverso cui, negli anni Sessanta, sulla scia degli eventi generati dal 1956, intraprende una ricerca teorica che mira a creare un rapporto diretto tra intellettuali e classe operaia, senza la mediazione dei partiti.

La fase operaista porta Tronti a collaborare con le riviste «Quaderni rossi» (1961-1964) e «classe operaia» (1963-1967), di cui è stato anche direttore, e a raccogliere nell’opera Operai e capitale (1966) le elaborazioni più importanti di questo periodo. È la chiusura di «classe operaia» a segnare per lui la fine dell’esperienza operaista, nonché l’accettazione della sconfitta del modello delle lotte salariali in fabbrica.

Da questo momento si dedica alla carriera accademica, insegnando filosofia morale e filosofia politica all’Università di Siena, e inaugura una nuova fase del suo pensiero: quella della teorizzazione dell’autonomia del politico, nella convinzione che sia arrivato il momento di portare le lotte sui salari ad un più alto livello di scontro, all’interno delle istituzioni e dello Stato. Sono di questo periodo le opere Hegel politico (1975), Sull’autonomia del politico (1977), Soggetti, crisi, potere (1980), Il tempo della politica (1980). Nel 1981 fonda, inoltre, «Laboratorio politico», rivista bimestrale di intervento politico.

Alla fine degli anni Settanta Tronti intraprende un ulteriore e differente approfondimento del suo pensiero politico, legato a una sempre più chiara disillusione intorno alla possibilità di riaprire una fase di lotta e al tramonto, insieme a quella che egli definisce la «storia del grande Novecento», del movimento operaio, considerato la forma massima con cui si è espresso il conflitto della politica moderna contro la storia.

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lafionda

Verso un “socialismo possibile”

di Emanuele Dell'Atti

Note a: Carlo Formenti, Il capitale vede rosso. Il Socialismo del XXI secolo e la reazione neomaccartista, Meltemi, Milano 2020

1573 319Davanti alla sede della borsa di New York, a Wall Street, vi è una grande statua di bronzo che raffigura un toro nerastro, testa bassa, sguardo feroce. Quel toro – scrive Carlo Formenti nel suo ultimo lavoro che compendia e rilancia, ridiscutendola, la laboriosa riflessione che ha svolto negli ultimi anni[1] – è la perfetta raffigurazione degli “spiriti animali” del capitalismo contemporaneo che ha infilzato “con le corna della controrivoluzione neoliberista le classi subalterne e ne ha schiacciato le capacità di resistenza” (p. 8), attraverso un’opera costante di smantellamento del welfare, precarizzazione del lavoro, privatizzazioni sistematiche, depotenziamento dei partiti della sinistra tradizionale.

Come è potuto avvenire tutto questo e in così poco tempo? Evidentemente, scrive l’autore, con il contributo del potere politico: i governi dei maggiori Paesi occidentali, infatti, hanno fatto di tutto per adattare alle esigenze del capitalismo il quadro istituzionale e legislativo, dimostrando, così, che la tesi della “fine dello Stato” è errata. Lo Stato è vivo e vegeto, ma non più come garante degli interessi generali, bensì come strumento per dissodare il terreno ai mercati, privatizzando beni e servizi, deregolamentando i flussi finanziari, riducendo le tasse ai super ricchi, tagliando sulla spesa sociale primaria e sui diritti dei lavoratori. La globalizzazione, infatti, non è stata il frutto di “leggi” economiche, ma “un disegno politico volto a distruggere i rapporti di forza del proletariato americano ed europeo attraverso l’arruolamento di sterminate masse di neo-salariati a basso costo nei Paesi in via di sviluppo” (p. 99).

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blackblog

Il coefficiente di stupidità della Sinistra

di Tomasz Konicz

La stupidità è la miglior alleata dell'opportunismo di sinistra, la crisi attuale lo dimostra ancora una volta

don maitz the idiotCapitalismo o morte? In un'intervista pubblicata nel dicembre del 2019, il famoso marxista americano David Harvey ha reso assai chiaro, con una franchezza deprimente, in che cosa possa rapidamente degenerare la teoria di Marx, quando, dopo decenni, si continua ad ignorare in maniera sovrana la crisi sistemica, e di conseguenza non si dà forma ad un adeguato concetto di crisi [*1]. Rivoluzione? Una «fantasia comunista», oramai non viviamo più nel 19° secolo. Il capitale è «too big to fail», è diventato troppo necessario, e pertanto non possiamo permetterci il suo crollo. D'altra parte, le cose devono essere «mantenute in movimento», dal momento che in caso contrario «moriremmo quasi tutti di fame». E c'è bisogno anche che investiamo il nostro tempo per «rianimarlo», questo capitale, dice Harvey. Forse si potrebbe lavorare lentamente ad una riconfigurazione graduale del capitale, ma un «rovesciamento rivoluzionario» è qualcosa che «non può e non deve accadere»; e bisogna anche si lavori attivamente per fare in modo che non avvenga. Allo stesso tempo, alla fine il professore marxista ha osservato anche che il capitale è diventato «troppo grande, troppo mostruoso» per poter sopravvivere. Insomma, si tratterebbe di un «percorso suicida».

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tempofertile

Circa “Ancora su destra e sinistra” di Andrea Zhok

di Alessandro Visalli

zotl aloys the tiger and the boa constrictor 1835“Un uomo giace da tempo in una specie di pozza di fango, la luce è scarsa e rossa, e filtra tra una densa foresta. Sta lentamente soffocando per effetto di un enorme boa che lo avvolge nelle sue spire, senza fretta e progressivamente. Improvvisamente l'attenzione che questo prestava, inutilmente a dir la verità, al boa viene distratta da un evento.... con la coda dell'occhio intravede una massa di muscoli, tendini ed artigli colorata di giallo e nero che si sta precipitando su di lui. È una tigre. Chi è il nemico? Penso si possa dire una cosa di sicuro: abbiamo un gran problema”.

Proveremo poi a identificare boa e tigre, e magari anche l’uomo e la foresta, ma prima proviamo a parlare dell’oggetto: Andrea Zhok da tempo riflette in modo radicale e coraggioso sulla società nella quale viviamo ed i vicoli ciechi del suo senso comune e della sua ideologia. Lo ha sempre fatto da un punto di vista specifico, che non nasconde come non lo nascondo io. Lo abbiamo (se pure immeritatamente dal mio lato) fatto insieme. Continueremo a farlo.

In effetti tutti stiamo compiendo una dolorosa riflessione, che ognuno articola secondo la propria sensibilità ed esperienze. Facendola insieme gli diamo senso.

In “Ancora su destra e sinistra[1], che reca come sottotitolo “riflessioni di un post-comunista”, Andrea produce un’ammirevole sintesi e ricostruzione di quella che è stata l’esperienza ed il pensiero di molti in questi anni. Descrive la traiettoria di un percorso di assunzione di consapevolezza e responsabilità capace di allargare lo sguardo e generare nuove prospettive.

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nuovadirezione

Ancora su Destra e Sinistra (riflessioni di un post-comunista)

di Andrea Zhok

comunismo 1200x630 1597522193511Le righe che seguono riassumono un percorso recente nella consapevolezza politica, un percorso quasi ‘dialettico’, nel senso hegeliano del termine, un percorso vissuto dallo scrivente e, credo, in modo non troppo diverso da altri soggetti appartenenti alla tradizione post-comunista.

Provo qui a riassumerne i tratti di fondo.

 

     1. Autocoscienza e crisi

Il punto di partenza di questo percorso è stata una lunga, frustrata e reiteratamente delusa militanza nella sinistra politica, in cui per anni, decenni, si è cercato indefessamente di vedere il bicchiere mezzo pieno, di interpretare posizioni sempre più astratte e indifendibili come se fossero errori passeggeri, distorsioni da cui si sarebbe potuto rientrare se solo si fosse insistito abbastanza.

Gli slittamenti gestaltici sono quei passaggi studiati dalla psicologia della percezione in cui d’un tratto, guardando una figura, vi si scopre una figura alternativa che conferisce nuovo senso all’immagine.

Nei confronti della storia della sinistra ad un certo punto per alcuni è avvenuto uno slittamento gestaltico. Dopo l’ennesimo tentativo di imporre i lineamenti della ‘vera’ sinistra a ciò che si configurava sempre di più come un’idra policefala, contraddittoria e irriconoscibile, qualcuno ha scoperto che quei tratti si prestavano ad una lettura completamente diversa. Una volta avvenuto questo slittamento gestaltico, tutto appariva in una luce differente e più chiara.

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quieora

L’ultrasinistra e il «partito storico» della rivoluzione

di Michele Garau

0 14Le compagini e le tesi facenti capo al laboratorio magmatico della cosiddetta «critica radicale», affrontate a più riprese su «Qui e ora», sono riconducibili alla filiazione, filtrata e spuria, di quelle correnti del movimento operaio internazionale, sviluppatesi all’inizio del 900, che rispondono al nome di «ultrasinistra». Quando si parla dell’«ultrasinistra» si richiama, all’origine, una tassonomia vigente in seno alle posizioni del socialismo internazionale del primo 900: la destra era identificata con le tendenze scioviniste della socialdemocrazia tedesca, rappresentata da Ebert; il centro dall’orientamento riformista e gradualista di Kautsky; infine la sinistra corrispondeva al bolscevismo ed alla direzione di Lenin. Dentro questo quadro l’«ultrasinistra» si aggiunge ad indicare quelle frazioni, presenti soprattutto in Germania e in Olanda, che esprimevano un’opposizione di sinistra al leninismo nel suo insieme, come fenomeno teorico e pratico, in seno al movimento rivoluzionario e da principio nella «Terza Internazionale»[1].

Non è semplice ricostruire il profilo di tale corrente, in senso teorico ed ideologico, nella varietà delle sue espressioni e nel suo intreccio con l’esperienza storica dei tentativi rivoluzionari avvenuti, in Germania, durante la sequenza 1918-21, nonché con il suo successivo bilancio. Gli esponenti del «comunismo dei consigli» a partire da Hermann Gorter ed Anton Pannekoek, seppure intraprendano ben prima il proprio percorso, in particolare nel solco dei principi fondamentali della «scuola olandese»[2], elaborano in forma matura le loro tesi distintive proprio misurandosi con questi tentativi e con il loro lascito: si può dire che una formalizzazione compiuta del «Linkskommunsimus» come tendenza politica organizzata risalga alla famosa Lettera aperta la compagno Lenin di Gorter e alla fondazione del «KAPD» (Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands), nell’aprile del 1920.

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carmilla

Non esistono rivoluzioni innocenti. Il comunismo critico di Rossana Rossanda

di Alessandro Barile

Rossana RossandaLa morte di Rossanda – straordinaria figura testimoniale del comunismo italiano – invita, anzi costringe a pensare ancora alla storia del nostro paese, all’impresa comunista nazionale e agli accidenti della rivoluzione. Contro le scemenze desideranti di insurrezioni «felici», Rossanda ci percuote con la sua verità, l’unica plausibile: la rivoluzione è un atto di sofferenza. Non si entra innocenti e se ne esce devastati. Umanamente, politicamente. Perché dovrebbe essere altrimenti? È un atto di vendetta per le generazioni passate e di sacrificio per quelle future. «Siate indulgenti», invoca Brecht, perché di ogni crimine ci saremo macchiati, e non verremo assolti. Quei crimini, di cui parla a cuor leggero una malandata etica della convinzione comunista, sono crimini verso noi stessi, non verso gli altri, famigerati “nemici di classe” su cui scaricare i necessari orrori della storia e della nostra coscienza. Siamo noi che veniamo compromessi, noi che ci macchieremo dei tradimenti e delle conversioni. Eppure si dovrà fare, è stato fatto: l’inazione giudicante non preserva dall’innocenza, è anzi una colpa ben maggiore.

La lunga, lunghissima riflessione di Rossanda si muove entro questi limiti. I limiti di una persona che si è scontrata direttamente con questi problemi, e che ha capito. A cui ha dato risposte molteplici, profonde, disorientanti. Su cui si può essere d’accordo e in disaccordo, come normale, ma riconoscendo le domande giuste, le uniche possibili, che si chiedono direttamente del travaglio umano che porta con sé ogni rivoluzione. Non esistono rivoluzioni innocenti. Un monito.

Rossanda ha scritto tanto, dagli anni Cinquanta ad oggi. Meriterebbe di essere letto tutto, soprattutto ciò che scrisse durante la sua militanza nel Pci, soprattutto durante il suo ruolo dirigente alla Federazione di Milano, prima, e alla Sezione culturale del partito, dopo.

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cumpanis

“La lezione della sincerità”

Contro la frammentazione comunista

di Luca Ricaldone

SenzanomeL'anno prossimo cadrà il trentennale della scomparsa del più grande filosofo italiano del novecento, Ludovico Geymonat. Egli, poco prima di morire, osservava come fossimo di fronte ad un grave arretramento della cultura e come il marxismo venisse esposto solo in modo dogmatico.

Ancora non esistevano i social. Oggi la realtà virtuale è divenuta il dominio incontrastato dell'idealismo, il luogo dove la maggior parte di noi confonde i propri sogni, le proprie aspirazioni con il mondo reale. Il luogo dove si è ciò che si dice di essere; in cui vige il principio: affermo, dunque sono.

Come consigliava Ludovico Geymonat, se vogliamo ricostruire un partito comunista nel nostro paese dobbiamo saper guardare in faccia la realtà e farla emergere, senza aver paura di esporla per quanto dura e difficile possa essere o essere stata. Per questo, ci diceva, è necessaria una “lezione di sincerità”, una lezione di coraggio morale, scientifico, politico che, unito all'azione, deve essere la base per la ricostruzione del partito comunista, che non può nascere su equivoci di sorta.

Ed è proprio da questa considerazione che sarebbe necessario partire quando si affronta il problema dell'unità fra i comunisti.

Il fenomeno della “frantumazione” ha trovato nel nostro paese delle condizioni particolarmente favorevoli, anche se esso si manifesta internazionalmente in ogni paese, avendo la sua origine nell'influenza dell'ideologia borghese tra le file degli stessi comunisti.

E probabilmente è proprio anche a causa di questa influenza nefasta che scontiamo la mancanza di un'analisi critica della storia dei comunisti che non riguardi solo quella del Pci (che pure è stata sviscerata a fondo nel corso dei decenni) ma anche di quello che lo ha seguito, a cominciare da Rifondazione, nonché di tutto quello che c'era alla “sinistra” del Pci e che oggi compone la “sinistra” comunista.