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contropiano2

Come rinasce un movimento di classe sotto i nostri occhi

di Dante Barontini

Schermata del 2019 01 03 08 45 45La misura della devastazione prodotta nella cultura della “sinistra” si è avuta con gli atteggiamenti riservati – non dappertutto, ma da molte parti – al movimento dei gilet gialli in Francia.

Molti si son fatti persuadere dal vade retro pronunciato dai disinformation maker di Repubblica, Corriere, e financo il manifesto, ormai maggioritariamente rivolto contro tutto ciò che odora di conflitto sociale, “disturbo della quiete pubblica”, esangue retorica umanitaria ben attenta a non intralciare il cammino del capitale globalizzato (che non lo è più tanto, ma è inutile dirglielo).

All’origine di questa operazione stanno le “fonti francesi”, quasi sempre ridotte all’ex entourage di François Hollande, da cui sono usciti sia l’orrido Emmanuel Macron, sia il neo-falangista Manuel Valls (ex primo ministro “socialista”, che si è ricordato delle sue lontane origini catalane solo per candidarsi a sindaco di Barcellona con l’appoggio della destra anti-indipendentista e anti-repubblicana; non va dimenticato che la Spagna conserva sia la monarchia che l’impianto della Costituzione franchista).

Ci si è insomma a tal punto dimenticati di come nascono i movimenti da non riconoscerli neppure quando nascono sotto i nostri occhi. La causa vera – quella che infetta la “cultura politica” e dunque le griglie di lettura del reale – è nella storia dei partiti di massa del secondo Novecento. Un lungo periodo durante il quale le contraddizioni tra le classi, in Europa, venivano gestite con la mediazione tra interessi sociali diversi e le politiche keynesiane. Il bastone del comando restava in mano al capitale, ci mancherebbe, ma gli interessi operai o in senso lato proletari e “popolari” venivano organizzati, incanalati, rappresentati e riconosciuti come legittimi fino a diventare proposte di legge, rivendicazioni di riforme (con qualche successo, dopo aspri conflitti, negli anni ‘70).

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la citta futura

Per l’unità delle forze che considerano irriformabile l’Unione europea

di Renato Caputo

Solo partendo dall’unità fra le forze sinceramente antimperialiste diverrà possibile trovare un compromesso con le forze che mirano alla riformabilità dell’Ue, ma hanno come piano B la rottura anche unilaterale con essa

fa1d42fea127795dea89c74e9db9e30c XLNonostante che il “governo del cambiamento”, del “sovranismo” e dei “mene frego” ai diktat dell’Unione europea abbia fatto una figura barbina, capitolando vergognosamente dinanzi alle minacciate sanzioni, purtroppo quasi certamente le forze della sinistra non se ne avvantaggeranno più di tanto.

In primo luogo perché da troppi anni il collaborazionismo della sinistra radicale con la sinistra neoliberista ha portato i proletari – privi di coscienza di classe e di una visione del mondo autonoma da quella dominante, ossia la netta maggioranza – a non distinguere in modo chiaro la sinistra reale, ossia quella schierata con i ceti subalterni contro le classi dominanti, da quella che da diversi anni si è posta al servizio di queste ultime.

In tal modo, alla componente del proletariato più vittima dell’egemonia dell’ideologia dominante continuano ad apparire come reali forze alternative ai governi apertamente antipopolari dei Monti, Letta, Renzi e Gentiloni le forze populiste grilline o, addirittura, leghiste. Mentre la componente del proletariato che, per quanto priva di coscienza di classe, non cede completamente all’ideologia delle classi dominanti – ma mantiene un sano scetticismo, espressione di buon senso – continua a ritenere che fra i precedenti governi apertamente antipopolari e l’attuale governo, che lo è in modo solo meno sfacciato, non ci sia poi una differenza tale per cui valga la pena schierarsi da una parte piuttosto che l’altra. Tanto più che la stessa maggioranza della sinistra radicale si è così sovente alleata in funzione subalterna alla sinistra neoliberista che le differenze appaiono persino alla componente proletaria ancora dotata di sano buon senso delle differenze indifferenti.

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tempofertile

Circa Marco Bertorello, “A chi è utile la sinistra pro border?”

di Alessandro Visalli

commento destra azzariti opera di renatoMarco Bertorello che collabora con Il Manifesto, ed è autore di alcuni saggi[1] con Alegre[2], su Jacobin Italia, ha scritto un articolo che si inserisce nel fortunato filone letterario[3] della critica alla critica alle strutture istituzionali e politiche della mondializzazione sulla base di una rivendicazione di sovranità ed autogoverno politico e quindi fondata sulle democrazie costituzionali esistenti. La critica alla critica è concentrata, però, sulla più limitata questione dell’immigrazione e quindi alla ‘questione dei confini’.

Secondo Bertorello, che con analoghi movimenti di pensiero critica la rilevanza dell’uscita dall’Euro, di cui riconosce meccanica e ruolo nella oppressione di classe attuale, e le politiche neokeynesiane, ovvero l’espansione della spesa pubblica con fini di riequilibrio redistributivo, “sigillare i confini dello Stato nazione non è garanzia di solidarietà: sposta la competizione tra gli italiani e tutti gli altri. Al contrario per fermare la guerra tra poveri bisogna riconoscere la composizione dei subalterni”.

Vediamo cosa significa questa frase.

Bertorello attacca direttamente un intervento di Carlo Formenti su “Rinascita!”, che, a sua volta, commentava un articolo su “American Affairs”, nel quale Angela Nagle, collaboratrice di Jacobin America, criticava l’amnesia della sinistra americana circa la posizione storica delle sinistre sull’immigrazione[4].

In questa ‘Matrioska’ di articoli, insomma, che ha alla base il più interessante, Jacobin Italia prende posizione netta, lamentando intanto i toni tranchant dell’articolo di Formenti. Dopo l’apertura ‘democratica’ e conciliante, avvia a sua volta una lettura sommaria dell’articolo della Nagle che ricostruisce correttamente.

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ilpungolorosso

Per Dante Lepore

di Il pungolo rosso

43734316 10217453158471066Ricordiamo il compagno Dante Lepore con due testimonianze: l’una proviene dall’interno della tendenza internazionalista rivoluzionaria in formazione, ai cui lavori Dante partecipava con impegno assiduo; l’altra proviene dall’interno del Si Cobas di Torino. Di Dante abbiamo ospitato un’analisi sulle cause sistemiche, capitalistiche cioè, della “questione ecologica”. Ci sembra bello ricordarlo segnalando una sua traduzione di un’intervista a John Bellamy Foster (da E-Bulletin N°1446, July 10, 2017).

* * * *

Dante Lepore è morto a Torino, nella notte del 21 dicembre.

Per noi è una grave perdita.

Ma la sua lunga, intensa militanza, fedele alla causa dell’internazionalismo rivoluzionario, è viva. E resterà viva. Perché Dante, pur avendo vissuto le difficoltà, le peripezie, le cocenti delusioni di tutti i compagni e le compagne della sua generazione, ha sempre conservato fresca, giovanile, in sé la passione per la lotta al sistema sociale capitalistico. E questa passione ci ha trasmesso sia con la sua presenza nelle situazioni di conflitto, sia con i suoi scritti.

Tra le “agitazioni studentesche (…) nel liceo in provincia di Foggia contro il fascistume locale dei ‘figli di papà’ e in appoggio alle rivendicazioni bracciantili” di inizio anni ’60 (è lui stesso a parlarne nell’intervista ad Attilio Folliero) e le recenti dimostrazioni e picchetti a cui non è voluto mancare, passa più di mezzo secolo di appartenenza politica e fisica al movimento operaio, alle lotte operaie e proletarie.

Specie negli ultimi decenni, questa appartenenza è stata, per lui, una fonte costante di interrogativi teorici e politici a cui rispondere. Ed ecco che alla nascita del movimento per il salario garantito a Torino, Dante affianca una critica di classe rigorosa, stringente del “reddito universale”, alla fine della quale delle argomentazioni degli epigoni italiani e francesi dell'”operaismo” non resta in piedi assolutamente nulla.

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Dopo gli errori di Seattle

di Luca Benedini

seattle1999Se tuttora le rivendicazioni sociali, economiche e giuridiche espresse dall’ampio “movimento di Seattle” per un breve periodo – proprio a cavallo tra XX e XXI secolo – appaiono esser state complessivamente centrate e ben calibrate, oltre che condivisibili da una grandissima parte sia del Nord che del Sud del pianeta, che cosa è mai successo, dunque [1]? Com’è possibile che non sia stato ottenuto praticamente nulla e che il movimento stesso, ferito e svuotato dai suoi risultati fallimentari, sia praticamente svaporato in pochi anni?

Il crescente senso di impotenza comunemente sperimentato allora da chi faceva parte di quel movimento o lo appoggiava, e vissuto anche oggi dalle masse lavoratrici di quasi tutto il mondo nella vita sociale, continua ad apparire a molti come qualcosa di praticamente ineluttabile ed irrisolvibile. Tuttavia, la problematica che evidentemente sta alla base di questa situazione era stata già discussa, affrontata e risolta in profondità dal nascente movimento internazionale dei lavoratori nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento.

 

C’era già arrivata la prima “Internazionale”

Il cuore di questo confronto risolutivo è stato vissuto probabilmente nei dibattiti e nelle scelte della prima “Associazione internazionale dei lavoratori” (o, più brevemente, “Internazionale”), che ha avuto vita tra il 1864 e il 1876 e che all’epoca – ispirandosi a una «cooperazione fraterna» – è stata una sorta di sommatoria, di stimolo e di coordinamento delle varie organizzazioni messe in piedi dai lavoratori a propria tutela nei diversi paesi che si stavano industrializzando.

In particolare, nel suo Congresso di Losanna del 1867 si deliberò che «l’emancipazione sociale degli operai è inseparabile dalla loro emancipazione politica».

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tempofertile

“Una formula di moda per edulcorare il nazionalismo”

Su Marco Bascetta

di Alessandro Visalli

folkert de jong 007Marco Bascetta è impegnato in una crociata, il cui effetto principale non può che essere di far restare la sinistra cui appartiene fuori della fase. Lenin ebbe a dire una volta che “la frase rivoluzionaria sulla guerra rivoluzionaria può causare la rovina della rivoluzione[1], e che ci sono momenti in cui bisogna chiamare le cose con il loro nome.

Cosa è la “frase rivoluzionaria”? Semplicemente è la ripetizione di parole d’ordine senza tenere conto delle circostanze obiettive. La definizione è perfetta: “parole d’ordine magnifiche, attraenti, inebrianti, che non hanno nessun fondamento sotto di sé”. Le parole d’ordine sono ‘magnifiche’ perché contengono solo “sentimenti, desideri, collera, indignazione”, ma niente di altro. Quando si pronunciano ‘frasi rivoluzionarie’, continuo a leggere, “si ha paura di analizzare la realtà oggettiva”. E, ancora, poco dopo, “se non sai adattarti, se non sei disposto a strisciare sul ventre, nel fango, non sei un rivoluzionario, ma un chiacchierone”, ciò non significa che piaccia, ma che “non c’è altra via”[2] che tenere conto della realtà; la “rivoluzione mondiale”, che prevedrebbe di abbandonare la costruzione del socialismo intanto dove concretamente si può tentare, per Lenin arriverà pure, ma, scrivendo nel 1918, “per ora è solo una magnifica favola, una bellissima favola”[3]; dunque crederci nell’immediato significa che “solo nel vostro pensiero, nei vostri desideri superate le difficoltà che la storia ha fatto sorgere”.

Ciò che va fatto è del tutto diverso, dice il vecchio rivoluzionario russo: bisogna “porre alla base della propria tattica, anzitutto e soprattutto, l’analisi precisa della situazione obiettiva[4].

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sinistra

Una coalizione a perdere per la “patria europea”? No grazie, abbiamo già dato

di Domenico Moro e Fabio Nobile

20pol1 potere al popoloRecentemente il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, si è fatto promotore di un percorso che dovrebbe portare a una lista per le elezioni europee. Questo percorso sembra aver raccolto l’interesse anche di alcuni partiti, tra cui il Partito della Rifondazione comunista e Sinistra italiana. Si tratta di una proposta all’altezza delle difficoltà di questa fase storica? La risposta va definita sulla base dell’esperienza degli ultimi dieci anni. In questo periodo sono stati messi in campo molti progetti politici con esiti fallimentari. Non solo perché non hanno portato a eleggere, con l’eccezione dell’Altra Europa (tre deputati eletti al Parlamento europeo) ma soprattutto perché queste coalizioni hanno mostrato la corda o sono state superate all’indomani delle elezioni. L’Arcobaleno, la Federazione della sinistra, Rivoluzione civile, l’Altra Europa, Potere al popolo sono solo alcune delle sigle succedutesi l’una all’altra. In mancanza di continuità non si sono accumulate forze, anzi quelle raccolte sono state disperse, riducendo progressivamente i consensi e il radicamento sociale.

Certamente il difficile contesto economico e politico ha giocato un ruolo importante nell’indebolimento progressivo. In primo luogo il quadro generale della crisi capitalistica ha determinato nuove condizioni oggettive sul piano dell’articolazione di potere delle classi dominanti, nonché sul terreno della composizione di classe dei settori sociali subalterni. Tuttavia, come sempre, i risultati dipendono anche da come reagiamo soggettivamente alle condizioni oggettive.

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sinistra

I lunghi anni Sessanta, non ancora finiti?

di Emiliana Armano e Raffaele Sciortino

Introduzione a Revolution in our Lifetime, conversazione con Loren Goldner sul lungo Sessantotto, a cura di Emiliana Armano e Raffaele Sciortino, ed. Colibrì, 2018

goldneranni60           Non voglio parlare di me, ma seguire il secolo, il rumore e l’evolvere del tempo

Osip Mandel'štam

Molto è già stato scritto sul Sessantotto, di memorialistica come di analisi storico-politica, eppure a distanza di anni quel processo-evento continua a sollecitare domande e a dividere i fronti tra chi l’ha vissuto ma anche tra chi si occupa o è attivo nei movimenti sociali. Evidentemente ha lasciato qualcosa d’irrisolto, e di rilevante a tutt’oggi, se non altro perché è stato l’ultimo movimento di ribellione radicale a scala globale1.

Che cosa ha spinto i giovani degli anni Sessanta, nei più differenti contesti, alla militanza politica attiva? Quali strade, quali punti di svolta e convinzioni maturarono a supporto delle loro scelte? E che cosa ha permesso ad alcuni, pochi, di loro di diventare poi marxisti e comunisti eretici? Quali le conseguenze per i loro percorsi nei decenni successivi? E soprattutto, a distanza di oramai cinquant’anni, che cosa ci dice tutto ciò oggi per interpretare e intervenire nel presente?

Attraverso alcune conversazioni con il marxista statunitense Loren Goldner, questo libro ricostruisce il processo di politicizzazione di un giovane militante della Nuova Sinistra statunitense degli anni Sessanta, che nel 1968 partecipò all’occupazione del campus di Berkeley (è l’episodio evocato nell’immagine di copertina). Da questo racconto la conversazione si estende poi a temi che continuano ad essere meritevoli di approfondimento teorico e politico. In che maniera il movimento del Sessantotto è maturato come fenomeno globale? Quali i problemi che dovette affrontare e come cercò di risolverli? Che cosa ci dicono oggi i legami che all’epoca si strinsero, o non si strinsero, tra le lotte studentesche e quelle delle altre molteplici componenti sociali che costituivano il movimento? Ma, soprattutto, quali le rotture e quali le continuità con i cicli di lotta precedenti e successivi? Sono alcune delle questioni di fondo che vengono sollevate o per lo meno evocate.

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thomasproject

Istantanea del Sessantotto[1]

[Per una rinascita ontologica del Movimento]

di Gianfranco Marelli

La redazione di Thomasproject pubblica il saggio breve di Gianfranco Marelli apparso nella ripubblicazione del volume di Giorgio Cesarano dal titolo “I giorni del dissenso. La notte delle barricate. Diari del Sessantotto” (a cura di Neil Novello e con uno scritto di Gianfranco Marelli, Castelvecchi, 2018, pp.218, € 17,50). Ringraziamo l’autore e la casa editrice per averci concesso la pubblicazione online

COVER i giorni del dissenso DEF«Nessuno può decentemente arrogarsi
il lugubre diritto
d’insegnare quando si può solo imparare,
di predicare quando si può solo esserci
e facendo cercare di capire».
Giorgio Cesarano

      “Compagni, cordoni”!

Se queste due parole non suscitano in chi legge forti emozioni contrastanti, difficile sarà comprendere il Séssantotto di Giorgio Cesarano e di tutti quelli che vissero la breve stagione dove l’impossibile era non credere possibile una trasformazione radicale della propria vita. Una trasformazione in grado di far maturare le proprie esperienze individuali entro un afflato collettivo sfociante nella rivoluzione che ti fa, anche se non la si fa. Certo, una rivoluzione che ti fa essere ciò che desideri essere qui e ora brucia nel volgere di un momento la miccia detonante senza neppure il tempo di poter fare la rivoluzione; o forse inconsciamente sai che il tempo che ti fa essere rivoluzionario non coincide con il tempo necessario per fare la rivoluzione. Eppure… eppure, “Compagni, cordoni!”: l’immaginazione è rivoluzionaria, ossia il rinascere di un sentire – testimonia Cesarano nei suoi diari – «che è qualcosa di diverso dall’ideologia e da ogni tipo di dogmatica certezza, è qualcosa che aggalla quasi di colpo nella mente e precipita in fatti collettivi e travolgenti le idee che un attimo prima, il giorno o l’ora prima erano potevano essere anche soltanto segregata speranza o disperazione, macerata e avvilita collera, sapienza impotente e amaro senso dell’impossibilità».

Pertanto, più che parlare della “rivoluzione” del ’68 – un attimo storico esauritosi nel volgere commemorativo e celebrativo della meglio gioventù – parleremo della “rinascita” nel ’68 dell’immaginazione rivoluzionaria di un sé collettivo la cui esistenza nella società ha fatto da spartiacque tra un prima e un dopo: da persona/oggetto disinteressata dei fatti, a individuo/soggetto interessato a farsi altro; passaggio obbligato per quelli che erano caparbiamente intenzionati a «non voler somigliare ai loro padri – a me [scriverà con lucida autocritica Cesarano] – e a quanto pare decisi a non farsi catturare a nessun costo».

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palermograd

Indietro non si torna... purtroppo

​di Alfonso Geraci e Marco Palazzotto

potere al popolo 2Dopo Nuovo PCI e Sinistra Anticapitalista, anche il PRC ha abbandonato il progetto PAP. Il documento votato dal CPN di Rifondazione non suscita entusiasmi, ma anche noi – che abbiamo condiviso per un anno il cammino di Potere al Popolo – abbiamo lasciato PAP dopo la votazione sui due statuti contrapposti, ritenendo (con motivazioni e preoccupazioni in buona misura diverse da quelle espresse dalla mozione di cui sopra) che si sia giunti a un capolinea, e che PAP abbia costruito e “blindato” un meccanismo di funzionamento sbagliatissimo e che rende molto difficile se non impossibile al singolo militante partecipare coscientemente ed efficacemente alla vita dell’organizzazione. Queste nostre riflessioni intendono avviare un dibattito, per cui auspichiamo che sia i compagni che proseguiranno il percorso di PAP che quelli che l’hanno abbandonato vogliano intervenire. [AG, MP]

 

Potere al Popolo prevede il potere al popolo?

La festa appena cominciata è già finita… (Sergio Endrigo)

Lo scorso 9 ottobre si sono concluse le consultazioni svolte nella piattaforma informatica di Potere al Popolo che hanno sancito, secondo il comunicato dello stesso movimento (qui maggiori dettagli ), la vittoria dello statuto 1 – sostenuto dalle componenti dell’Ex OPG occupato “Je so’ pazzo” e Eurostop – sullo statuto 2 – sostenuto invece dal PRC, ritirato all’ultimo momento dagli estensori e rimasto comunque online per il voto dopo la decisione della maggioranza del coordinamento nazionale provvisorio.

Hanno votato a favore dello statuto 1 circa 3300 persone su più di 9000 iscritti e quindi il 37% circa degli aventi diritto, e pari al 55% degli utenti attivi.

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la citta futura

Considerazioni su Potere al popolo dopo la votazione sugli statuti

di Enzo Gamba

Il progetto politico mantiene la sua validità ma rimane il rischio di perdere, per l’ennesima (forse l’ultima?) volta, una grande occasione

BANZAILIQSOLD1 20180118162916215In questo ultimo anno, complici le iniziative fiorite e sfiorite al Brancaccio, si è dibattuto molto sul problema di quale dovesse essere il progetto politico dell’immediato futuro per la sinistra di classe e per i comunisti in particolare. Era necessario ragionare e discutere per chiarire ciò che si dovesse fare, al fine di invertire l’andamento della lotta di classe - ormai agìta quasi sostanzialmente solo dal capitale - di ricompattare la classe dei lavoratori salariati e subordinati (gli sfruttati) e dei loro possibili alleati sociali, per cominciare a cambiare e risalire la china.

Si era fatta strada tra molti compagni l’idea che dovessimo pensare ad una ipotesi politica che individuasse in un “movimento politico organizzato” il soggetto politico unitario che, sulla base di un programma minimo, di fase, agisse e si muovesse sulla scena politica della lotta di classe nel nostro paese; movimento politico dove i comunisti avrebbero potuto nuovamente riprendere il legame con la classe e riattivare nel contempo il loro patrimonio teorico politico. Né quindi un nuovo partito ideologico dei comunisti, né l’ennesimo tentativo di “intergruppi” sotto l’etichetta delle “sinistre unite”, né una federazione associativa di vari e diversi movimenti perlopiù monotematici. L’avvio di un percorso unitario con la nuova proposta di Potere al Popolo! sembrava rispondere non solo a queste esigenze, ma rappresentava una concreta articolazione di tale progetto politico. Il Manifesto fondativo di PaP era lì a dimostrarlo e anche le principali organizzazioni comuniste avevano dato il loro fattivo assenso.

Ciò che però è successo in PaP in questi ultimi tempi impone, oggettivamente, di entrare nuovamente nel merito della questione, non tanto delle posizioni che si sono confrontate, ma degli elementi e aspetti peculiari del progetto politico che, a nostro avviso, avrebbero dovuto e dovrebbero sostanziare PaP e che sotto traccia hanno condizionato in modo negativo il confronto.

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sinistra

L'elogio di Salvini a Bolsonaro

Una discussione tra Piemme e Fabrizio Marchi

* * * *

sollevazione2

Che ci dice l'elogio salviniano di Bolsonaro

di Piemme

bolso salviniFabrizio Marchi su l'interferenza dice l'essenziale del neopresidente del Brasile Jair Bolsonaro:

«Bolsonaro è la sintesi del peggio che possa esistere al mondo. Ammiratore di Hitler per sua stessa ammissione, nostalgico delle feroci dittature militari (sponsorizzate e armate dagli USA) che per quasi mezzo secolo hanno letteralmente insanguinato l’intero continente latinoamericano, ultra filosionista (in una delle sue primissime dichiarazioni ha annunciato la decisione di chiudere l’ambasciata palestinese), ultraliberista in politica economica, omofobo, integralista religioso (più per opportunismo che per fede…), seguace fanatico delle sette evangeliche che dagli Stati Uniti stanno da tempo colonizzando l’America Latina, filo americano, antisocialista e anti comunista viscerale, appoggiato da Trump, Bannon, e naturalmente da Netanyahu e da tutta la destra e l’estrema destra sud e nord americana, israeliana ed europea, Bolsonaro è il simbolo della “riscossa” reazionaria in America Latina».

Non dice, Marchi, le immense responsabilità che un quindicennio di governi del PT lulista hanno avuto nel causare la vittoria di questo energumeno — politiche liberiste che hanno accresciuto a dismisura le già enormi diseguaglianze sociali, una gestione nepotistica e corruttiva del potere.

Ma non è questo adesso il punto; condividiamo del pezzo del Marchi il ribrezzo per lo sconcio e sguaiato appoggio che Salvini ha promesso a Bolsonaro.

Con l'esaltazione di Bolsonaro Matteo Salvini ha compiuto un'altro passo o strappo per attestare la sua Lega nel campo della destra reazionaria —alla faccia di certi amici che ce la menano col discorso che sarebbe finita la "dicotomia sinistra-destra": la verità è che più la sinistra si imputridisce e s'inabissa nel campo liberale, più le destre avanzano, per di più secernendo le pulsioni più antidemocratiche.

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rifonda

Il ritorno del partito

di Paolo Gerbaudo

Perché sono tornati i partiti di massa? Perché sono ancora il modo migliore affinché coloro che non hanno potere, possano sfidare i potenti. Pubblichiamo la traduzione di un articolo dal sito della rivista americana Jacobin

344056 thumb full redflag280916rcE’ un luogo comune osservare come l’epoca post crisi sia definita dall’ascesa di movimenti populisti sia sul fronte della sinistra che su quello della destra, nel mezzo di una crescente polarizzazione politica. Tuttavia, non è stata sufficientemente sottolineata la centralità del partito nell’arena politica. In Occidente, e in Europa in particolare, stiamo assistendo ad una rinascita del partito politico. Sia i vecchi partiti, come quello Laburista in Gran Bretagna, che quelli nuovi, come Podemos in Spagna e la France Insoumise, hanno visto una crescita enorme nel corso degli anni, ponendosi tra l’altro al centro di importanti innovazioni organizzative. Dal momento che per molti anni sociologi e politologi hanno concordato nel preannunciare la perdita del primato del partito politico in una società digitale sempre più globalizzata e diversificata, questa rinascita della forma partitica è degna di nota. In effetti, l’attuale ritorno della sinistra ha di fatto smentito queste previsioni. La tecnologia digitale non ha rimpiazzato il partito. Gli attivisti l’hanno piuttosto utilizzata al fine di sviluppare meccanismi innovativi per fare appello ai cittadini, pur riaffermando la forma partitica quale strumento principale per la lotta politica.

 

Previsioni maldestre

Il fatto che i partiti politici stiano tornando nuovamente alla ribalta, è innanzitutto evidente dal crescente numero di membri all’interno dei partiti, una chiara svolta rispetto al progressivo calo di adesioni a cui hanno dovuto assistere molti partiti storici europei all’inizio degli anni Ottanta. In Gran Bretagna, il Partito Laburista sta per raggiungere i 600.000 membri, dopo aver raschiato il fondo nel 2007, alla fine del mandato di Tony Blair, con appena 176.891 adesioni.

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I comunisti, la politica e la classe. Fare i conti con passato e futuro

di Mauro Casadio*

Burani belloLa decisione del PRC di non partecipare alle elezioni di Potere al Popolo sullo Statuto, presa la sera prima della consultazione online, ci sembra sia stata una scelta errata e da un certo punto di vista incomprensibile. Un pronunciamento politico degli aderenti ad una forza, in cui il PRC ha evidentemente un peso notevole, non può portare ad una crisi e ad una spaccatura politica se si condividono i fini del progetto avviato un anno fa con l’assemblea del Teatro Italia.

Probabilmente è su questi fini che bisogna tornare a ragionare, per capire cosa è accaduto, al di là del clima conflittuale e del delirio sui Social, che si dimostrano essere sempre più un elemento dannoso di confusione dove l’opinione personale, cioè l’individualismo spinto, travolge ogni capacità di analisi raziocinante della difficile realtà con la quale tutti noi dobbiamo fare i conti, fuori dalla virtualità di quel mondo.

In questo frangente contraddittorio, prodotto da una trasformazione radicale delle condizioni generali in cui operiamo, sentiamo spesso nei ragionamenti fare riferimento alla questione dell’unità, che è certamente un elemento importante, in quanto non ci si può certo augurare la frammentazione. Una questione, l’unità, che nella storia della sinistra in Italia a partire dagli anni ’70 ha accompagnato (casualmente?) il declino della sinistra stessa fino all’attuale condizione, che non dipende certo dalle divergenze interne a PaP. Tale constatazione, evidente agli occhi di tutti, ci porta alla conclusione che non possiamo scindere la questione dell’unità necessaria dai contenuti che non sono “divisivi”, come oggi va di moda dire, ma che essa è il prodotto di determinate visioni della realtà, delle sue dinamiche e delle prospettive con cui ci si intende misurare.

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contropiano2

Non si gioca con le iniziative del Pd!

di Gap Milano

poterealpopolo chiarettaPrendiamo parola pubblicamente a seguito dell’adesione di Potere al Popolo! Milano alla manifestazione del 30 settembre promossa da “intolleranza zero”.

Come già avvenuto lo scorso 28 agosto in occasione dell’iniziativa dei “Sentinelli”, tali decisioni sono state prese, per la seconda volta, con colpevole fretta e superficialità, e in definitiva con una presa di posizione ancor più grave se si considera che il comunicato d’adesione ad essa, va ancor più in la del presente e preannuncia, a prescindere, altre adesioni ad iniziative con il carattere distintivo come quella di ieri.

Il voto per alzata di mano del coordinamento provinciale provvisorio di Potere al Popolo, ancora una volta, impedisce qualsiasi forma di riflessione o costruzione a percorsi che siano altro rispetto al mantra dell’”unità del popolo della sinistra”. Unità che, lo sottolineiamo, se non si rivolge al blocco sociale, agli sfruttati, ai colpiti dal montare della repressione, al popolo effettivo delle periferie e dell’hinterland della metropoli lombarda, è solo una sgangherata scialuppa per ceti politici di basso cabotaggio e poco più.

Crediamo che la rincorsa ad uno stantio modo di fare politica asservita alla logica del meno peggio e all’illusione di “pesare dall’esterno” non solo sia inutile ma decisamente dannosa. Continuare su questa strada significa uscire dal solco tracciato dalla nascita di Potere al popolo! come momento di discontinuità e rottura con la “vecchia sinistra” ormai identificata come parte del problema.

Non intendiamo cedere sul terreno dell’Antifascismo e dell’Antirazzismo alle strumentalizzazioni di chi fino a ieri lo derubricava ad atteggiamento retrò o lo declinava unicamente come tensione moralistica. E tra i promotori effettivi, quelli sotto mentite spoglie e i nuovi parvenù c’è ne sono, eccome!