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Sovvertire la chiusura del presente*

Livio Boni e Andrea Cavazzini intervistano Alain Badiou


Livio Boni e Andrea Cavazzini:
Sebbene quest’intervista si prefigga innanzitutto di dare un’idea ai lettori italiani dell’insieme del suo “itinerario”, ci permetta – Alain Badiou – di cominciare in qualche modo a ritroso, non da una ricostruzione genealogica, ma dall’analisi della situazione politica francese da lei stesso consegnata nel suo
Sarkozy: di che cosa è il nome?, un saggio-pamphlet che ha avuto un’eco importante in Francia, e che non ha mancato di suscitare un vivo interesse anche in Italia1. Solo in un secondo momento verremo alle Logiques des mondes e all’evoluzione più propriamente infra-filosofica del suo pensiero, nella seconda parte della nostra conversazione.

Lei sostiene che «è effettivamente avvenuto qualcosa» in occasione delle ultime elezioni presidenziali, e che questo qualcosa segna tra l’altro la fine delle categorie stesse che hanno organizzato la vita politica francese dal dopoguerra, ed in particolare la morte dell’“intellettuale di sinistra”2. Possiamo partire da quest’ultimo punto?


Alain Badiou:
Alla fine della seconda guerra mondiale, due sono state le forze emergenti, poiché entrambe all’origine della resistenza all’occupazione nazista: i gollisti e i comunisti. Tali forze si intendevano tacitamente su due regole fondamentali: innanzitutto, lo Stato aveva delle responsabilità economiche e sociali, da cui la serie importante di nazionalizzazioni (banche, industria automobilistica, energia…), la pianificazione centralizzata, la previdenza sociale, ecc. In secondo luogo, la Francia non doveva allinearsi integralmente agli Stati Uniti, da cui il patto francosovietico siglato da De Gaulle. Questi due punti di accordo facevano da sfondo alla contrapposizione tra la destra gollista e la sinistra socialista.

Per quanto riguarda l’intellettuale di sinistra, questi era essenzialmente un “compagno di strada” del Partito comunista, nel senso che considerava che le regole comuni scaturite dalla Resistenza e dalla Liberazione andassero riprese nel senso della sinistra, e non limitate come voleva la destra. Da qui l’impegno sociale (con il popolo e gli operai contro i borghesi), la neutralità in politica estera (né con gli Stati Uniti né, troppo direttamente, con l’URSS), l’anticolonialismo. Oggi tutto ciò non ha più nessuna pertinenza. Le categorie di “sinistra” e “destra” si sono americanizzate: sono solo sfumature nella gestione capitalista. Tutti si richiamano alla “democrazia” – che io personalmente preferisco chiamare “capitalparlamentarismo” – come all’unico regime politico accettabile. Gli intellettuali dominanti sono diventati pappagalli della cosiddetta “democrazia”, e fanno la morale alla terra intera su basi che sono in realtà imperialiste. Ho sentito con le mie stesse orecchie una quantità di intellettuali di “sinistra” approvare caldamente il bombardamento di Kabul da parte dell’aviazione americana in nome della liberazione delle donne afghane… La verità è che le categorie politiche stesse sono in rovina, e che la figura dell’intellettuale pubblico è diventata una caricatura.


L.B. e A.C.:
Questo significa che la situazione politica francese è diventata ormai analoga a quella degli Stati Uniti, dell’Inghilterra o di molti altri paesi, in cui la prospettiva di un’affermazione della “sinistra” è stata abbandonata ormai da tempo, ed in cui gli intellettuali radicali accettano di essere minoritari o di ope-rare “negli interstizi” del sistema? Dobbiamo insomma intendere per «distanziazione rispetto allo Stato», o per «sottrazione» (per riprendere due “parole d’ordine” ricorrenti nei suoi scritti politici) un certo “divenire minoritari”? Detto altrimenti: in attesa di un’ipotetica resurrezione dell’“intellettuale di sinistra”, bisogna rassegnarsi ad una disciplina dell’“azione ristretta”, locale, o del lavoro sull’ideologia, invece di affannarsi per ristabilire le condizioni di un’egemonia introvabile?

A.B.: Sussistono comunque alcune sfumature, dovute innanzitutto alla comparsa, dopo il Maggio ’68, soprattutto in Francia e in Italia, di una figura d’intellettuale in politica assai diversa da quella del dopoguerra. Si tratta dell’intellettuale organizzatore e militante, direttamente legato agli operai, alla gente del popolo, senza la mediazione del Partito. Questa figura è stata alimentata dall’eredità francese del maoismo, attraverso grandi parole d’ordine come “servire il popolo” o “legarsi alle masse”. Essa ha prodotto una visione a lungo termine della politica, che noi3 definiamo «la politica senza partito», la cui sola regola è quella del processo politico stesso, a partire da questioni politiche precise, ed in cui gente di qualsiasi origine si trova in condizione di eguaglianza, senza la segmentazione sociale che i partiti comunisti non solo rispettavano, ma persino aggravavano, con le loro forme burocratiche. Forse la scala su cui si situano azioni di questo genere rimane ancora, in effetti, quella di un’azione ristretta, ma ha modellato un tipo inedito d’intellettuale di sinistra, che si potrebbe definire “intellettuale militante”. I miei nemici stessi riconoscono, pur deplorandola, la mia libertà d’intervento… che fa sì, ad esempio, che io possa rivendicare senza nessun complesso l’intera e problematica eredità rivoluzionaria senza tener in alcun conto il totalitarismo ideologico veicolato da parole sacre nella nostra società come “democrazia” o “diritti umani”. Una tale libertà non mi appartiene come individuo, ma è il frutto di un’esperienza dell’eguaglianza costruita nell’azione e nell’organizzazione di battaglie politiche localizzate. Nella fraternità attiva con gente venuta da ogni parte ho costruito un universo mentale sul quale la propaganda avversa (politica unica, capital-parlamentarismo, individualismo morale, ecc.) non ha alcuna presa. Il che fra l’altro dimostra che oggi è l’uguaglianza che permette la libertà, in quest’ordine, e non il contrario.

Tutto ciò non ha equivalenti negli Stati Uniti, almeno a livello degli intellettuali più reputati. Laggiù la gente è coraggiosa e determinata, forse più che da noi, ma trascendere la barriere sociali e passare da una minoranza all’altra è praticamente impossibile. Senza dubbio, su scala generale, si può dire che la morte dell’intellettuale di sinistra crei anche in Francia una situazione “minoritaria” del tipo da voi descritto. Ma credo che l’avvenire si giochi sul versante dell’intellettuale militante, cioè di una reinvenzione di tutte le categorie politiche.


L.B. e A.C.:Sempre nel suo ultimo pamphlet politico, Sarkozy: di che cosa è il nome?, lei sembra voler mettere fuori gioco ogni velleità di costituire un fronte anti-sarkozysta. L’anti-sarkozysmo, proprio come l’anti-berlusconismo – che ha assorbito quel poco che restava delle energie intellettuali della sinistra italiana – comporta infatti la rassegnazione a farsi dettare dall’avversario gli argomenti, i temi e la logica stessa dello scontro. Mentre l’unica posta in gioco consiste nella possibilità di reperire dei “punti” che non siano «suturati allo stato della situazione», né dunque al nome “Sarkozy”. Lei ne dà più d’un esempio, in forma d’assiomi, tra cui il principale è enunciato con assoluta semplicità: «c’è un solo mondo». In che senso si tratta di un “punto” fondamentale?

A.B.: Dove individuare le forze potenziali di una nuova politica di emancipazione? Senza alcun dubbio nelle enormi masse di contadini sradicati o di classi spossessate che errano sulla faccia della terra al ritmo della domanda di forza-lavoro. Si tratta tanto dei milioni di operai cine-si che degli africani che attraversano i mari su imbarcazioni di fortuna. Il nemico sa bene che da lì viene il pericolo. Gli strumenti polizieschi per il controllo di queste masse vengono rinforzati di giorno in giorno, i campi di concentramento sono lì ad aspettarli, muri e recinti a respingerli, leggi scellerate a privarli di ogni diritto, mentre allo stesso tempo lo sviluppo planetario della produzione capitalista esige la loro presenza. Dobbiamo tentare di metterci nel cuore della contraddizione e delle incredibili violenze che ne conseguono. Persino la famosa “guerra contro il terrorismo” serve prima di tutto come alibi per trattare ovunque questi proletari virtuali come sospetti. L’enunciato prescrittivo «c’è un solo mondo» significa innanzitutto che apparteniamo alla loro stessa patria politica, che sono i nostri pari, e che è con loro che riusciremo ad imporre, su scala mondiale, le norme della politica che verrà. Significa anche ricordare, in una forma nuova, che «i proletari non hanno patria», se non, appunto, il mondo, il mondo unico ed integrale nella sua interezza.


L.B. e A.C.:
Lei dà grande rilievo all’affermazione del nuovo presidente: «bisogna farla finita con il Maggio ’68». Ora che siamo reduci da una pioggia di commemorazioni giornalistiche del suo quarantesimo anniversario, nelle quali sembra prevalere definitivamente una lettura generazionale, immaginaria e in fondo moralistica dell’evento, in che senso, a suo avviso, la dichiarazione di Sarkozy ha un valore sintomatico?

A.B.: Come dicevo prima, il Maggio ’68, nella sua articolazione al maoismo e alla Rivoluzione culturale, si trova all’origine d’una ricerca inedita sull’essenza stessa della politica. Naturalmente esistono altri aspetti dell’evento. Per quanto mi riguarda distinguerei almeno quattro “Maggio ’68”: la rivolta studentesca; gli scioperi operai di massa; la trasformazione dei costumi e della cultura; infine, quello che mi sta più a cuore, la novità politica. Ma se lo spettro del Maggio ’68 continua ad ossessionare lo spirito di Sarkozy, è solo in quanto portatore dell’idea radicale d’una politica d’emancipazione al tempo stesso ribadita e trasformata, di un’opposizione totale al mondo dominante e ai suoi sinistri feticci, tutti originati in ultima istanza dagli appetiti anarchici del capitale finanziario. Farla finita con il ’68 significa farla finita non solo con il processo rivoluzionario, ma con l’idea stessa che un tale processo sia una possibilità storica, per quanto remota. Sarkozy e tutti i suoi sbirri degli Stati occidentali vogliono chiudere il periodo delle rivoluzioni – aperto nel XIX secolo – non solo a livello dei rapporti di forza reali, ma a livello ideologico.


L.B. e A.C.: Veniamo agli ultimi capitoli del suo pamphlet. In un’epoca in cui sembra tornato bon ton, soprattutto nei campus anglosassoni, dichiararsi marxisti, lei prende in contropiede il movimento generale, richiamandosi invece al “comunismo”, foss’anche “generico”, invece che a un post-marxismo generico. Come interpretare questo contropiede?

A.B.:
Ricorderei come Marx stesso abbia affermato, in una celebre lettera a Weydemeyer, che il suo contributo in politica non era affatto il concetto di lotta di classe (già individuato dagli storici francesi), ma da una parte la necessità di una transizione violenta (la dittatura del proletariato) come condizione indispensabile alla distruzione dell’apparato statale reazionario; dall’altra la visione d’insieme sotto il segno del comunismo. Poco a poco mi sono reso conto di quanto il riferimento al marxismo sia in effetti consensuale. Chiunque è disposto a dire: «Sì, Marx è datato, ma è davvero interessante, e in più non ha commesso alcun crimine, a differenza di Lenin e Mao». Ciò si accorda bene all’opposizione al capitalismo, alla “barbarie economica”, e non costa nulla, è solo morale applicata. Cosa farà l’intellettuale orripilato dal capitalismo contro il suddetto capitalismo? Assolutamente nulla, si lamenterà e approfitterà del fatto che le “libertà democratiche” gli danno il diritto di lamentarsi pubblicamente. La vera questione resta quella dello Stato, della “democrazia”, dell’azione di massa organizzata. Quindi la questione di una visione comunista delle verità politiche. Se non si assume questa posizione, che contiene una critica radicale di ogni forma di Stato, compreso lo Stato parlamentare, si hanno due conseguenze assai nefaste. Innanzitutto si rigettano senza comprenderli tutti i tentativi rivoluzionari del secolo scorso, precludendosi ogni possibilità di situarsi oggi rispetto ai problemi politici. Si è allora nella stessa situazione in cui sarebbe un matematico che pretendesse di progredire nella propria disciplina senza nulla conoscere dello stato dei problemi matematici, di che cosa sia stato o meno già dimostrato. Passare attraverso Lenin, Mao, partendo dai quali riflettere su Stalin, la guerra di Spagna, ecc., insomma prendere la misura di che cosa sia stato il movimento comunista, è indispensabile, è una condizione minimale. Altrimenti si funziona senza idea direttrice, riducendosi allo stato comune dell’“intellettuale critico”, i cui contenuti affermativi e normativi si riducono a poco più che nulla, limitandosi a presiedere una forma sofisticata di recriminazione generale.


L.B. e A.C.:
La sua proposta circa l’ipotesi comunista e le sue diverse fasi ci sembra colmare una lacuna nella riflessione filosofica sulla politica. Si può infatti constatare come, tra i fenomeni politici del XX secolo, il nazismo e le diverse forme di fascismo in generale giochino un ruolo paradigmatico per una gran parte del pensiero politico – il senso comune filosofico ammette ben volentieri che il III Reich, con le sue catastrofi ed il suo carattere “eccessivo” costituisca un banco di prova per ogni interpretazione della struttura essenziale dell’agire politico e del legame sociale. Ebbene, nulla di tutto ciò avviene per il comunismo, a cui non viene riconosciuta dignità di oggetto filosofico, la cui interpretazione è lasciata il più delle volte a discorsi psicologizzanti sull’accecamento, l’utopia e l’illusione. Ci sembra allora che la rinuncia a pensare il comunismo del XX secolo abbia per conseguenza l’impossibilità di pensare il legame tra emancipazione e azione politica (visto che, in fin dei conti, prendere il nazismo come paradigma non può avere per conseguenza che il pensare la politica come forza distruttrice da arginare attraverso la morale, la religione o i Diritti dell’uomo). Dobbiamo quindi intendere la sua presa di posizione circa “l’ipotesi comunista” come volta a colmare questa lacuna nella filosofia contemporanea?

A.B.: Sono assolutamente d’accordo. Nella lotta ideologica per la costruzione delle nuove forme dell’ideologia dominante, la questione (d’origine puramente religiosa) del Male ha occupato ed occupa tuttora un posto essenziale. Grosso modo il punto è questo: visto che una serie di politiche eccessive ha condotto a crimini di massa, la politica ragionevole e moderata rappresentata dal capital-parlamentarismo costituisce almeno il non-Male, in mancanza del Bene o del Vero. Mi è capitato di scrivere da qualche parte che per il ruolo del Male per eccellenza, del Male perfetto e del Diavolo, vi fossero due candidati, Stalin e Hitler: ma Stalin ha perso su questo fronte! Hitler e il nazismo sono diventati assolutamente paradigmatici. Stalin fu un poco di buono, la cosa pare indubbia, e Mao pure, ma in fondo nessuno si preoccupa sul serio di sapere chi furono realmente, che cosa pensarono o fecero, ci si limita ad una sciatta contabilità dei morti. Tutto ciò consente di mettere nel dimenticatoio l’entusiasmo comunista che sollevò milioni di persone della terra intera, soprattutto operai e contadini, per decenni. Ecco una delle ragioni per le quali occorre reintrodurre il termine “comunismo” e ridispiegarlo intellettualmente.

L.B. e A.C.:La caratterizzazione dell’ipotesi comunista da lei proposta nell’ultimo capitolo di Sarkozy: di che cosa è il nome? può risultare alquanto stravagante per il pubblico contemporaneo, tanto italiano che francese, un po’ ingenuamente abituato ad associare al termine “comunismo” le due figure capitali del-lo Stato e del Partito, oggi assai poco attraenti, e che lei riconduce alla «seconda sequenza dell’ipotesi comunista» (1917-1975). Potrebbe precisare qual è la sua posizione rispetto a queste due forme storicamente indissociabili dal destino dell’ipotesi comunista nel XX secolo?

A.B.: Occorre ripartire dallo stato propriamente politico di tutti questi problemi. Qual è il problema cruciale, alla fine del XIX secolo? Quello, ereditato dalla Comune di Parigi, dell’insurrezione vittoriosa. Tutte le grandi sommosse operaie successive alla Rivoluzione francese sono state stroncate, in tutta Europa. La questione della vittoria è quindi un problema comune a tutto il movimento socialista. L’ala destra rinuncia all’insurrezione e sostiene l’adesione al parlamentarismo e l’associazione elettorale al potere dello Stato: questa è ancora oggi, in Francia, la concezione di un leader trotzkista come Besancenot, malgrado il fatto che, notoriamente, una tale posizione non abbia mai prodotto risultati probanti.

L’ala sinistra, leninista, si orienterà diversamente: la vittoria è possibile solo a condizione che gli operai dispongano di un’organizzazione centralizzata sul modello militare (la “disciplina di ferro”), atta all’azione illegale, ed in grado di affrontare i reparti armati dell’apparato di Stato.

Poiché la sola forza di chi non ha nulla è la disciplina. E la storia lo dimostra: l’insurrezione d’Ottobre è vittoriosa, per la prima volta nella storia mondiale. Da qui un entusiasmo generale, nel mondo intero, in larghe frange del popolo e degli intellettuali, entusiasmo che durerà più di mezzo secolo. Dopodiché, si entra in un altro problema, del tutto differente: quello della costruzione di una società nuova. Sappiamo oggi che la soluzione al primo problema (l’insurrezione vittoriosa) non porta alla soluzione del secondo. Il Partito, esemplare nella creazione di una forza popolare di tipo nuovo, non sa poi far altro che imporre alla società una militarizzazione burocratica senza speranze. E ci troviamo ancora a questo punto del problema. Occorre dunque rivedere tanto il rapporto militante nei confronti dello Stato che le forme d’organizzazione. Non essere ossessionati né dal potere, né dalla forma Partito. Da qui l’esigenza di una nuova fase del comunismo.


L.B. e A.C.:
Lei fa spesso riferimento alla Rivoluzione culturale cinese come a un momento cruciale nelle sequenze della politica d’emancipazione, ed es-sa gioca un ruolo centrale anche nelle sue riflessioni sull’ipotesi comunista (Slavoj Zˇizˇek si spinge fino a dire che la Rivoluzione culturale giochi per lei una funzione analoga a quella della rivoluzione nazionalsocialista per Heidegger, in quanto prova dell’impossibilità di sottrarre la politica ai due “enti” fondamentali che sono il Partito e lo Stato)4. Ci può dire qualcosa di più su questo ruolo cruciale?

A.B.: La Rivoluzione culturale affronta il problema nel punto in cui si pone: come rianimare l’ipotesi comunista in una società in cui la fusione tra Partito e Stato l’ha congelata? Mao ne conclude che occorra far ricorso alle masse, per trasformare il Partito e adeguarlo alle nuove esigenze. Non esita in questo a designare nel Partito stesso il luogo di un potere di classe di tipo fino ad allora sconosciuto (la “nuova borghesia”), che è di ostacolo a quel ch’egli chiama il “movimento comunista”, irriducibile allo Stato. Non esita quindi a dichiarare: «Ci si domanda dove sia la borghesia nel nostro paese. È nel partito comunista». In seguito a questo appello (inizialmente sostenuto, e persino anticipato, da avanguardie studentesche), avranno luogo immense mobilitazioni popolari, soprattutto di giovani e operai, che discuteranno nella libertà più totale di tutte le questioni della società. Ma alla fine il movimento fallirà, per effetto del principio d’ordine incarnato dai cacicchi del Partito, guidati da Deng Xiaoping. Il “movimento comunista” sarà allora schiacciato dallo Stato-Partito proprio come lo furono le insurrezioni operaie durante il XIX secolo. La Rivoluzione culturale è la Comune di Parigi del XX secolo: essa pone in una forma rivoluzionaria il problema principale del nostro tempo (la relazione tra politica comunista e Stato), senza però riuscire a risolverlo.


L.B. e A.C.:
Quel che ci sembra molto importante nelle sue posizioni è che, per lei, la fedeltà al contenuto emancipatore dell’ipotesi si accompagna a una coscienza acuta dell’esaurimento e della chiusura delle sue forme passate. Tutto ciò è assai lontano dall’attitudine gauchista-nostalgica che un certo numero di commentatori le ha rimproverato. D’altronde lei parla d’“invarianti” comuniste che si riattiverebbero in sequenze differenti, e non di “modello”, cioè di una forma particolare d’esistenza dell’ipotesi che costituirebbe un paradigma insormontabile, da imitare e riprodurre. Vi è forse in gioco qui un problema filosofico: lei attribuisce l’ossessione per i “modelli” alla politica per così dire reazionaria, da Pétain a Sarkozy; così come fa riferimento alle tesi del compianto Philippe Lacoue-Labarthe che ha studiato il ruolo cruciale di una teoria del “modello” nella politica tedesca che prepara l’avvento del III Reich: il “modello” come forma da imporre alla comunità per permetterle di ritrovare la Gestalt originaria5. In che senso il concetto d’invariante si contrappone a quello di modello? Che distinzione – filosofica e politica al tempo stesso – si può operare tra i due termini? Si può scorgere in tale distinzione qualcosa che pertiene a un’altra distinzione, quella (ci perdoni la semplificazione) tra il ritorno ad un’Origine e la riattivazione di una Verità eterna?

A.B.: La vostra domanda è profonda, importante. Le invarianti comuniste di cui parlo sono attestate nei processi reali (la rivolta di Spar-taco, le guerre contadine in Germania, la Comune di Parigi…) e non so-no comprensibili che a partire dalle massime, dai principi, dai movimenti che vi furono inventati. Non si tratta affatto di ripetere o d’imitare. D’altronde, non siamo in presenza di una forma o di un’opera, ma solo di frammenti intatti di una verità che si può eventualmente riattivare in un contesto del tutto differente (come ad esempio quando Rosa Luxemburg chiama “spartachista” la propria organizzazione). Tutto ciò non suppone alcuna origine. Il solo presupposto è che ciò che fu disposto e pensato come dotato di un valore universale possa essere ri-pensato per il suo valore. Avete quindi ragione nel dire che non provo nessuna nostalgia. Se un matematico riprende (e ammira…) la dimostrazione, nei termini euclidei, dell’infinità dei numeri primi, si dirà forse che sia nostalgico dell’Antichità? Sarebbe ben sciocco. Ebbene, quando riprendo e ammiro i principi e le tesi politiche di Lenin, o certe sequenze della Rivoluzione culturale, è altrettanto ridicolo pensare che io sia nostalgico. Non faccio altro che iscrivere il mio pensiero, come necessario, nella storia dei problemi e delle soluzioni che ne sono state date.


L.B. e A.C.:
Veniamo ora al suo secondo grande trattato filosofico, Logiques des mondes, uscito in Francia due anni fa6. Cominceremo con lo scartare un malinteso a cui potrebbe prestarsi il titolo stesso del libro, rispetto al principio «c’è un solo mondo» di cui abbiamo discusso precedentemente. Dal punto di vista filosofico l’affermazione dell’esistenza di un solo mondo non è affatto in contraddizione con la sua molteplicità immanente, poiché “mondo” funziona in questo caso come un “trascendentale” che permette alle differenze di dispiegarsi, mentre la negazione dell’esistenza di multipli differenti produce in realtà una serie di mondi chiusi. Non vi è dunque nessuna contraddizione tra l’assioma metapolitico «c’è un solo mondo» e la teoria dell’apparire in Logiques des mondes.

A.B.: Ovviamente no, come avete assai bene spiegato. Aggiungerei soltanto che «c’è un solo mondo» è un precetto politico, mentre il riconoscimento di mondi multipli, nel senso di trascendentali logici differenti, corrisponde ad una descrizione di tipo filosofico.


L.B. e A.C.:
In che senso la costruzione speculativa di Logiques des mondes fornisce un complemento fenomenologico alla sistematizzazione ontologica dell’Essere e l’evento?7 Dobbiamo intendere tale complemento, già abbozzato nella sua Ontologia transitoria8, come un tentativo di prendere in contropiede certe letture gauchiste e miracoliste dell’evento?

A.B.: Sì, si passa infatti da una sistematizzazione ontologica (che cosa ne è del pensiero dell’essere in quanto essere, se lo si intende come pura molteplicità, o molteplicità senza-Uno?), ad una sistematizzazione dell’apparire, o della particolarità: che cosa ne è del pensiero delle molteplicità in quanto presenti e concorrenti alla composizione di un certo mondo in virtù delle loro relazioni reciproche? All’enunciato fondamentale di L’essere e l’evento – “l’ontologia è la matematica” – corrisponde quindi l’enunciato cruciale di Logiques des mondes – “la fenomenologia è la logica”. In questo nuovo quadro, più complesso, si può quindi concepire una teoria molto più fine di quanto non fosse possibile in un quadro puramente ontologico. In particolare, si può finalmente pensare l’evento come un’alterazione locale di una molteplicità data, e non solamente come rottura e cominciamento radicale.


L.B. e A.C.:
Quindi, in questo spostamento da una teoria del soggetto “puro” come punto d’eccesso rispetto a una situazione data, ad una teoria dell’apparire degli oggetti e dei mondi come tracciato costitutivo di qualunque soggetto “transmondano” – spostamento dal piano onto-logico di L’essere e l’evento al piano onto-logico di Logiques des mondes – una delle conseguenze principali sembra essere la cancellazione della questione della “nominazione” dell’evento-soggetto, a vantaggio di quella del “corpo” come “incorporazione delle verità”…

A.B.: In effetti, dopo L’essere e l’evento avevo bisogno, per evidenti ragioni di materialismo, di una traccia dell’evento che fosse inscritta nella situazione, che fungesse da punto d’appoggio per le sue conseguenze soggettive. Ho quindi ritenuto che quanto sussisteva dell’evento potesse essere assimilato ad un nome. Ad esempio, “Comune di Parigi”, o “Maggio ’68”. Questa soluzione non era soddisfacente, e numerosi critici me l’hanno fatto osservare assai presto, in particolare Lyotard. Essa presupponeva una denominazione, e quindi un soggetto-che-nomina, anteriore al soggetto portatore delle conseguenze dell’evento. Questa anteriorità del soggetto a se stesso conferiva all’evento una tonalità in effetti un po’ miracolosa. Il rimaneggiamento operato in Logiques des mondes pone fine a questa dualità del concetto di soggetto. La traccia dell’evento è ora interna al suo sito, cioè è oggettiva.


L.B. e A.C.:
Al di là delle complementarità sistematiche tra i suoi due grandi libri filosofici, un elemento inedito viene introdotto in Logiques des mondes: l’idea di una possibile logica delle tracce lasciate da un evento in un mondo configurato da un “trascendentale” interamente differente. Lei definisce questa traccia un «punto d’inesistanza»9, precisando che non bisogna confondere «il nulla e l’inesistenza», e attribuendo a quest’ultima una funzione di “orientamento”. Potrebbe ritornare brevemente su questo punto? Ci inganneremmo forse considerando che qui si ha a che fare col vero punto di discontinuità con L’essere e l’evento?

A.B.: Voi interpretate del tutto correttamente questa discontinuità, nel solco di ciò che tentavo di dire rispondendo alla vostra domanda precedente: un progresso materialista. Tuttavia, non bisogna aver troppa fretta di dire che il trascendentale del mondo post-evenemenziale è “interamente differente” da quello del mondo che è toccato dall’evento. La trasformazione è all’inizio affatto locale: un elemento di un multiplo del mondo, il cui grado di apparizione nel mondo era praticamente nullo (minimo), acquista un’intensità d’esistenza assai grande (massima). Questo avviene secondo le misure trascendentali del mondo esistente. È solo poco a poco, nel lavoro delle conseguenze, che questa perturbazione finirà, oppure no, per comportare delle trasformazioni profonde del trascendentale stesso. Per utilizzare una metafora politica: non vi è una rivoluzione immediatamente globale, di cambiamento integrale del mondo. Vi è un processo complesso, punto per punto, che allarga fino alle dimensioni del mondo, e in un modo che non è mai necessario, il rovesciamento locale di un’intensità nulla in intensità massima («non siamo niente, saremo tutto»)10. Attorno a questa traccia locale si costruisce il nuovo corpo soggettivo.


L.B. e A.C.:
Recentemente lei ha ripubblicato presso Fayard, nella nuova collana da lei diretta con Barbara Cassin, il suo primo libro, Il concetto di modello, uscito originariamente da Maspero nella collana «Théorie» diretta da Louis Althusser11. Si tratta di una ricerca epistemologica che fa parte del «Corso di filosofia per scienziati» organizzato da Althusser; nella Prefazione a questa nuova edizione, lei rivendica la sua appartenenza alla corrente “strutturalista” nel senso che questa aveva assunto per il gruppo dei «Cahiers pour l’analyse», il cui progetto era quello di combinare la psicoanalisi lacaniana all’epistemologia storica francese (Canguilhem, Althusser stesso), al marxismo riletto da Althusser, e in-fine all’approccio “formale” e strutturale alle scienze umane (linguistica post-saussuriana, antropologia di Lévi-Strauss, studi di Georges Dumézil sull’ideologia indoeuropea, ecc.), il che, per alcuni animatori dei «Cahiers», doveva sfociare nella costruzione di una “logica del significante”, una sorta di teoria generale delle strutture (ci scusi di nuovo per le semplificazioni). Può dirci qualcosa sui suoi inizi epistemologici, e su quale fosse il suo rapporto a questi progetti?

A.B.: Ho subito accolto il programma strutturalista con entusiasmo, anche perché ero da sempre affascinato dalle discipline formali, matematiche e logiche. Mi sembrava che si tentasse di dotare l’antropologia di una forza nuova, che l’avrebbe sottratta all’empirismo. Vedevo anche la possibilità di fornire alla politica un orizzonte teorico più stabile, più compatto, meno debitore di un rapporto opportunista alle situazioni. E, infine, mi sembrava che si aprisse un nuovo cantiere filosofico riguardante la dialettica. Quest’ultima era, all’epoca, o ridotta in maniera scientista e assai debole a “leggi dialettiche” applicabili ad ogni realtà, naturale o storica (è la via staliniana), oppure ricondotta alle forme sottili, ma nettamente idealistiche, dell’ermeneutica hegeliana. Ricollocando la questione ad un livello più formale, sostenendo la prova del sapere mate-matico e delle logiche contemporanee, pensavo che si sarebbe fatto progredire notevolmente il pensiero dialettico, che io concepivo come pensiero rivoluzionario. Ho dunque accettato il rischio di una deriva scientista (o “pitagorica”, come mi rimproverava Althusser), senza, credo, perdere di vista lo scopo finale: un rinnovamento dell’accompagnamento filosofico della convinzione politica (ed anche artistica o scientifica).


L.B. e A.C.:
Nel corso del suo intero percorso, lei si è sempre richiamato a Jean-Paul Sartre come ad un «maestro assoluto» (così lo definisce nelle Logiques des mondes); tuttavia, questa “filiazione” sartriana sembra un po’ contraddittoria rispetto alla “filiazione” althusseriano-epistemologica, in particolare per quanto riguarda la teoria, elaborata da Sartre nella Critica della ragion dialettica, di un soggetto dell’azione collettiva, che si concepirebbe con difficoltà in un quadro di pensiero althusseriano (come lei stesso ricorda in un testo dedicato a Sartre in occasione della sua morte e recentemente riedito nel Petit panthéon portatif)12. Potrebbe dirci qualcosa su questo nodo apparentemente contraddittorio del suo percorso?

A.B.: Beninteso, ho dovuto allontanarmi parecchio dal mio maestro… Tuttavia, voglio insistere su due punti. Innanzitutto, al di là della tentazione scientista percepibile alla fine degli anni Sessanta, ho conservato il tema del Soggetto, di un reale del Soggetto, contro la sua riduzione althusseriana all’ideologia o all’immaginario. E poi, direi che nella mia opera, a partire dagli anni Ottanta, si tratta appunto delle condizioni (assai complesse!) della libertà. Certamente, il mio Soggetto non è una coscienza, e la mia libertà non è il modo in cui il Nulla “buca” l’Essere, dimodoché l’articolazione dei due non può essere quella che propone Sartre. Ma che in definitiva, per me, una verità sia sempre sotto la forma di una libera incorporazione soggettiva è sufficiente ad attestare una fedeltà a Sartre.


L.B. e A.C.: Un altro suo riferimento costante è Lacan, il che è per noi particolarmente interessante: innanzitutto perché un legame tra un filosofo e la psicoanalisi, essenziale quanto il suo con Lacan, sarebbe impensabile nella “lunga durata” della cultura filosofica italiana; e poi perché oggi anche in Francia la filosofia universitaria ci sembra tendenzialmente dominata da un disagio, o addirittura da una rimozione, rispetto al rapporto tra psicoanalisi e filosofia. È come se i filosofi cercassero di rassicurare se stessi sull’autonomia, tutto sommato abbastanza pacifica, della propria disciplina, negando i legami intessuti dalla filosofia francese con l’impresa freudiana rivitalizzata e riscritta da Lacan. Secondo lei, e a partire dal suo percorso, quali sono le relazioni possibili, ed eventualmente feconde, tra filosofia e psicoanalisi? In quale modo l’intelligenza della psicoanalisi è indispensabile ad un percorso filosofico?

A.B.: La psicoanalisi propone una teoria del soggetto liberata dalla riflessività cosciente, ed una teoria della libertà che la subordina alla verità: ciò che è in causa nella cura è in effetti la verità del soggetto, in quanto verità in-saputa. Lo spostamento dei sintomi apre un nuovo rapporto del soggetto a ciò di cui esso è capace, e quindi crea nuove libertà. Tutto ciò nutre la mia filosofia dal principio alla fine, poiché il suo centro è il legame tra processo d’incorporazione soggettiva e avvento di una verità. La psicoanalisi permette di lottare in pari tempo contro la fenomenologia religiosa, che fa del soggetto una mezza-misura tra la coscienza e l’anima, e contro lo scientismo cognitivista che fa del soggetto una semplice finzione. Infine, la psicoanalisi permette di cogliere appieno il ruolo della sessualità nella costruzione soggettiva, e pertanto di illuminare in modo totalmente inedito il problema dell’amore, il quale è, da Platone in poi, una delle condizioni generiche della filosofia. Ecco perché l’ho detto e lo ripeto: una filosofia contemporanea deve assolutamente attraversare Freud e Lacan.


L.B. e A.C.:
Nella Prefazione alla riedizione del Concetto di modello lei afferma di aver abbandonato la sua primaria vocazione epistemologica per “servire il popolo”, cioè per entrare in un periodo di militanza maoista. Un’altra cosa di cui molti oggi amerebbero credere che la filosofia possa fare a meno è il rapporto con l’agire politico, o addirittura con la militanza aperta e dichiarata. Ci dica qualcosa della sua azione all’interno del movimento maoista e dell’impatto che ha avuto sul suo pensiero più propriamente filosofico.

A.B.: La filosofia, quindi il filosofo, deve esperire le proprie “condizioni generiche”. Il filosofo deve essere un militante, un conoscitore delle scienze e delle arti, un amante… La filosofia universitaria, ridotta alla sua stessa storia, o specializzata sotto la forma di una “filosofia di…”, non può sostenere le sfide della contemporaneità. Sono stato un appassionato militante maoista, ho appreso cosa significasse l’uguaglianza politica con gente venuta da ogni parte, come partecipare attivamente alla formazione di un nuovo corpo collettivo, come essere più grande di tutto quanto sia possibile immaginare di se stessi. Lo slancio teorico si alimenta di questi momenti eccezionali, cerca di conservarne e trasmetterne la forma.


L.B. e A.C.:
Questa fase più direttamente militante della sua attività ha portato a un dissidio con Gilles Deleuze, riguardo temi sia filosofici che più esplicitamente politici. Deleuze è oggi un punto di riferimento cruciale per numerose correnti politiche e culturali italiane: esiste un senso comune, spesso un gergo, deleuziano, in particolare nei gruppi che fanno riferimento a Negri, ma anche ben al di là di essi, tanto che la cultura politica “radicale” italiana sembra poter favorire l’avvento del “secolo deleuziano” invocato da Foucault. Su cosa verteva il vostro dissidio politico, e quali ne erano le poste in gioco filosofiche, prolungate ben al di là della congiuntura degli anni Settanta?

A.B.: Vedete, non credo che Deleuze si sia interessato granché alla politica. Non era molto militante, e la politica di cui parla non è altro che la forma delle inflessioni della vita collettiva. Osserverei ad esempio che in Che cos’è la filosofia? vi sono tre figure del pensiero: l’arte, la scienza e la filosofia. La politica brilla per la sua assenza. Quando gli ho posto esplicitamente questa domanda, Gilles mi ha risposto in sostanza che la politica non era un regime separato, ma che era presente ovunque. Qui c’è una divergenza capitale. Per me la politica è un pensiero distinto, per nulla identico all’arte, o all’amore, o alla scienza, ed essa ha una storia propria, delle sequenze che definiscono la natura dei problemi che le appartengono, dei tentativi fatti per risolverli, delle impasses, ecc. Di tutto questo, in effetti, Deleuze e i suoi successori non si curano affatto. In Negri, ad esempio, si passa direttamente dall’ontologia alla politica attraverso vaste categorie (“Impero”, “moltitudine”, ecc.) che non sono altro che variazioni sul tema di un reale a doppia faccia, potere costituente/potere costituito. Sullo sfondo, c’è la convinzione che la politica sia la potenza della vita, e che l’emancipazione sia l’invenzione di nuove “forme di vita”. Senza contare che questo monismo vitalista sfocia in effetti in una sorta di esaltazione paradossale del capitalismo come potenza, di cui l’emancipazione non è che il rovescio, immediatamente mobilizzabile. Donde l’ottimismo costante dei deleuziani, in una situazione in cui, per me, i problemi contemporanei della politica non sono ancora neppure formulati chiaramente. E anche un feticismo della tecnologia, con tutte queste glosse sull’“intelligenza collettiva” inscritta negli strumenti moderni della comunicazione… Tra tutto questo e ciò che io penso, vi è, temo, un autentico abisso.

L.B. e A.C.:
Negli anni Ottanta, nel pieno del trionfo di quella che si potrebbe chiamare una contro-rivoluzione capitalista, lei pubblica un libro che si segnala per la sua inattualità, Théorie du sujet13.  Certi commentatori, come ad esempio Bruno Bosteels, hanno suggerito che la continuità del suo lavoro rispetto a questo primo tentativo sistematico sia più stretta di quanto sembrerebbe a prima vista. Potrebbe dirci qualcosa su questo libro che da qualche parte lei ha definito il suo «primo libro di filosofia»?

A.B.: Si tratta chiaramente di un libro di transizione, e in quanto tale assai complicato, anche nello stile, ancora segnato da tic lacaniani. In fondo, si trattava per me, alla luce dell’esperienza militante maoista, di dividere l’eredità strutturalista. Da un lato una visione strutturale propriamente detta, che chiamo “algebrica”, e di cui Mallarmé è il referente, basata sulla teoria della causa evanescente (o dell’oggetto piccolo a come causa del desiderio in Lacan); il concetto fondamentale di questa visione è quello di mancanza. Dall’altro, una visione dinamica, che non chiamo ancora evenemenziale, ma “topologica”, il cui referente è il marxismo rivoluzionario riveduto da Mao; il concetto fondamentale di questa visione è quello di eccesso. Tutto si basa dunque sulla combinazione, in un processo concreto, tra la mancanza e l’eccesso, e sulle disposizioni soggettive che vi corrispondono: dal lato della mancanza, l’angoscia e il Super-io; dal lato dell’eccesso, il coraggio e la giustizia. Tutto ciò compone una visione molto complessa della soggettività politica, molti tratti della quale si ritrovano nelle mie opere posteriori.


L.B. e A.C.:
Nel corso degli anni Ottanta si assiste al trionfo della sinistra mitterrandiana. I maestri dei decenni precedenti, tentati per un momento di collaborare col potere socialista, restano presto delusi, e vengono congedati cinicamente non appena esprimono delle prese di distanza. Si assiste al trionfo dell’ideologia della modernizzazione, all’apologia del mercato, ad un atlantismo appena mitigato da un europeismo ostentato, alla liquidazione del marxismo e di qualunque radicamento della sinistra negli ambienti operai, alla separazione consapevolmente orchestrata tra lavoratori “nazionali” e “immigrati”. I “pensatori” di riferimento diventano Jacques Attali, Pierre Rosanvallon, François Furet o Marcel Gauchet, che si accaniscono a liquidare e diffamare tramite campagne mediatiche i vari Foucault, Deleuze, Bourdieu, ecc. È l’epoca dei diritti dell’uomo, del moralismo antitotalitario dei “Nouveaux Philosophes”, che stabiliscono i nuovi codici del dibattito politico e intellettuale, e questa situazione perdura, anche se il consenso soffocante comincia a mostrare qualche crepa. Qual era la sua posizione all’epoca del mitterrandismo trionfante, in questo panorama ideologico molto ostile a tutto ciò che lei afferma? E in che misura quell’epoca è in continuità con l’era del «piccolo Sarkozy»?

A.B.: In quell’epoca stavo in uno scantinato, con alcuni amici, intellettuali o operai! Sono stato ostile a Mitterrand dal primo secondo, e avevo previsto la contro-corrente reazionaria cui avrebbe offerto una sponda. Ho subito compreso che i “nuovi filosofi” non erano altro che i nuovi cani da guardia dell’ordine capitalistico in piena restaurazione mondiale. Avevo visto che, lungi dall’essere un evento liberatore, il crollo del socialismo da caserma in URSS non era che la morte di un cadavere, le cui conseguenze sarebbero state ancora più nefaste di quanto non lo fosse stato il suo sussistere cadaverico sotto Brezˇnev. Considero gli anni Ottanta come l’equivalente di ciò che furono, all’inizio del diciannovesimo secolo, gli anni della Restaurazione tra 1815 e 1830. Sullo sfondo di questa Restaurazione, lo ripeto, vi è il fallimento della Rivoluzione Culturale. Proprio come sullo sfondo dell’espansione imperialista tra il 1871 e la carneficina del ’14-’18 vi è il fallimento della Comune. Ma, alla fine, siamo sopravvissuti, abbiamo lavorato, inventato. Come all’inizio del ventesimo secolo ci dirigiamo senza dubbio verso la guerra. È allora tempo di ricordare ciò che disse Lenin: «O la rivoluzione impedirà la guerra, o la guerra provocherà la rivoluzione».

L.B. e A.C.: Sarkozy: di che cosa è il nome? è il quarto volume della serie Circonstances, che riunisce interventi su temi d’attualità che richiedono un lavoro filosofico di “sblocco”. Ciò non ha mancato di suscitare polemiche assai aspre – in particolare Circonstances III, il cui titolo era Portées du mot “juif”14. Questo tema non è meno scottante in Italia che in Francia. Vuole dirci qualcosa sulla sua posizione in proposito?

A.B.: Le mie Circonstances si propongono proprio lo scopo di avviare delle vivaci polemiche sull’uso delle parole (“terrorista”, “democrazia”, “umanitario”, o anche “arte contemporanea”), e di prendere posizione rispetto a decisioni statali precise, come la legge che impedisce alle liceali di portare un foulard sulla testa, l’invio di truppe in Afghanistan, ecc. In questo quadro io e Cécile Winter ci siamo chiesti come subentrasse esattamente, nel dibattito politico e “democratico” contemporaneo, il predicato comunitario “ebreo”. Abbiamo allora riunito degli studi, alcuni dei quali vecchi di vent’anni, e ne abbiamo scritto di nuovi. Tutto ciò per trasmettere la nostra convinzione: l’uso politico della parola “ebreo” è oggi, specialmente in Francia, reazionario, asservito all’esistenza di uno Stato semi-coloniale, contemporaneo alla Restaurazione capitalista, legato alle categorie nefaste di Occidente e di “valori occidentali”, che coprono come una foglia di fico la brutalità dell’egemonia americana. Tutto questo non aveva nulla a che fare con chicchessia sotto qualsivoglia predicato, ma unicamente con la strategia d’impiego di una parola nel campo ideologico. Aggiungo che quest’uso è estremamente nefasto, non solo per gli ebrei reali, ma anche per l’avvenire di Israele, che dovrà pure un giorno divenire un magnifico Stato binazionale. Il tumulto scatenato da questa messa a punto, tranquilla e segnata dal sigillo dell’evidenza, le ingiurie stupide rovesciate dai pennivendoli dell’ordine stabilito, sono nell’ordine delle cose. Siamo felici di esserci esposti in questo modo. È appunto questo lo scopo della serie Circonstances.


L.B. e A.C.:Quali sono i suoi progetti attuali e futuri? Sappiamo che sta lavorando ormai da qualche anno ad una ritraduzione della Repubblica di Platone il cui titolo sarà Traité du communisme…!

A.B.: Visto che credo che l’universalità sia quella delle verità, quale che sia il sito della loro produzione, ritrovo evidentemente il Platone delle Idee, o delle verità eterne. Ho dato vita ad una sorta di ciclo platonico. Innanzitutto, il mio seminario mensile presso l’École Normale Supérieure, che ha per titolo: Pour aujourd’hui: Platon! e durerà senza dubbio tre anni. Poi sto scrivendo la sceneggiatura di un film, La vie de Platon, che intendo realizzare un giorno. Infine, e soprattutto, proporrò della Repubblica una traduzione integrale, che chiamo una “ipertraduzione”. Dapprima, attraverso il più ravvicinatamente possibile il testo greco, non lasciando nulla in ombra, affrontando le difficoltà sintattiche e semantiche, finché tutto non mi sia chiaro; poi propongo il mio proprio testo, a volte estremamente prossimo all’originale, a volte molto più distante.

Il mio proposito è quello di materializzare l’esistenza assolutamente contemporanea di questo libro, di fargli dire, dal suo interno, che noi oggi esistiamo con lui. Diciamo che innesto questa contemporaneità di Platone, quale io la vedo, sul testo che ci è pervenuto. Donde un albero ad un tempo antico e nuovo. La pubblicazione è prevista per il 2010, col titolo Du commun(isme).

Ho altri tre progetti, in formato più ristretto. Innanzitutto, pubblicherò presto un Secondo Manifesto per la filosofia, vent’anni dopo il primo. Poi, l’anno prossimo, sempre in virtù del mio interesse per i rapporti tra il pensiero dialettico e gli sviluppi della logica formale, conto di far uscire un libretto, più tecnico, dal titolo Les trois négations. Vi sarà un Circonstances 5, che verterà, a partire dalla Comune di Parigi, dalla Rivoluzione Culturale e dal Maggio ’68, sulla nozione equivoca di fallimento storico. Aggiungiamo per finire, e per far numero, che nel gennaio prossimo uscirà un libretto dedicato a Wittgenstein15.

*[Questa intervista è uscita nel numero 59 di «Allegoria»]


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1 A. Badiou, Sarkozy: di che cosa è il nome? Circostanze 4, a cura di L. Boni, Cronopio, Napoli 2008; ed. or. De quoi Sarkozy est-il le nom? Circostances, 4, Nouvelles Éditions Lignes, Paris 2007.

2 Cfr. L’intellectuel de gauche va disparaître. Tant mieux, intervista di N. Weill ad A. Badiou, in «Le Monde», 14 luglio 2007.

3 Badiou si riferisce alle posizioni dell’«Organisation politique», gruppo militante “postleninista e postmaoista” fondato nel 1984, del quale è stato tra i principali animatori, e che sussiste attualmente nel «Ressemblement des Collectifs des Ouvriers Sans Papiers et des Foyers» e intorno al «Journal politique».

4 Cfr. S. Zizek, État d’urgence et dictature révolutionnaire, Intervento al Seminario coordinato da Jean Salem Marx au XXIe siècle, Sorbona, 27 ottobre 2007 (http://semimarx.free.fr). Sul rapporto di Badiou con la Rivoluzione culturale cfr. La Révolution cutturelle: La dernière révolution?, Les Conférences du Rouge-Gorge, Paris 2002, e la corrispondenza con Zˇizˇek pubblicata in appendice al volume Mao. De la pratique et de la contradiction, La Fabrique, Paris 2008.

5 Ph. Lacoue-Labarthe, La finzione del politico, trad. di G. Scibilia, Il Melangolo, Genova 1992; ed. or. La Fiction du politique. Heidegger, l’art et la politique, C. Bourgois, Paris 1988.

6 A. Badiou, Logiques des mondes. L’Être et l’événement, 2, Seuil, Paris 2006.

7 A. Badiou, L’essere e l’evento, trad. di G. Scibilia, Il Melangolo, Genova 1995; ed. or. L’Être et l’Événement, Seuil, Paris 1988.

8 A. Badiou, Ontologia transitoria, trad. di A. Zanon, Mimesis, Milano 2007 (ed. or. Court traité d’ontologie provisoire, Seuil, Paris 1998), che fa parte, insieme a Metapolitica (trad. di M. Bruzzese, Cronopio, Napoli 2003; ed. or. Abrégé de métapolitique, Seuil, Paris 1998), e all’Inestetica (a cura di L. Boni, Mimesis, Milano 2007; ed. or. Petit manuel d’inesthétique, Seuil, Paris 1998) della trilogia del 1998, sorta di transizione tra L’Être et l’Événement I e II.

9 «Inexistance», modellato sul neologismo di Jacques Derrida «différance», tradotto talvolta con ‘differanza’.

10 Verso del testo francese dell’Internazionale, che in effetti non è all’indicativo futuro ma al congiuntivo esortativo: «soyons tout».

11 A. Badiou, Il concetto di modello, trad. di G. Lanzi, Jaca Book, Milano 1975; ed. or. Le Concept de modèle, Maspero, Paris 1969, nuova ed. Le Concept de modèle. Introduction à une épistémologie matérialiste des mathématiques, Fayard, Paris 2007.

12 A. Badiou, Petit panthéon portatif, La Fabrique, Paris 2008. Il volume raccoglie una dozzina di omaggi ai pensatori scomparsi che più hanno contato per Badiou, da Sartre a Derrida.

13 A. Badiou, Théorie du sujet, Seuil, Paris 1982, reédition Fayard, Paris 2008.

14 A. Badiou, Portées du mot «juif». Circonstances, 3, Lignes-Leo Scheer, Paris 2005.

15 Sono appena usciti in Francia il Second manifeste pour la philosophie, Fayard, Paris 2009 e L’Antiphilosophie de Wittgenstein, Noos, Caen 2009.

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