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Senza margini. Appunti per l’autunno

di Sandro Mezzadra e Federico Rahola

Attorno alla Spagna, in queste settimane, stiamo assistendo al dispiegarsi di un nuovo capitolo del tentativo di costruire, con immane violenza, una nuova costituzione materiale dell’Unione Europea. All’ortodossia ordoliberale di stampo tedesco si associa una perentoria gerarchizzazione degli spazi, immaginata come al solito con poca fantasia: i margini dell’Europa sono la linea del fronte, e dal presunto centro si irradiano le linee guida di una terapia shock che punta a determinare una vera e propria trasformazione “antropologica”, secondo retoriche che ormai si incontrano negli stessi organi di stampa “liberal” dell’Europa settentrionale. Il neo-liberalismo mostra oggi interamente – a partire dalla generalizzazione del debito come principale dispositivo di governo – il suo fondo autoritario, punitivo e lavorista: ogni interstizio della vita va messo al lavoro, in un vero e proprio paradossale revival della teoria del valore-lavoro (si aumenta l’età pensionabile, si aboliscono le festività, si punta a far entrare prima possibile i giovani nel mercato del lavoro). Ma di quale lavoro stiamo parlando? Le statistiche sulla disoccupazione, in particolare giovanile, raggiungono soglie fino a poco tempo fa impensabili, le politiche di austerity hanno un effetto moltiplicatore sulla depressione economica, e ormai nessuno crede più davvero alla favola continuamente procrastinata di una ripresa di là da venire.

Davvero, come ha affermato in questi giorni Mario Draghi, l’euro è “irreversibile”?

Il fatto stesso che sia il governatore della Banca centrale europea a dichiararlo suona sospetto. L’impressione è che di irreversibile ci siano solo il carattere generale e pervasivo della crisi e l’incapacità delle politiche messe in campo a prefigurare una effettiva via d’uscita. Queste politiche stravolgono la costituzione materiale dell’Unione Europea (e dei singoli Paesi membri), generalizzano povertà, precarietà e sofferenza sociale, seminano terrore, ma lasciano intravedere all’orizzonte soltanto una prosecuzione della crisi in funzione della sua gestione. La stessa alternativa tra neo-liberali e neo-keynesiani, su cui indulge molta stampa, appare da questo punto di vista a dir poco fuorviante, considerata la genericità e l’assenza di esemplificazioni politiche delle posizioni che si riconducono al polo neo-keynesiano. La situazione europea, mentre non va dimenticato che la dinamica della crisi si approfondisce a livello globale (con il “rallentamento” di essenziali poli di sviluppo, dagli USA al Brasile alla Cina), presenta oggi caratteri paradossali, di blocco: le stesse geografie che vengono immaginate e imposte, con la ricostituzione di situazioni “periferiche” in Paesi come la Spagna e l’Italia, non sembrano avere alcuna possibilità di funzionare, nella misura in cui l’attacco ai consumi finisce per essere una minaccia per gli stesse Paesi che si pretendono “centrali”. Se la crisi non ha margini, non si capisce quali dovrebbero essere i nuovi “margini”: all’orizzonte si profila così una propagazione della stessa crisi all’interno del presunto “centro” dell’Unione Europea.

Crediamo che su questo punto si debba essere assolutamente chiari: la cura imposta non fa che riprodurre la malattia. La linearità catastrofica della crisi e della sua gestione non può quindi che essere interrotta dalla generalizzazione di un movimento di rifiuto e di rivolta, che coinvolga l’insieme delle figure sociali che ne stanno subendo la violenza. Tanto il febbraio greco quanto il luglio spagnolo hanno prefigurato questa generalizzazione, che si è innestata in entrambi i casi su una temporalità di medio periodo delle lotte dentro e contro la crisi che – pur con caratteristiche diverse (anni di sollevazione permanente in Grecia, le acampadas in Spagna) – avevano materialmente costruito un terreno nuovo. Altrove (in Italia, ma anche ad esempio in Portogallo e in Irlanda) le forme di resistenza si sono dispiegate in una dinamica maggiormente frammentata, con difficoltà a determinare momenti realmente ricompositivi. Superare questa frammentazione non può che essere il primo obiettivo per i prossimi mesi, attorno a cui costruire la più ampia convergenza di forze. E’ sull’assunzione della priorità di quest’obiettivo, solo in apparenza scontata, che andranno anzi verificati i comportamenti di tutti coloro che si pongono oggi in una prospettiva di costruzione di una radicale alternativa all’esistente. Alcuni elementi essenziali di programma politico – dalla costruzione di nuovi elementi di welfare attorno alle forme date della cooperazione sociale alla combinazione della lotta sul salario e sul reddito, dalla centralità dell’autogoverno dei commons alla lotta contro le privatizzazioni – sono ormai dati. Per approfondirli e per renderli immediatamente praticabili è necessario tuttavia aprire un nuovo spazio politico, e questo è possibile solo attraverso la generalizzazione del movimento di rifiuto e di rivolta di cui dicevamo. A noi pare che si possa da subito cominciare a lavorare a un progetto articolato su tre dimensioni, distinte analiticamente ma da gestire in modo combinato.

In primo luogo, si tratta di approfondire un movimento in senso proprio destituente, puntando ad affermare il dato dell’ingovernabilità dei margini, e cioè delle società europee maggiormente colpite dalla crisi, dell’impossibilità di determinare un’uscita neo-liberale da una crisi che è anche crisi del neoliberalismo. L’obiettivo delle mobilitazioni deve diventare immediatamente la caduta dei governi dell’austerity, entro un processo di combinazione e aggancio tra le mobilitazioni che continueranno a determinarsi in Paesi come la Spagna e la Grecia e di quelle che non possono non aprirsi in un Paese come l’Italia. I punti d’attacco di queste mobilitazioni possono essere i più diversi: indubbiamente le esperienze di lotta più significative degli ultimi anni in Italia (dalle mobilitazioni dei precari della cultura e dello spettacolo al movimento NOTAV) potranno giocare un ruolo importante, così come la riapertura di un fronte di lotta nella scuola e nell’università potrà funzionare da elemento moltiplicatore della mobilitazione. L’attacco generalizzato al pubblico impiego, del resto, determinerà movimenti di lotta che dovremo essere in grado di far uscire immediatamente da un terreno di mera resistenza (più o meno corporativa), ponendo il problema più generale di attribuire un nuovo significato comune alla istituzionalità complessivamente considerata. Ma il problema fondamentale, su questa prima dimensione, rimane quello di indirizzare complessivamente la mobilitazione verso l’obiettivo dell’ingovernabilità, ovvero di quella soluzione di continuità senza la quale non è possibile aprire un ragionamento e sperimentazioni pratiche su una diversa uscita dalla crisi.

In secondo luogo, si tratta di cominciare a costruire istituti di autogoverno che attivino forme di nuova “mutualità” e di tutela sociale contro gli effetti più violenti della crisi. L’esperienza argentina del 2001-2002 (le assemblee di quartiere, la sperimentazione della gestione diretta di servizi sociali, la generalizzazione dello scambio non monetario) continua a offrire esemplificazioni profondamente suggestive in questo senso, ma esperienze significative si sono diffuse anche in Spagna e in Grecia. Al di là dell’impatto immediato di queste pratiche nel fronteggiamento della crisi, non va sottovalutato l’effetto di medio periodo che possono avere, sotto il profilo della materiale costruzione di una nuova solidarietà, capace di sostenere processi di ricomposizione tra figure sociale diverse. Da questo punto di vista, ci sembra che un ruolo essenziale, in Italia, possa e debba essere giocato da due dei movimenti più importanti di questi anni: quello dei migranti e quello delle donne, o meglio più in generale sulle questioni della sessualità. Si tratta di movimenti che hanno profondamente inciso sul terreno della “vita quotidiana”, che hanno accumulato formidabili esperienze nell’affrontamento appunto quotidiano di razzismo e sessismo, e che hanno la potenzialità di garantire quell’apertura delle sperimentazioni attorno al tema dell’autogoverno che costituisce un elemento essenziale nel momento in cui riprendono terreno retoriche e pratiche di chiusura populistica, nazionalistica e xenofoba.

In terzo luogo (ma, lo ripetiamo: da subito), si tratta di associare a questo elemento di apertura che possiamo definire “intensiva” (rivolto cioè verso l’interno del tessuto sociale) un elemento di apertura “estensiva”. Già abbiamo detto che soltanto la concatenazione e l’aggancio tra le mobilitazioni in diversi Paesi europei, partendo da quelli più direttamente colpiti dalla crisi ma allargandosi ad altri, può determinare la soluzione di continuità oggi necessaria. Ma al tempo stesso, nel momento in cui ci si pone l’obiettivo immediato di far saltare l’architettura dell’Unione Europea così come si è andata radicalmente ristrutturando dentro la crisi, non si può che insistere sul fatto che non vi sono oggi soluzioni costruite attorno al “ritorno” alla sovranità nazionale. E’ dunque di vitale importanza moltiplicare immediatamente momenti di confronto e iniziativa politica a livello transnazionale (anche in questo caso: partendo dai Paesi più colpiti dalla crisi) per rendere praticabile l’obiettivo della riconquista di uno spazio europeo liberato dallo spettro del debito e dai dispositivi di comando che attorno al debito si sono organizzati rendendo intollerabili le nostre vite.

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