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utopiarossa2

Sul libro di M. Badiale e F. Tringali

Le trappole dell’antieuropeismo nazionalistico e del richiamo alla Costituzione

di Michele Nobile

Il libro di Marino Badiale e Fabrizio Tringali La trappola dell’euro (Asterios 2012) è da consigliarsi sia per il contributo analitico all’interpretazione della crisi dell’euro sia per la critica delle misure antipopolari di politica economica messe in atto nei paesi dell’eurozona e, in particolare, in quelli colpiti dalla cd. crisi del debito sovrano. L’interesse maggiore del volume risiede però, a parer mio, nella connessione tra impianto analitico e proposta politica. Quest’ultima si può riassumere nell’obiettivo di riconquistare la sovranità monetaria dello Stato italiano, uscendo dall’Unione europea e dall’Eurosistema, al fine di attuare una politica economica «per difendere i ceti medi e popolari, ed iniziare almeno i primi passi di un percorso che ci porti verso una reale alternativa alla distruttività del capitalismo contemporaneo» (p. 135).

La prospettiva formulata da Badiale e Tringali è ampiamente diffusa nell’area della sinistra più o meno antagonistica (ma anche nella destra radicale, per dirla tutta), per quanto non necessariamente con la stessa consapevolezza della posta in gioco e con la stessa coerenza logica dimostrata dagli autori. Leggere con attenzione critica questo libro può dunque essere utile per prendere coscienza dei presupposti e delle implicazioni di una linea che riconduca la lotta contro le misure antipopolari agli obiettivi complessivi della fuoriuscita dall’area dell’euro e dall’Unione europea e alla formulazione di una politica economica alternativa.


I punti d’accordo relativi all’analisi economica


Definire i punti d’accordo con Badiale e Tringali non è difficile.

Analiticamente, il minimo comune denominatore delle interpretazioni eterodosse della crisi che sta colpendo in modo particolarmente grave alcuni paesi europei è che essa non sia stata affatto determinata dal livello dei disavanzi di bilancio e dall’indebitamento lordo delle amministrazioni pubbliche. Prima della crisi solo la Grecia presentava già un ampio e persistente disavanzo di bilancio; per diversi anni il disavanzo pubblico del Portogallo fu paragonabile a quello della Germania, mentre alla vigilia della crisi i bilanci l’Irlanda e della Spagna erano rispettivamente in pareggio e in attivo (1,9%). E nel 2006 sia l’Irlanda che la Spagna presentavano un attivo pari al 2,9% del Pil, dei casi esemplari! Quanto ai debiti lordi delle amministrazioni pubbliche, nel 2007 quelli dell’Irlanda e della Spagna erano molto al di sotto della soglia del 60%, rispettivamente al 25% e al 36% del Pil; il debito lordo del Portogallo crebbe nei primi anni del secolo, ma nel 2005 e 2006 era quasi pari a quello della Germania. Il paradosso è che mentre l’indebitamento pubblico di Irlanda, Spagna e Italia si riduceva, aumentava invece quello della Germania, al 68% del Pil nel 2005-2006 e al 65% nel 2007, mentre anche l’indebitamento della Francia dal 2003 fu costantemente superiore alla fatidica soglia del 60% (64% nel 2007).


Fonte: Eurostat; elaborazione dell’autore.


Fonte: Eurostat; elaborazione dell’autore.

Come si vede dai grafici, si può affermare che la crescita dell’indebitamento pubblico sia l’inevitabile conseguenza della recessione economica, che riduce le entrate e aumenta le spese statali, a causa dell’azione degli stabilizzatori automatici e degli interventi discrezionali, tra cui i «salvataggi» delle banche private. In effetti, prima del 2007 era molto più importante l’indebitamento privato, mentre nel contesto di crisi la crescita della spesa pubblica è il corollario del crollo dell’investimento e del consumo privati. Viceversa, le misure di contenimento della crescita della spesa pubblica, il fiscal compact e la costituzionalizzazione dell’obiettivo del bilancio in pareggio, non possono che avere un ulteriore effetto depressivo, con ciò vanificando proprio l’obiettivo di risolvere la crisi fiscale e debitoria.

Inoltre, esiste un ampio consenso sul fatto che già prima del 2007 tra i paesi di Eurolandia esistesse un grave squilibrio macroeconomico, conseguente dai diversi ritmi di crescita delle componenti della domanda, il cui effetto è la divergenza dei saldi dei conti con l’estero.

Non c’è neanche disaccordo sull’idea che per uno Stato con moneta e politica monetaria e fiscale indipendenti, il margine d’autonomia delle politiche economiche e sociali sia molto più ampio che per un’economia aperta e che usi la moneta di altro Stato o che abbia comunque rinunciato, come nell’area dell’euro, a una politica monetaria autonoma. Del resto, a causa dell’unificazione monetaria e del divieto formale posto alla Banca centrale europea (ma violato nell’emergenza) di prestare ai governi degli Stati membri dell’eurozona, è inevitabile che all’unità monetaria facciano da complemento condizioni rigorose circa il debito pubblico. Il tentativo di fare dell’euro una delle valute-chiave del sistema monetario internazionale, a fianco del dollaro, sarebbe altrimenti votato a priori al fallimento.

Inoltre, se per le ragioni indicate più avanti e già ampiamente esposte in altri interventi, ritengo che porsi l’obiettivo di uscire dall’euro e dall’Unione europea sia politicamente fuorviante1, è importante che chi sostiene la tesi opposta sia consapevole, come gli autori, che «il recupero della moneta nazionale è “condicio sine qua non” per porre fine alle politiche distruttive che stiamo vivendo. Ma come abbiamo sposso ripetuto, altrettanto certamente si tratta di una condizione non sufficiente» (p. 135 e anche p. 96) e che «con gli attuali ceti dirigenti politici ed economici, una eventuale uscita dall’euro sarebbe gestita in modo da farne pagare il prezzo ai ceti medi e popolari» (p. 101). Due osservazioni che, con altre, potrebbero indurre gli autori a cambiare posizione. Inoltre, concordo ampiamente con la chiusa del libro:

«È bene però far tesoro degli insegnamenti della storia e quindi tener presente che un forte ruolo dello Stato nell’economia si accompagna al rischio di derive burocratiche, quando non addirittura autoritarie ed oppressive. Tale deriva è quasi scontata se le istituzioni dello Stato sono occupate da soggetti politici oligarchici e autoreferenziali, quali sono ormai diventati i principali partiti politici odierni, mentre può essere impedita se le decisioni politiche più importanti smettono di essere appannaggio di ristretti gruppi, e diventano il risultato di processi deliberativi trasparenti e partecipativi» (p. 145, corsivi miei).


Si dovrebbe aggiungere che non solo i partiti maggiori «naturalmente» candidati al governo, ma anche i partiti minori di sinistra, Prc, Pdci, Sel, sono caratterizzati da «derive burocratiche», essendo parte marginale della casta partitica, congenitamente orientati alla collaborazione subordinata con il Pd. La partecipazione diretta e l’accanita difesa del governo Prodi nel 2006-2008 è uno spartiacque definitivo nella storia della sinistra italiana, la prova ultima del fallimento di una sua «rifondazione» da parte dei soggetti post-Pci, manifesta nei risultati delle ultime due elezioni politiche. E, ancora, non bisogna dimenticare i sindacati: quegli apparati parastatali che sono i sindacati confederali, burocratizzati fin nel midollo, ma anche le divisioni, il settarismo e il personalismo che caratterizzano anche, e sventuratamente, i sindacati detti di base. Diciamo, allora, che un progetto politico complessivo come quello di Badiale e Tringali dovrebbe considerare più attentamente la condizione disperante nella quale versa la soggettività politica della sinistra italiana nel suo senso più ampio. Senza contare il grande assente: un movimento o un insieme di movimenti sociali e di massa di forza adeguata alla controffensiva capitalistica. Che è poi il fatto senza il quale i ragionamenti restano appesi per aria.


Sovranità monetaria e vincolo estero. Politica economica o lotta di classe?


Lo squilibrio macroeconomico europeo deve essere inquadrato nel più ampio squilibrio strutturale dell’economia mondiale capitalistica. Nel 2009, scrissi:

«I flussi di capitale “compensano” il deficit commerciale Usa ma riproducono lo squilibrio di base; le loro oscillazioni, in entrata e in uscita, possono essere destabilizzanti. Le bolle speculative alimentano la domanda mondiale, ma devono implodere. Germania e Giappone sono grandi esportatori, ma i surplus commerciali tendono a modificare i tassi di cambio e a ridurre la competitività. Gli stessi surplus commerciali non svolgono la funzione di “tirare” la domanda interna, come nel boom postbellico, ma ne presuppongono la compressione.

Si è costituita un’area comune europea, ma al prezzo di estendere all’Europa la logica mercantilistica del capitale tedesco: il risultato è la stagnazione continentale. O meglio, la riduzione dei tassi di crescita mentre, fatto apparentemente curioso, a dispetto dell’unificazione monetaria aumenta la divergenza reale tra i paesi. Questa divergenza è particolarmente evidente se si confrontano i saldi delle bilance dei pagamenti in percentuale del Pil (grafico 2). È da notare che nei primi anni del secolo la curva del tasso di crescita del Pil della Germania, leggermente minore di quella del tasso di crescita della zona dell’euro, tende a divergere dalla curva relativa alla bilancia dei pagamenti. Questo perché in Germania il contributo alla crescita della spesa delle famiglie è stato negativo dal 2002 al 2008 (con la sola eccezione del 2006): in questi anni la più importante economia del continente è cresciuta (debolmente) esclusivamente in forza delle esportazioni, la cui parte maggiore è destinata ai partner europei. Nello stesso tempo, quindi, il rapporto tra bilancia dei pagamenti e Pil peggiorava per tutte le altre grandi economie europee e i paesi mediterranei, mentre tendeva a migliorare per i piccoli paesi nordici, tradizionalmente esportatori. Nell’impossibilità di procedere a svalutazioni competitive, agli altri paesi dell’area dell’euro non resta che comprimere il costo del lavoro, non a causa della concorrenza cinese ma dei differenziali di produttività con la Germania. Nella situazione attuale ciò tende a rafforzare le tendenze deflazionistiche: anche quando in Europa il peggio sarà passato (per quel che riguarda la crescita del Pil e dell’investimento) bisogna aspettarsi alcuni anni di disoccupazione a livelli elevati. Ciò richiederà la collaborazione delle organizzazioni sindacali burocratiche e, ovviamente, i partiti della “terza via” sono quelli più adatti a garantirla.



Dunque, dentro lo squilibrio mondiale tra Usa, Germania, Giappone e Cina esiste uno squilibrio interno all’Europa, risultante dal mercantilismo neoliberistico del capitalismo tedesco. La gabbia dell’euro e dei parametri del trattato di Maastricht è contraddittoria perché aumenta la divergenza tra i paesi europei, al punto che ci si può chiedere, essendo l’area monetaria tutt’altro che “ottimale”, quanto essa possa durare. La contraddittorietà risponde però a un’esigenza di classe: che è quella di costringere i singoli capitali a intensificare lo sfruttamento del lavoro»2.


In prima approssimazione, la parte europea di questa lunga citazione può essere intesa come ulteriore elemento d’accordo con l’analisi di Badiale e Tringale. Essa mostra però anche che la crisi di Eurolandia è parte della crisi dell’economia mondiale e un riflesso della crisi del polo della domanda mondiale, gli Stati Uniti. Ora, se ci si pone nella prospettiva di una politica economica alternativa non basta prescrivere il ritiro dall’eurozona né rimedi positivi a livello nazionale. Bisognerebbe puntare anche a soluzioni cooperative su scala europea e mondiale. La linea de La trappola dell’euro è invece antieuropeista e nazionale, basata sulla riconquista della sovranità monetaria, mentre la prospettiva internazionale è essenzialmente negativa e difensiva, protezionistica. Comprendo che in questo si esprima il rifiuto di venire a patti col capitale estero e gli Stati imperialistici, in primis la Germania; tuttavia, è una linea che indebolisce molto le prospettive di una diversa politica economica e, specialmente, non è coerente con l’ambiguità inerente all’obiettivo di salvare l’economia nazionale capitalistica, sia pur con l’intenzione di trasformarla radicalmente. Altro è il discorso internazionale se invece ci si pone in una prospettiva coerentemente anticapitalistica e antistituzionale, quindi internazionalistica «dal basso».

Gli autori ritengono che, posto come obiettivo strutturale la riduzione delle importazioni, la svalutazione (della nuova lira) promuoverebbe le esportazioni. All’obiezione circa i maggiori costi delle importazioni conseguenti dalla svalutazione, in particolare di energia, rispondono che l’aumento del prezzo delle materie prime energetiche «stimolerebbe la riduzione dei consumi e soprattutto incentiverebbe l’aumento degli investimenti finalizzati a stimolare l’autoproduzione, lo sviluppo delle fonti interne, in particolare quelle rinnovabili, e le tecnologie utili al risparmio energetico» (p. 102). Il nocciolo della questione è però il rigetto di quelle misure e di quegli accordi internazionali che danno forma alla cosiddetta globalizzazione:

«lo Stato deve riprendere in mano tutti gli strumenti necessari per esercitare il proprio diritto-dovere di proteggere l’economia interna, dalla moneta nazionale alla possibilità di stabilire forme di limitazione alla circolazione di merci e capitali, e deve poter contare su una banca centrale che funga da acquirente residuale dei titoli del debito sovrano» (p. 137).


Tra le condizioni imprescindibili per limitare la circolazione di beni e capitali e acquisire le leve per controllare l’insieme dell’attività economica, aggiungerei la nazionalizzazione dell’intero sistema finanziario e il monopolio statale del commercio estero. Questo può essere implicito nella dichiarazione di principio, ma la chiarezza non guasta, anche perché permette di rendersi conto della portata del cambiamento politico che è il presupposto della riarticolazione dei rapporti economici dell’Italia con il resto del mondo. Ed è appunto questo il problema cruciale. A tavolino si possono elaborare tutti i piani di «salvezza nazionale» che si vuole (non mancano, né in Italia né all’estero), ma questi restano, accantonando valutazioni di merito, dei pii desideri che prescindono dai soggetti reali esistenti e dai rapporti di forza tra le classi. Prima di amministrarlo il potere occorre conquistarlo: la logica politica che presiede al rilancio delle lotte, alla loro generalizzazione e radicalizzazione, non è immediatamente la stessa cosa della politica economica e sociale che si può attuare dopo la vittoria. A proposito dell’ipotesi di referendum lanciata in Grecia da Papandreou prima delle sue dimissioni (novembre 2011) e subito ripresa in Italia scrissi:

«Abbiamo bisogno di lotte dure e determinate su obiettivi determinati e specifici. Abbiamo bisogno di vittorie parziali che restituiscano speranza e diano slancio ad altre lotte, che facciano maturare esperienze e coscienza, che da una situazione di mera difesa, per lo più disperata, possano portare a un cambiamento, se non a un ribaltamento dei rapporti di forza. Ma questo può darsi solo incidendo sui rapporti di forza effettivi nei luoghi di lavoro e di studio, attraverso la mobilitazione e lo scontro sociale capillare, non mediante campagne d’opinione, iniziative referendarie e manifestazioni-spettacolo» e più avanti: «Ma la questione cruciale è che obiettivi di lotta, effettivamente operativi, possono concretamente definirsi solo nel contesto di un movimento reale e specifico, in rapporto a quel che è possibile nei rapporti di forza dati e necessario per soddisfare determinate necessità sociali, favorire la presa di coscienza anticapitalistica e la convergenza dei movimenti sociali. Conta non l’ampiezza o la meticolosità nell’elaborazione della “lista della spesa”, ma chiarire la logica nella quale ci si muove ed entro la quale si vanno poi a definire obiettivi di lotta»3.


Metodologicamente non è senza effetto sul fine ultimo impostare la discussione partendo dagli obiettivi di politica economica, anche condivisibili, invece che dagli obiettivi di lotta di movimenti sociali di massa che, in una determinata congiuntura, estendono e radicalizzano la mobilitazione. Ed è questo il problema da risolvere, quello di ridestare le energie sociali e di concentrarle in un offensiva politica partendo dagli obiettivi di lotta specifici di movimenti reali. Poiché la politica economica presuppone che si sia al governo o che lo si voglia influenzare facendo parte della maggioranza parlamentare, si tratta di una logica coerente con la prospettiva della partecipazione elettorale e dell’integrazione nel sistema politico, quella seguita da vent’anni dalla sinistra post-Pci; è invece in contrasto con un orientamento coerentemente anticapitalistico e antistituzionale, il cui obiettivo è il rovesciamento della casta partitico-statale e dei rapporti di forza tra le classi.

Per chi scrive l’anello di congiunzione tra la mobilitazione contro il potere padronale e statale e la messa in opera di misure anticapitalistiche disponendo del potere politico è la costruzione di organismi dei movimenti in lotta contro i padroni e lo Stato, che possono essere l’embrione di una nuova forma di potere, sia nei modi politici (di espansione della democrazia, diretta e non, di autogestione) sia nel contenuto sociale (anticapitalistico e antiburocratico). In breve, le vittorie parziali e settoriali devono essere concepite in un processo di mobilitazione sociale e di radicalizzazione politica, il cui contenuto non sarebbe genericamente di liberazione nazionale e di salvezza dell’economia nazionale (capitalistica) ma di rivoluzione sociale.

Se invece della logica della mobilitazione anticapitalistica per rovesciare i poteri capitalistici esistenti si adotta quella della politica economica, fosse pure radicale e alternativa, allora giustamente si può scrivere che «lo Stato deve riprendere in mano tutti gli strumenti necessari per esercitare il proprio diritto-dovere di proteggere l’economia interna». Bisogna però chiedersi di quale Stato si sta parlando: che deve intendersi concretamente come lo Stato capitalistico (ovviamente riformato); ma questo Stato provvede già per suo conto a proteggere il capitale interno, che non è mai isolato da quello esterno così come l’economia di uno Stato imperialistico non si ferma mai ai confini nazionali (con ciò ostacolando, se non vanificando del tutto, politiche di mera difesa dell’economia interna). Prima di ogni valutazione nel merito delle proposte è questa la mia obiezione fondamentale a quanti assumono, come Badiale e Tringali, il punto di vista della politica economica «per salvare l’Italia».

Noto però una contraddizione interna al discorso di politica economica di Badiale e Tringali. Scopo della riconquista della sovranità monetaria nazionale non può che essere una politica reflazionistica di sostegno della domanda. Tuttavia, gli autori de La trappola dell’euro pensano nello stesso tempo alla crescita di investimenti pubblici «non tanto indirizzati a sostenere il reddito monetario, bensì destinati a fornire servizi pubblici di qualità, ed accessibili nonostante la diminuzione dei redditi monetari» (p. 143, corsivi miei), e a un sistema economico orientato alla decrescita della produzione di merci e alla crescita di beni demercificati.

Ora, bisogna scegliere tra una delle due alternative o, meglio, aver chiare le differenze di presupposti, tempi e modi.

Se per società della decrescita si intende un sistema socioeconomico orientato dai bisogni sociali (non capitalistici) ed ecologici e dai valori d’uso, invece che dal profitto e dai prezzi, allora si tratta di una società di transizione al socialismo, che presuppone l’abbattimento dei rapporti di potere e delle istituzioni del capitalismo. Si tratta di un processo di cui all’orizzonte non si vede l’inizio e che comunque comporta tempi lunghi. A questa transizione la sovranità monetaria è certamente necessaria, ma direi che si tratta di questione minore, ovvia, effetto conseguente a cause di straordinaria portata storica. Non è però una prospettiva immediata, utile per risolvere nel breve termine i problemi politici della fase, per il semplice motivo che la politica economica presuppone che si disponga del potere politico.

Di questo si è detto. La contraddizione interna risiede nel fatto che se il fine della riconquista della sovranità monetaria è il rilancio della domanda interna mediante la reflazione, l’iniezione di liquidità nel sistema economico grazie all’espansione del settore pubblico, la rinazionalizzazione dei servizi, il credito al settore produttivo privato, allora siamo in presenza di una politica «keynesiana», sia pure orientata anche alla qualità della produzione. Si tratta pur sempre di una politica che ha come obiettivo la crescita degli scambi economici, dei redditi monetari, dell’investimento, fosse anche caratterizzato da un certo grado di socializzazione dell’investimento, anche questo in spirito keynesiano. Ha senso insistere sulla sovranità monetaria se si intende attuare politiche fiscali e monetarie nazionali espansive: rimaniamo, cioè, ben dentro l’obiettivo della crescita del prodotto interno lordo, per quanto accompagnato dall’obiettivo a medio-lungo termine della riqualificazione della sua struttura. Rimaniamo dentro un «buon» capitalismo, un’economia monetaria e mercantile. Si può ipotizzare una politica economica e sociale di risparmio energetico, di lavori pubblici, di crescita dei servizi, ma tutto ciò non equivale automaticamente né alla decrescita né alla demercificazione. Un buon welfare-State attento all’ambiente rimane la politica sociale di uno Stato capitalistico di un’economia capitalistica avanzata (e imperialistica, almeno in termini socioeconomici se non necessariamente di attivismo militare).

Se quel che precede è vero, e lo è, allora non ha senso parlare di demercificazione e addirittura di riduzione del reddito monetario, che è assurdo in termini di rilancio della domanda aggregata e di crescita dell’occupazione in un’economia monetaria, anche precisando che la riduzione del reddito monetario verrebbe integrata da maggiori e migliori servizi sociali (che, comunque comportano una spesa che dovrebbe aggiungersi alla crescita dei redditi di lavoratori e pensionati).

Questa contraddizione interna del discorso politico-economico esprime l’ambiguità e la contraddittorietà dei fini posti nel libro: da una parte si tratta di salvare l’economia capitalistica italiana; dall’altra di uscire dal capitalismo muovendosi verso la decrescita, lo sviluppo sostenibile ecc. Diciamo che con la sovranità monetaria il capitalismo italiano potrebbe anche «salvarsi». Ma lavoratori e comuni cittadini dovrebbero pagare un caro prezzo: la decrescita praticabile entro l’economia capitalistica «salvata» non può che consistere nella stagnazione dell’investimento e nella crescita della disoccupazione.

Ipotizziamo, tuttavia, che politiche fiscali e monetarie espansive attuate in un solo paese capitalistico riescano a realizzare l’improbabile obiettivo di far crescere l’investimento e l’occupazione e, per questa via, la domanda monetaria interna (di merci, beni e servizi), i salari degli occupati e le pensioni ecc. Il che rimanda ai problemi dell’inflazione, una volta che si sia raggiunto l’obiettivo della piena occupazione, nonché delle importazioni e del vincolo estero.

Gli autori ne sono consapevoli, dato che scrivono che «la maggior domanda e la maggior propensione all’investimento che si generano grazie alle politiche keynesiane, possono finire per rivolgersi all’esterno e non all’interno del Paese che si è sobbarcato i costi dell’intervento statale» (p. 136). Ed è appunto per questo che auspicano il rifiuto della globalizzazione, cioè della libera circolazione di merci, servizi e capitali (un orientamento, anche questo, che può dirsi keynesiano, se non lo si assimila con una impraticabile e reazionaria autarchia).

Benissimo. Ma fino a che punto la sovranità monetaria comporta la sovranità economica? Fino a che punto si crede che le esportazioni promosse dalla svalutazione possano allentare il vincolo estero? Se l’euro salta, non potrebbe darsi un contesto di svalutazioni competitive e di stagnazione della domanda estera? Si pensa forse che il rilancio dell’investimento e la crescita dell’occupazione non comportino comunque la crescita delle importazioni di beni-capitale, di energia e di beni di consumo? Si pensa che un’economia capitalistica avanzata quale l’italiana possa essere autarchica?

Sottoporre a limiti e controlli i flussi di merci e di capitali (anche di persone?), rigettare la globalizzazione, non equivale all’autosufficienza.

Non basta parlare genericamente dell’effetto d’impulso alle esportazioni derivante dalla svalutazione. Occorre considerare due dimensioni strutturali: la composizione delle esportazioni (connessa alla struttura economica, al livello tecnologico e alla qualità dei prodotti, oltre che alla competitività in termini di prezzi) e le direzioni delle stesse: le specializzazioni merceologica e geografica delle esportazioni. Relativamente ad altri paesi avanzati, il capitalismo italiano è strutturalmente svantaggiato in entrambe le dimensioni. Il problema maggiore è dato dalla specializzazione merceologica: esso è preso tra l’incudine delle esportazioni ad alta tecnologia (e più alta produttività) di altri paesi a capitalismo avanzato, e il martello delle esportazioni di più basso livello tecnologico di paesi «emergenti» con bassi salari (il contenuto tecnologico delle cui esportazioni tende a crescere), essendo anche svantaggiato nelle produzioni basate su elevate economie di scala. La Cina è concorrente fortissimo anche nel tipico made in Italy: abbigliamento e arredamento, nelle fasce basse e medie. Ma esiste anche il problema geografico: il capitalismo italiano è indietro nella penetrazione dei mercati asiatici più dinamici e di Brasile, India, Russia. Le imprese italiane sono abbastanza agili per arraffare quel che possono dove possono, ma mancano di orientamento strategico; all’agilità non corrisponde la solidità delle grandi dimensioni e la qualità dello sviluppo tecnologico. La svalutazione non farebbe che confermare questo orientamento, senza intervenire sui problemi strutturali.

Tuttavia, nella letteratura internazionale esiste una linea che potrebbe servire, per i proponenti di una politica economica alternativa, a contrastare l’inflazione e a migliorare la posizione del paese nella divisione internazionale del lavoro. È la linea di un nuovo accordo progressista tra capitale e lavoro, centrato sul rapporto tra crescita della produttività e crescita dei salari e dell’investimento pubblico in infrastrutture, servizi, ricerca tecnologica e «capitale umano». In effetti questo è il pilastro portante di un keynesismo capace di interventi strutturali e di qualunque proposta di politica economica eterodossa. Si tratta di una prospettiva che ha una lunga e gloriosa tradizione accademica, le cui critiche all’orientamento neomercantilistico (o social-liberistico o neoliberistico come dir si voglia) sono fondatissime. Ammesso (ma non concesso!) che nel panorama della postdemocrazia esistano partiti disposti ad attuare questa linea, deve però essere chiaro che si tratta di riformare il capitalismo (dei paesi avanzati!) non di decrescita o di socialismo.


Intermezzo sulla politica di bilancio, l’autonomia della Banca centrale e la Modern monetary theory


Né Badiale e Tringali né il professor Bagnai, del quale riprendono l’analisi, aderiscono alla cosiddetta Modern monetary theory, acronimo Mmt; almeno, così mi pare e, nel caso, mi scuso per l’errore. Eppure, l’enfasi posta ne La trappola dell’euro sul discorso circa la sovranità monetaria permette di accostare questa prospettiva politica a quella teorica della Mmt. Intendo dire che i problemi concreti e non risolti sono comuni e, in entrambi i casi, si manifestano punti deboli simili. In effetti, chi pone al centro della prospettiva politica la questione della sovranità monetaria può trovare nella Mmt il riferimento teorico più rassicurante.

A scanso di equivoci dirò che gli economisti della Mmt sono tra coloro che hanno saputo cogliere per tempo i processi che hanno portato alla crisi del 2007-2008 e che buona parte dei loro argomenti sono ampiamente condivisi dagli economisti eterodossi e postkeynesiani.

I problemi nascono dal fatto che la Mmt «eccede», per così dire, nella sopravvalutazione dell’autonomia della politica fiscale e della creazione di moneta mediante la spesa pubblica. Si tratta di capire esattamente come si crei moneta in un’economia integralmente monetaria (l’unica della storia!) quale è quella capitalistica: il che, in definitiva, rimanda alla comprensione dei rapporti tra finanziamento dell’investimento di capitale e determinanti delle decisioni di investimento, tra produzione di merci e realizzazione del valore delle stesse, tra politica monetaria e politica fiscale, tra spesa del governo, Banca centrale e banche private. Va da sé che si tratta di questioni enormi; e se la critica teorica dell’ortodossia corrente è relativamente facile, il diavolo si nasconde nei dettagli, che possono essere molto importanti. Su questi gli economisti eterodossi non sono affatto unanimi, come è giusto in una dialettica scientifica.

La discussione intorno alla Mmt è però ulteriormente complicata dal fatto che ha assunto toni insoliti nell’ambiente accademico, principalmente ad opera dei suoi sostenitori. Il livello estremo dell’asprezza polemica, fino all’insulto personale, è stato raggiunto in Italia, ad opera dell’apostolo Paolo Barnard. Ne scrivo in questa sede solo perché la questione ha una certa rilevanza politica: si tratta della fede da zeloti nelle virtù terapeutiche della politica di bilancio che, appunto, è strettamente connessa a quella della sovranità monetaria. Il fenomeno ha caratteri tragicomici, considerato che, a mio parere, il più importante contributo teorico degli economisti italiani alla critica dell’ortodossia internazionale è proprio centrato sulla moneta e il circuito monetario: mi riferisco innanzitutto ad Augusto Graziani e a Riccardo Bellofiore4. Tuttavia, il successo di audience di Barnard e l’atteggiamento fanatico nei confronti della Mmt si possono spiegare come uno sgradevole sottoprodotto della spettacolarizzazione telematica della politica innestata su una sinistra culturalmente devastata, presa tra ingraianbertinottismo e operaismo o postoperaismo alla Negri e alla Tronti. Questo è il lato tragico della faccenda; quello comico è che si pretenda di aver trovato la verità teorica proprio in un campo così difficile e delicato, nel quale la discussione razionale è del tutto aperta. Ma il fenomeno della moda per la Mmt rimanda alla diffusissima fede del «popolo di sinistra» nell’interventismo statale e alla conseguente disperata necessità di elaborare una politica economica alternativa. In questo modo una particolare teoria diviene un mantra salvifico esclusivo, a cui fa da pendant uno sfrenato complottismo.

Sfrondata di quel che è teoricamente comune a postkeynesiani, kaleckiani, circuitisti e marxisti (almeno di quelli che non si limitano a riproporre il Capitale come se in un secolo e mezzo nel capitalismo nulla fosse cambiato), a me pare che, considerata nella sua specificità, la Mmt trasferisca nel campo della politica statale un presupposto armonicistico: e cioè che la spesa pubblica (di uno Stato con moneta propria) non abbia alcun bisogno di essere finanziata, se non per regole politicamente imposte, ovvero che il governo può spendere sempre e senza alcun problema. La questione è ulteriormente complicata dall’oscillazione tra la prescrizione di quel che dovrebbe essere la giusta politica economica e la descrizione di come effettivamente funzioni il nesso tra Banca centrale e Tesoro.

Senza addentrarsi in dettagli che qui non è il caso di approfondire, i punti deboli specifici della Mmt, come rilevati da economisti eterodossi che non mettono in discussione la necessità della spesa in deficit durante una recessione e/o per raggiungere la piena occupazione, derivano da tre presupposti:

a) la Mmt consolida la Banca centrale e il Tesoro, trattandoli come se fossero un’unica entità, il settore pubblico. Questo presupposto è stato criticato innanzitutto perché, con poche eccezioni come il Canada (pare), non costituisce affatto una descrizione realistica della prassi, al contrario di quanto sostenuto dalla Mmt. Nei termini più semplici la divergenza si può sintetizzare così: una cosa è dire che nella recessione occorra espandere il disavanzo pubblico perché questo, rilanciando la domanda e l’attività economica, crea le condizioni perché il disavanzo possa successivamente essere ridotto; altra cosa è affermare che il settore pubblico non abbia alcun bisogno di finanziarsi e che la tassazione o l’emissione di titoli di Stato non abbiano anche questo scopo. In questo caso si confondono Banca centrale e Tesoro, la politica di bilancio e la politica monetaria, la creazione di moneta da parte della Banca centrale (e delle altre banche con le operazioni creditizie) con il fatto che di norma la spesa pubblica debba essere finanziata attraverso le tasse, l’emissione di titoli o il prestito. La Banca centrale è, appunto, un agente bancario, il Tesoro no. La Mmt appare come la teoria di un sistema premoderno o antecedente l’istituzione delle banche centrali.

Nei termini più generali, la specifica ragion d’essere dell’autonomia della Banca centrale dal Tesoro si può intendere nella necessità di garantire il valore dell’equivalente generale, quindi della funzione della moneta quale espressione del valore. A fronte delle politiche dei governi l’autonomia della Banca centrale esprime l’imperativo di contenere l’azione statale entro determinati limiti, tali da riprodurre la differenziazione tra la sfera dello Stato e quella del mercato costituito dalle imprese capitalistiche. Questo è tanto più necessario quanto più sviluppati sono il sistema finanziario e la moneta si separa dal riferimento alla base aurea (la modalità originaria attraverso la quale si limitava la spesa pubblica o, piuttosto, si legittimavano i limiti dell’intervento pubblico nei rapporti socioeconomici).

Se come sistema integralmente monetario il capitalismo presuppone un organo statale quale è la Banca centrale, la Banca centrale porta dentro lo Stato la distinzione strutturale del sistema tra potere statale e potere delle istituzioni capitalistiche, sia che gestisca la lira che l’euro; se nel capitalismo la moneta è la forma nella quale si esprimono la connessione e la convalida (o la non convalida) dell’attività di una moltitudine di imprese private, l’autonomia della Banca centrale esprime nello Stato il carattere solo indirettamente sociale del lavoro. Se il sistema bancario e finanziario privato esprime in forma concentrata il potere del capitale, l’autonomia della Banca centrale rappresenta funzionalmente il capitale «in generale» dentro lo Stato.

Ammesso che la spesa pubblica crei moneta, anche in questo caso, come in quello del finanziamento bancario al capitale produttivo (che teoricamente si può ipotizzare pari al 100% dell’investimento), il circuito monetario deve essere chiuso: cioè, non solo devono effettivamente darsi nuovi investimenti, ma la nuova produzione di beni e servizi dev’essere realizzata in moneta sul mercato per rimborsare i debiti contratti al momento del finanziamento. Ma i capitalisti possono anche decidere di non investire, a causa dell’incertezza sui redditi futuri e/o perché preferiscono prima piegare i lavoratori alle necessità della concorrenza intracapitalistica attraverso la disoccupazione e la precarizzazione del lavoro; e, comunque, l’investimento di capitale è sempre una scommessa. Dunque, se la nuova produzione non è socialmente convalidata, il circuito non si chiude, i debiti non sono rimborsati. Il che si esprime nella riduzione del valore rappresentato dalla moneta e nel fatto che la spesa pubblica non genera un processo in grado di produrre entrate adeguate a finanziare il bilancio pubblico.

Se è falso il principio fondamentale dell’ortodossia liberale in tema di spesa pubblica, che questa spiazzi l’investimento privato, e se è vero che nel capitalismo la moneta è essenzialmente credito (o un rapporto sociale tra creditori e debitori) e che il sistema bancario crea moneta attraverso il credito, un’ipotetica espansione illimitata della spesa pubblica, quale potrebbe risultare dall’assimilazione del Tesoro alla Banca centrale, minerebbe il potere del capitale, che si incarna sia nel monopolio della proprietà dei mezzi di produzione sia nel monopolio dei mezzi di finanziamento, nelle frazioni del capitale produttivo e del capitale monetario. Mi pare che la Mmt voglia un’economia capitalistica senza gli inconvenienti derivanti dal nesso tra moneta e capitale e la sua espressione istituzionale in seno allo Stato.

b) In modo analogo a quanto accade per il settore pubblico
la Mmt consolida l’intero settore privato: il che, mentre fa scomparire la differenza tra salariati e capitalisti e tra settore finanziario e settore non-finanziario, non è pertinente a interventi miranti a ristrutturare la produzione sociale. Questa può però considerarsi un’obiezione minore.

c) Più grave è il fatto che la Mmt o presuppone
un’economia chiusa o sottovaluta gravemente il vincolo posto dall’esterno: la necessità di acquisire valuta, il nesso tra valore interno ed esterno della moneta, tra inflazione e svalutazione, tra saldi delle partite correnti e saldi finanziari, privati e pubblici. Questo è il punto immediatamente pertinente all’interpretazione della cosiddetta crisi del debito sovrano e alla questione dell’uscita dall’eurosistema come conditio sine qua non. E per quanto concerne la possibilità di finanziare la spesa pubblica, esiste un’enorme differenza tra il paese che dispone della valuta chiave del sistema monetario internazionale, gli Stati Uniti d’America, e un qualsiasi altro Stato.

Passando sopra le differenze tra Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna (e Italia e Francia), gli squilibri commerciali e finanziari europei non si sono determinati solo a causa della stagnazione della domanda interna della Germania e del neomercantilismo esportatore del capitale tedesco, alla cui competitività contribuivano le differenze dei cambi reali (quali risultano dai diversi tassi d’inflazione nell’eurozona). Gli squilibri sono stati risultato anche della crescita relativamente più veloce della domanda interna di alcuni paesi, per l’appunto temporaneamente agevolata dalla moneta unica, dalla riduzione dei saggi d’interesse e dall’esportazione di capitale da parte della Germania, e non solo. Per comprendere la crisi occorre tener conto di entrambe le facce della medaglia, dei due poli che solo insieme costituiscono la contraddizione, nello stesso tempo la ragione della crescita (temporanea e localizzata) e della crisi dell’eurozona nei primi anni del XXI secolo. Che, non bisogna dimenticarlo, è stata innescata dalla crisi statunitense ed è parte della crisi complessiva dell’economia mondiale capitalistica. Eppure, la diagnosi ha il suo peso sulla validità della terapia: nel senso che la fuoriuscita dall’eurozona di per sé non assicura il rilancio della crescita e dell’occupazione, che i problemi cronici e strutturali del sistemi produttivi (capitalistici) nazionali siano risolti e che questo accada in tempi brevi; né pone al riparo da crisi conseguenti dall’avvitarsi di svalutazione e inflazione e neanche da svalutazioni competitive. Questi non sono rischi inventati dagli eurocrati e dai paladini dell’austerità, sono rischi assai concreti e reali.

I ragionamenti di questo e del precedente paragrafo non vogliono essere una perorazione a favore della permanenza nell’eurozona in ogni caso. Chi scrive non è fautore dell’euro più di quanto sia fautore della lira. Potrei dire, se non lo trovassi un po’ ridicolo, di essere egualmente contro l’uno e contro l’altra, perché sia la lira (o la dracma, il franco, il marco ecc.) che l’euro sono espressioni del potere del capitale. Lo scopo di questi ragionamenti è la problematizzazione dell’idea che la fuoriuscita dall’euro e la sovranità monetaria, sia pur combinate con politiche che si potrebbero dire di keynesismo strutturale, costituiscano senza dubbio e senza seri problemi una panacea socioeconomica. Ciò che voglio evidenziare è che i discorsi in termini di politica economica alternativa evadono i problemi politici che sono a monte della possibilità di praticarla e che, per questo motivo, risultano falsamente realistici, anche ammettendo che possano essere validi.

Se Badiale e Tringali temono che «il destino del nostro Paese in caso di permanenza nell’euro» sia «una decadenza che distruggerà la civiltà sociale e ci trascinerà in una condizione da Terzo Mondo» (p. 106), allora bisogna dire che non si può affatto escludere che nel caso si ritorni alla lira il destino del Paese sia proprio questo.

Da cosa dipende, allora, il destino del Paese? Il punto cruciale non sono i ragionamenti su quel che si potrebbe fare o non fare qualora si rompa con l’euro o salti l’eurosistema, ma la politica da attuare prima e indipendentemente da questo, il fine politico che ci si propone. Non si tratta di porre l’alternativa fuori o dentro l’euro ma un’altra: «salvare l’economia nazionale» proponendo una politica economica per la ripresa del capitalismo italiano (e della sua riforma strutturale) o difendere gli interessi immediati della classe dominata creando le condizioni per una controffensiva anticapitalistica (che potrebbe comportare l’uscita dall’eurosistema)?

Se si sceglie la seconda opzione allora tutto il discorso sulla politica economica alternativa e l’uscita dall’euro è fuori tempo e fuori luogo. Il problema del potere e della formazione della soggettività sociale anticapitalistica precede quello della politica economica.


Il richiamo alla Costituzione dello Stato capitalista italiano: una posizione politicamente arretrata e interclassista


Dal mio punto di vista, dalla lettura de La trappola dell’euro emerge un paradosso: da una parte, nel caso l’Italia resti nell’eurozona, gli autori delineano un quadro catastrofico che, se preso alla lettera, pesa quanto una montagna; dall’altra, come proposta politica, partoriscono il classico topolino.

Se è vero che la centralità degli obiettivi dell’uscita dall’eurozona e dall’Unione europea differenziano la linea di Badiale e Tringale dalla sinistra forchettonica, è pur vero che alla fine la loro prospettiva complessiva non è affatto alternativa a quella tradizionale della sinistra. Si tratta della medesima logica che, con un ulteriore passo avanti dettato dallo pseudorealismo, portò e tuttora porta a cercare l’accordo col centrosinistra, del tutto organico al sedicente neoliberismo incorporato nei trattati europei, o a sperare che un giorno questo possa realizzarsi (giorno piuttosto lontano, vista la formazione del governo Letta di «unità nazionale» che, finalmente, affratella le due ali politiche del capitalismo nazionale). Badiale e Tringale il passo non lo fanno e questo va a loro onore. Il problema politico però rimane: vediamo perché.

In diversi punti gli autori si richiamano alla Costituzione della Repubblica italiana:

«la nostra Costituzione viene imbrigliata nella camicia di forza del pareggio di bilancio. Ne viene stravolto l’equilibrio dei poteri (...) reso più difficile l’accesso alla rappresentanza per i nuovi soggetti politici» (p. 94); «la nostra Costituzione, formalmente ancora valida ma purtroppo da decenni contraddetta (...) bloccherebbe gli sviluppi più distruttivi del capitalismo attuale» (p. 121).


È sorprendente che ancora nel 2012, quando è stato pubblicato il libro, si possa pensare a una prospettiva anticapitalistica che si richiami alla Costituzione repubblicana. Ritorna il mito della Costituzione «nata dalla Resistenza» piuttosto che da un accordo tra i due principali partiti antifascisti, il comunista e il democratico cristiano, ciascuno attento, nell’elaborare il disegno istituzionale in sede di Assemblea costituente, a garantirsi dalla vittoria elettorale dell’altro. Costituente e Costituzione furono l’approdo di una politica di collaborazione di classe antirivoluzionaria che s’inseriva nella divisione dell’Europa in aree d’influenza rispettivamente tra le potenze imperialistiche e l’Unione sovietica staliniana: l’Italia, come la Grecia, rientrava nell’area degli alleati «occidentali». Può dunque dirsi che, se da una parte la politica del Pci e del Psi (più complesso il caso del Partito d’azione) nella Resistenza mirò a mantenere la guerra popolare entro i limiti della lotta di liberazione nazionale dal nazifascismo, inteso come coalizione tra l’invasore germanico e il suo vassallo italiano, lo sbocco politico complessivo, sancito nella Costituzione, fu l’integrazione subordinata dello Stato italiano nel blocco centrato intorno agli Stati Uniti. In altri termini, lo sbocco fu la negazione di un’autentica decisione sovrana e popolare. Tanto è vero che nella redazione finale dell’articolo 75 relativo all’istituto del referendum popolare, non solo questo venne limitato all’«abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge», ma vennero esplicitamente esclusi referendum «per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali». Senza dimenticare, in tema di trattati internazionali, che lo stesso testo costituzionale incorporò, addirittura tra i princìpi fondamentali, i Patti Lateranensi stipulati da Mussolini col Vaticano.

Per chi vuol riaffermare la sovranità dello Stato italiano il richiamo alla Costituzione è peggio di un’arma spuntata: è l’uso maldestro di un boomerang.


Tuttavia, il punto più importante è un altro. La carta costituzionale fu il legittimo approdo di una politica volta a ricostruire lo Stato capitalistico e imperialistico italiano: essa delinea l’ossatura istituzionale di uno Stato di classe, sia nei titoli e negli articoli relativi all’ordinamento dei poteri e degli istituti repubblicani, sia negli articoli relativi ai rapporti socioeconomici.

Si prenda il Titolo terzo della prima parte della Costituzione, sui rapporti economici: esso presuppone e regola, il rapporto di lavoro salariato e l’impresa capitalistica. Il lavoratore salariato va tutelato (artt. 35-40 e 46); ma tutelare la parte di un rapporto sociale significa anche riprodurre e tutelare l’altra parte di quel determinato rapporto che, nel nostro caso, è quello capitalistico: difatti, «l’iniziativa economica privata è libera» (art. 41, comma primo), «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge» (art. 42).

La Costituzione italiana è talmente capitalistica che, nello stesso articolo nel quale si postula l’incoraggiamento e la tutela del risparmio, si afferma esplicitamente la molteplicità degli istituti di credito (appunto per questo motivo da coordinare e controllare), in modo coerente con la libertà dell’iniziativa privata, e, addirittura, si pone come compito della Repubblica favorire il «diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese» (art. 47). Si presuppone cioè un’economia integralmente monetaria e la promozione del salario risparmiato nel finanziamento del grande capitale delle società quotate in borsa.

Certamente, è possibile richiamare l’indicazione programmatica dell’articolo 3 della Costituzione:

«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».


Ma cosa vuol dire «l’effettiva partecipazione»? S’intende, ad esempio, «il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende» (art. 46). L’orizzonte massimo della partecipazione è qui la cogestione, nei limiti delle leggi, ovvero della collaborazione tra le classi nella quale, comunque, ai salariati spetta una posizione subordinata. Certamente, la Costituzione delinea uno spazio politico da definire normativamente nel tempo: si tratta di un assetto liberaldemocratico.

Tuttavia, la partecipazione auspicata dai costituenti è l’integrazione del cittadino-lavoratore all’interno dell’ordinamento politico ed economico della società capitalistica italiana in divenire entro i limiti del rapporto sociale capitalistico.

Una cosa è difendere e lottare per estendere i diritti democratici e le garanzie contro lo Stato o conquistare riforme sociali; un’altra pensare che una strategia anticapitalistica possa valersi del richiamo alla Costituzione dello Stato capitalistico.


Ieri la lotta di liberazione nazionale contro il nazifascismo, oggi la lotta di liberazione nazionale contro gli eurocrati?


Dove ci porta tutto questo? In definitiva non è che una variante della più antica e persistente illusione della sinistra italiana, quella della togliattiana democrazia progressiva. Che si basava proprio sui passi programmatici della Costituzione, quelli meno definiti e più ideologici nel senso deteriore del termine.

Ripeto, è sorprendente vedere come il mito della democrazia progressiva resista nell’inconscio politico della sinistra nazionale, tanto più forte e ingenuamente dichiarato quanto più i presupposti politici sono appunto quelli del Popolo e della Nazione.

Questo togliattismo ingenuo, passato nei decenni attraverso tante riformulazioni che ne hanno lasciato invariato il nucleo essenziale, ritorna nel lessico e nell’indicazione politica. Per Badiale e Tringale occorre:

«Un nuovo CLN e una nuova lotta di liberazione nazionale, nella consapevolezza del recupero della sovranità nazionale e della messa in discussione dei principi economici della globalizzazione, a partire dalla libera circolazione di merci e capitali» (p. 134).


Badiale e Tringali criticano «l’estremismo di sinistra» che tratta il capitalismo come un’astrazione, non rendendosi conto che esso esiste sempre in una data forma istituzionale. Concordo. Infatti la lotta contro la postdemocrazia è parte integrante della lotta contro il capitalismo: ed è anche per questo che considero il richiamo alla Carta costituzionale un punto di vista errato e arretrato. Inoltre, non ho mai avuto il più piccolo dubbio che il progetto sviluppato da Delors e poi l’obiettivo dell’unificazione monetaria siano stati progetti capitalistici. Né dubito del fatto che il disegno istituzionale dell’Unione europea sia il caso esemplare di regime postdemocratico, espressione (più che causa) dei regimi postdemocratici nazionali che, a sua volta, contribuisce a rafforzare5. L’Ue non è la «mia» unione politica europea; e non lo è anche perché, e qui la prospettiva è diversa da quella degli autori de La trappola dell’euro, non è una vera unione politica ed economica. Al momento questa sembra impossibile nel quadro del capitalismo.

Sostenere che l’Ue e l’unificazione monetaria siano espressione delle tendenze postdemocratiche nazionali, che vanno inquadrate e spiegate nel contesto delle trasformzioni dell’economia mondiale, che esista una dialettica tra il livello europeo o interstatale e il livello nazionale, non è indifferente nella definizione del nemico, cioè del capitalismo nella sua determinata forma storica istituzionale, e della prospettiva politica.

Badiale e Tringali respingono come un non-senso l’idea che l’Unione europea sia democratizzabile: e anche su questo concordo. Tuttavia, non è solo l’Ue a non essere democratizzabile: sia pur ammettendo per ipotesi (molto discutibile) che i parlamenti nazionali siano mai stati istituti democratici nel senso pieno del termine, di certo non lo sono più ora, in regime postdemocratico. Questo, però, significa anche che, come la costruzione e l’espansione della democrazia possono darsi solo contro le istituzioni parlamentari esistenti, allo stesso modo non è seriamente concepibile che la sovranità nazionale possa concretizzarsi in tali parlamenti e nell’ambito della costituzione vigente.

La costruzione delle istituzioni europee è stata fin dall’inizio opera delle élite e, certo, come scrivono gli autori, non si tratta di processo con risonanza nell’immaginario popolare, tale da giustificare un qualche sentito giorno di festa, se non per sottrarsi alla routine del lavoro. Deliberatamente, le istituzioni europee sono state concepite a distanza dai popoli, come strumenti di gestione, cooperazione e mediazione del conflitto tra i vertici delle burocrazie partitico-statuali nazionali e le grandi imprese, le associazioni e le lobbies del continente, originando anche uno strato burocratico paneuropeo.

Ma non c’è motivo di contrapporre questa costruzione europea alla politica e ai parlamenti nazionali. Non è che i sedicenti istituti rappresentativi della volontà del popolo «sovrano» siano stati costretti, prevaricati e sopraffatti da una qualche dittatura paneuropea con sede a Bruxelles o dalla oscura forza dei think tank. L’evolversi e l’articolarsi della non-democrazia europea non è altro che espressione dell’evoluzione postdemocratica sul terreno nazionale: sarebbe altrimenti difficile capire come sia stato possibile che divenissero presidenti della Commissione europea politici nazionali del calibro di Jacques Delors, Jacques Santer, Romano Prodi o José Barroso. Certo, il livello europeo retroagisce su quello nazionale, ma intendere l’insieme del processo decisionale come un movimento unidirezionale è fuorviante.

Ritengo fuorviante dire che «la moneta unica europea e l’Ue sono la forma storica che si è dato il capitalismo odierno in Europa», e anche che «chi voglia lottare contro il capitalismo, oggi in Europa, non può che riconoscere quelli come i principali nemici» (p. 133).

È fuorviante innanzitutto perché l’euro e l’Ue non sono il capitalismo odierno in Europa: non esiste un unico capitalismo europeo che prescinda dai singoli capitalismi «nazionali». L’interdipendenza tra i capitalismi europei è certamente notevole ma, appunto, l’Europa non è un’area economica ottima perché non è un unico capitalismo e, quindi, non è neanche un unico imperialismo. Non esiste un super-Stato europeo: ed è appunto per questo motivo che può esistere una crisi del debito pubblico di alcuni Stati. Inversamente, se l’Ue fosse uno Stato come gli Stati uniti d’America, allora potrebbero esistere un’unica politica fiscale e trasferimenti dal governo centrale alle singole regioni nazionali. L’Ue e ancor più l’eurosistema sono un ibrido originale.

Dunque, se la Commissione europea e la Bce sono un problema e un nemico, non sono il nemico principale. Assumerli come tali significa adottare una prospettiva politica per cui prima si deve riconquistare l’indipendenza nazionale o la sovranità monetaria e poi mettere in atto delle politiche anticapitalistiche di trasformazione sociale. Appunto, un nuovo Cln. Ieri la lotta di liberazione nazionale contro il nazifascismo, oggi la lotta di liberazione nazionale contro gli eurocrati? Aggiorniamo Togliatti?


Badiale e Tringale criticano il genere d’europeismo della sinistra post-Pci, in particolare di Rifondazione comunista, che è parte della Sinistra unitaria europea nel parlamento di Strasburgo. Il fine è buono, il metodo sbagliato.

Uno dei passaggi politicamente più significativi del libro è dedicato a quella che gli autori definiscono «la passione per l’Ue tipica della sinistra italiana, in evidente crisi di identità dopo l’Ottantanove». Essi suggeriscono che questa passione sia espressione della «sostanziale disistima di sé che è uno dei dati più negativi del senso comune del popolo italiano» (p. 110). Questa idea non è approfondita, ma gli autori sembrano suggerire che «disistima» e «autosvilimento» possano farsi risalire all’utilizzo fascista dell’«orgoglio nazionale» e alle sue catastrofiche conseguenze.

Neanch’io approfondirò il tema in questa sede. Mi limito a considerare che questa carenza d’«orgoglio nazionale» può farsi risalire alle modalità dell’unificazione italiana sotto i Savoia e, in termini ancor più generali, alla profonda contraddittorietà della formazione sociale italiana, l’unica tra i paesi a capitalismo avanzato a presentare un dualismo socio-economico di così vaste dimensioni e così polarizzato tra Nord e Mezzogiorno. Oppure, a quel particolare cinismo morale, frutto della combinazione di arretratezza sociale e moderna «strage delle illusioni», di cui discorreva Giacomo Leopardi, ancor prima del Risorgimento: fatto diffuso tra tutte le classi sociali, ma nel quale è proprio la classe dominante ad eccellere: «le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni»6. Con termini odierni, può dirsi che Leopardi concettualizzasse la peculiarità della cultura delle classi dominanti italiane attraverso gli effetti dello sviluppo ineguale e combinato della modernizzazione capitalistica. Francamente, il criterio mi pare tuttora valido: e le sue implicazioni notevoli.

E può anche essere che i gruppi dirigenti della sinistra post-Pci, in fondo, nutrano «un profondo disprezzo di sé»: sarebbe cosa del tutto giusta. Tuttavia, la vuotezza di costoro si misura piuttosto con l’ineffabile faccia di bronzo con la quale si presentano e ripresentano come leaders e rinnovano sempre la stessa logica politica, retta dal principio del calcolo elettorale in combinazione con fasi «movimentistiche».

Badiale e Tringali generalizzano scrivendo che richiamarsi al «popolo europeo» per costruire un’«altra Europa»,

«non può rappresentare una proposta politica: la nascita di un popolo europeo sufficientemente unito può essere un nobile ideale culturale cui dedicarsi, ma certamente la sua ipotetica realizzazione va collocata in un futuro lontano almeno qualche decennio, se non qualche secolo», ragion per cui: «le uniche cose che attualmente, in queste condizioni, si possono fare, sono le lotte a livello nazionale (...) (p. 115)».


Forse mi sbaglio, ma a me pare che questo sia il presupposto, quanto a visione del mondo e mentalità, dell’intero libro.

Perché non può esistere un popolo europeo? Perché, scrivono Badiale e Tringale, non esiste una lingua comune, quindi non esistono mezzi di comunicazione a tutti egualmente accessibili che consentano la formazione di un’opinione pubblica continentale; e neanche esiste una mescolanza di popolazioni e legami «molecolari» tali da creare un senso di comune appartenenza (p. 113.).

E sia, non esiste un popolo europeo. E allora? Quel che può esistere è però qualcosa che statisti, strateghi e ideologi degli Stati imperialistici conoscono benissimo e che fanno del loro meglio per prevenire: lo chiamano «effetto domino». Si tratta di qualcosa che ha coinvolto paesi tra loro lontanissimi come gli Stati Uniti e il Vietnam, il Portogallo e l’Angola e che si è visto negli anni immediatamente successivi al 1917 o nel 1968. Questo qualcosa si indicava un tempo come rivoluzione permanente o più genericamente come internazionalismo, ed è sempre stato l’obiettivo della migliore sinistra rivoluzionaria, marxista, marxista libertaria e anarchica (sempre e comunque antistalinista). Non c’è nessun dubbio che si tratti di un obiettivo assai difficile e non c’è ragione di essere ottimisti.

Ma mi sembra assai improbabile, se non impossibile, che una qualsiasi politica economica alternativa possa essere abbozzata e ancor meno sostenuta in un solo paese, in assenza di un moto dei popoli dei diversi Stati europei. E mi sembra anche che escludere a priori tale possibilità è condannarsi all’impotenza.

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Note

1) Si vedano i capitoli 10 e 11 di Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, di Michele Nobile, Massari editore, Bolsena 2012, anche nel blog di Utopia rossa,
http://utopiarossa.blogspot.it/

2) Michele Nobile, «La crisi nel contesto storico e la neortodossia di Obama», ibidem, pp. 37-9.

3) Michele Nobile, «Ancora un referendum? No, basta. Il referendum sulle politiche del governo
lo facciamo con la lotta di massa e l’Antiparlamento dei movimenti sociali», ibidem, pp. 268 e
271-2.

4) Un saggio di Bellofiore è presente nella recente antologia curata dal più noto esponente
della Mmt, L. Randall Wray: Theories of money and banking, vol. I. Development of heterodox
approaches to money and banking
, Elgar, Cheltenham, Northampton (Mass.), 2012.

5) Su questo consiglio la lettura di The new old world di Perry Anderson, Verso, London 2011.

6) Giacomo Leopardi, «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani», in Tutte le
opere
, a cura di Walter Binni, Sansoni, 1969, p. 975.

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