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marx xxi

Crisi della democrazia e organizzazione dei comunisti*

di Alexander Höbel

1. Movimento operaio, comunisti, democrazia

Perché affrontare insieme i temi della crisi della democrazia e dell’organizzazione dei comunisti? La risposta è in qualche modo scontata. La vicenda storica del movimento operaio, socialista e comunista, è stata strettamente intrecciata allo sviluppo della democrazia, dalle rivoluzioni democratiche del 1848 alla sperimentazione di un modello democratico inedito con la Comune di Parigi, dalle lotte per l’allargamento del diritto di voto e per il suffragio universale all’affermarsi dei partiti di massa socialdemocratici e socialisti tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, dal peso crescente che essi acquisirono – si pensi al Psi in Italia in seguito all’introduzione del sistema proporzionale – al modello “democratico-sociale” affermatosi in vari paesi nel secondo dopoguerra; e anche qui con una importanza non secondaria del “caso italiano”, segnato in modo rilevante dalla presenza del Pci, ossia del partito comunista più forte del mondo occidentale, un partito di massa che aveva fatto la sua bandiera proprio del progetto di via democratica al socialismo e che era riuscito a collocare l’idea di democrazia progressiva nella stessa Carta costituzionale1 .

A partire dal 1789, l’Europa vede dunque un progresso economico e politico e un costante avanzamento della democrazia (certo, con momenti di arresto e di regresso anche gravi), nel quale il movimento operaio nuota come nel mare che gli è più congeniale.

E questa caratteristica, sia pure in forme diverse e nuove, si trasmette al movimento comunista, dall’esperienza dei soviet e della democrazia socialista che si cerca di attuare nella Russia post-rivoluzionaria alla vicenda dei Fronti popolari in Francia e soprattutto nella Spagna repubblicana, dove Togliatti vede formarsi una “democrazia di tipo nuovo”, frutto di una “rivoluzione popolare antifascista” che non è ancora una trasformazione socialista ma va in quella direzione; fino ad arrivare alle esperienze del secondo dopoguerra, dalla già ricordata democrazia progressiva del Pci al modello autogestionario jugoslavo, dal tipo di democrazia socialista impostosi a Cuba agli ulteriori tentativi di via democratica al socialismo come quello di Unidad Popular nel Cile di Allende.

Certo, il rapporto tra movimento operaio e democrazia non è stato sempre idilliaco, ci sono stati guasti, regressioni e storture che sarebbe sbagliato rimuovere. E tuttavia sul piano storico un medesimo processo, di progresso sociale e avanzamento democratico, è andato avanti a lungo, e il movimento operaio ne è stato un protagonista essenziale.


2. La risposta dell’avversario. Crisi della democrazia rappresentativa e ritorno delle élite


Naturalmente, se assumiamo che il movimento operaio e il movimento comunista sono cresciuti nel contesto storico della democrazia che avanzava, non possiamo non porci il problema di come cambiano il loro ruolo, i loro compiti e la loro organizzazione in una fase storica ben diversa come quella apertasi nel 1989-91; una fase che, a dispetto della retorica occidentalista che identificò in quelle date l’inizio di una nuova rivoluzione democratica, ha visto invece un costante arretramento della democrazia, in termini sostanziali e anche formali, nel quadro di un complessivo processo di restaurazione (sebbene, come ha notato Raffaele D’Agata, si tratti di una “restaurazione imperfetta” e tutt’altro che incontrastata, e non manchino gli elementi di controtendenza2).

A ben guardare, peraltro, questo processo involutivo era iniziato ben prima dell’indimenticabile 1989, e cioè alla metà degli anni Settanta, allorché i vertici e le “camere di compensazione” del capitalismo internazionale (e ormai transnazionale), dal Gruppo Bilderberg alla Trilateral, cominciarono a parlare di “eccesso di democrazia”. The crisis of democracy è appunto il titolo di uno dei primi documenti della Trilateral, del 1975: uno degli autori era quel Samuel Huntington diventato poi tristemente famoso con la sua teoria dello “scontro di civiltà”, ma il testo poteva fregiarsi anche di una nota introduttiva di Zbignew Brzezinski – direttore della Trilateral, consigliere del presidente Carter, anticomunista accanito, tra i maggiori artefici della “seconda guerra fredda”. Il problema che si poneva era appunto quello di un “surplus” di rappresentanza, di un “sovraccarico” di quelle domande sociali emerse negli anni precedenti, che – secondo Huntington e soci – determinavano una “crisi di governabilità”, per cui era proprio sulla governabilità che bisognava rimettere l’accento anziché sulla rappresentanza, la partecipazione e la democrazia3.

Ora, qui non si tratta di essere “complottisti” o di individuare le origini di processi storici in singoli personali o gruppi, ma piuttosto di essere consapevoli del fatto che esistono dei limiti oggettivi, strutturali, oltre i quali il sistema non può andare, se non vuole collassare e far posto a una forma di organizzazione sociale più avanzata. Ed è ovvio che il sistema cerchi di sopravvivere e si difenda usando ogni arma a sua diposizione. A ben pensarci, è una dinamica storica ricorrente: ci sono voluti conflitti e rivoluzioni per far accettare alle classi dominanti l’idea di parlamenti rappresentativi e Carte costituzionali; all’indomani della Prima guerra mondiale e dell’Ottobre, allorché in Italia socialisti e popolari erano ormai largamente maggioritari e al contempo la classe operaia andava creando i suoi organi di gestione e di potere nelle fabbriche, le classi dirigenti italiane hanno risposto col fascismo, e il fenomeno si è poi internazionalizzato; e così ancora negli anni Settanta, di fronte all’avanzare delle lotte sociali e politiche e dei partiti espressioni del movimento operaio, e a una democrazia che stava diventando “troppo rappresentativa”, si decise di porre un freno, avviando una controffensiva ideologica (le tesi sullo “Stato sovraccarico”, le “teorie della complessità” di Luhmann, ecc.), e al tempo stesso muovendo passi molto concreti in tal senso.

Va detto peraltro che i comunisti, almeno in Italia, percepirono “in tempo reale” quanto stava accadendo: è del 6 ottobre 1977 un articolo dell’Unità dal titolo La democrazia rifiutata, nel quale si sottolineava che la nascita della Trilateral rispondeva a “un preciso progetto di egemonia politica internazionale di David Rockefeller, fratello più giovane di Nelson Rockefeller [...] portavoce riconosciuto della comunità bancaria mondiale”, e ai fini di una necessaria “limitazione” della democrazia proponeva tra l’altro “un drastico ridimensionamento dell’educazione superiore” e una sua “subordinazione [...] alle dimensioni del mercato del lavoro”, oltre a una decisa limitazione della libertà di stampa4.

Il cosiddetto “piano di rinascita democratica” della P2 è dunque solo la traduzione italiana di un progetto di ben più ampia portata, che certo trovava nell’Italia uno degli scenari più delicati rispetto ai quali agire. Non a caso, l’anno in cui il piano risale è quel 1976 che vide la grande avanzata del Pci alle elezioni politiche; un’avanzata che aveva impensierito non poco le classi dominanti italiane e i circoli imperialistici internazionali.

Non a caso, già nel 1970 il generale Westmoreland, all’epoca Capo di Stato maggiore dell’esercito statunitense, agli ordini dell’amministrazione Nixon, aveva redatto un Field Manual, un documento riservato intitolato Operazioni di stabilità e Servizi segreti, contenente la direttiva di “destabilizzare per stabilizzare” e l’indicazione di ricorrere a “operazioni speciali” per impedire l’accesso al governo del Partito comunista, in particolare nei paesi dove si manifestassero “passività” o incertezze dinanzi all’avanzata delle sinistre, anche attraverso l’infiltrazione dei gruppi estremisti. Copia del Field Manual verrà poi ritrovata nel luglio del 1981 nel doppiofondo di una valigia in possesso della figlia di Licio Gelli 5 . E tornando a Gelli, fa impressione vedere come parti rilevanti del suo “piano di rinascita democratica” siano stati poi attuati nel corso degli ultimi anni, dalla “normalizzazione” del quadro politico (con l’enfasi sulla “società civile” a svantaggio dei partiti) al ridimensionamento del ruolo politico del sindacato, sempre più ridotto a “collaboratore del fenomeno produttivo”, dalla fine del monopolio della Rai alle limitazioni del diritto di sciopero6 .


3. La strategia del Pci

Il progetto sul quale il Pci aveva lavorato per decenni si era invece fondato sulla strategia dell’egemonia, volta a costruire un’influenza crescente della classe e del movimento operaio nella società prima che nello Stato, moltiplicando trincee e casematte (sezioni di partito, Case del popolo, cooperative, enti locali, sindacati di classe, ma anche Consigli di fabbrica, Consigli di quartiere, Consigli di zona) e rendendo la classe operaia classe dirigente prima che classe dominante, costruendo quella democrazia progressiva che accanto a un Parlamento con una forte presenza organizzata delle forze popolari prevedeva un ruolo rilevante delle autonomie locali (ricordiamo che nella proposta di “programmazione democratica” che caratterizzò il Pci tra anni Sessanta e Settanta c’era un forte ruolo, anche decisionale, delle costituende Regioni, degli enti locali, dei sindacati e dei territori in generale: non sarebbe stato pensabile ad esempio costruire la TAV in Val di Susa senza consultare le popolazioni locali) e la costruzione di una serie di organismi democratici e momenti di potere dei lavoratori organizzati in gangli vitali della società (per cui si voleva che per collocamento e previdenza si costituissero dei servizi nazionali in cui decisivo doveva essere il peso dei lavoratori organizzati attraverso i sindacati, che il sistema sanitario nazionale si strutturasse in unità sanitarie locali in cui forte doveva essere il ruolo di gestione dei lavoratori, che nelle aziende pubbliche o a partecipazione statale lavoratori e sindacati avessero un peso decisionale; e ancora, che nelle scuole, nelle università, nella Rai-Tv, si costruissero strumenti democratici di autogoverno).

Ebbene, questa strategia tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta – certo, non per merito esclusivo del Pci ma sotto la sua spinta determinante e grazie all’organicità del suo progetto – dà i suoi frutti: nel 1970 nasce l’ente Regione e viene varato l’istituto del referendum; intanto inizia la stagione dei Consigli di fabbrica e poi dei Consigli di zona, nelle scuole sono varati i decreti delegati, nelle università si afferma la rappresentanza studentesca, nel Parlamento il ruolo del Pci cresce fino a diventare essenziale; e nella società la classe operaia e i suoi alleati si affermano sempre di più come la vera forza dirigente del Paese, com’era stato durante la Resistenza e nei momenti alti della storia repubblicana.

Quella strategia – della via democratica al socialismo, che non significa via parlamentare –, dunque, stava pagando. E tuttavia la forza delle resistenze conservatrici, degli apparati eversivi, della strategia della tensione fu tale da fermare e poi far retrocedere quel percorso, certo anche per limiti ed errori dei comunisti, ma soprattutto per uno squilibrio di forze in campo – nazionali e internazionali – che alla fine sarà determinante.


4. Crisi e crollo della “prima Repubblica”


Intanto, sul piano ideologico, iniziavano le campagne contro il “consociativismo”, la “partitocrazia”, l’“ingovernabilità” del Paese. Negli anni Ottanta fu Craxi l’interprete più determinato di queste spinte, e il “decisionismo” che caratterizzò la sua leadership – sia di partito che di governo –, con un forte accentramento del potere, una estrema personalizzazione, la lotta spietata ad ogni oppositore interno o competitore esterno, l’uso della decretazione d’urgenza (anche in vicende cruciali come quella della scala mobile), si accompagnò a un insistente dibattito su come rafforzare i poteri dell’esecutivo, come rendere più stabili i governi – la “governabilità” diventò la parola chiave sostituendo la “rappresentanza” e per molti aspetti contrapponendosi ad essa – e a progetti fumosi ma inquietanti di “Grande riforma” in senso presidenzialistico o semi-presidenzialistico. Quanto ai partiti, non percepirono la necessità di un profondo rinnovamento loro e delle forme della politica, che pure Enrico Berlinguer aveva colto per tempo, già alla fine del 19817.

Crollata la “prima Repubblica” sull’onda di Tangentopoli, i comunisti – che avrebbero avuto tutto da guadagnare da quei fatti – invece di rilanciare la battaglia per il controllo democratico sulla spesa pubblica ripiegarono su una lettura moralistica di quanto accadeva, e si avviarono verso il disastro: innanzitutto suicidandosi come partito (e dunque sciogliendo la principale forza politica organizzata del Paese, mandando al macero la sua storia, la sua identità, la sua forza), e in secondo luogo sposando quella cultura liberal-socialista prima combattuta, aggiungendosi al coro di quanti fantasticavano di una “società civile” pulita di fronte a dei partiti e una politica “sporchi”, e soprattutto facendosi promotori in prima persona – assieme a quell’esponente della destra dc che va sotto il nome di Mario Segni – degli sciagurati referendum che introdussero nel nostro Paese sistemi elettorali di tipo maggioritario e uninominale, con la prospettiva di un bipolarismo che avrebbe limitato il confronto politico, emarginando idee e forze non omologate, e stimolato personalismi e leaderismi, fino ad arrivare all’elezione diretta di sindaci e presidenti di Regioni, i quali – e siamo ai giorni nostri – scelgono i loro assessori sulla base di “listini” di loro gradimento, di cui fanno parte non persone elette democraticamente ma “esperti”, “tecnici” e così via.

I mutamenti intervenuti negli ultimi mesi – con il ruolo sempre più forte di Napolitano nel determinare le principali scelte politiche, l’esperienza del governo “tecnico” presieduto da Monti, l’invenzione del “Comitato dei saggi” e l’inquietante prospettiva della “Convenzione” per le riforme istituzionali – non fanno dunque che completare e aggravare il quadro.


5. I mutamenti strutturali e il terreno franato sotto ai nostri piedi


Il lavorio volto a far retrocedere la democrazia, peraltro, procedeva di pari passo con le trasformazioni strutturali interne al modo di produzione: automazione crescente, frammentazione del processo produttivo, esternalizzazioni ecc. costruivano uno scenario in cui la fabbrica fordista cominciava a perdere la sua centralità. Il percorso andava avanti per tutti gli anni Ottanta – iniziati nel nostro paese con la “marcia dei 40.000” e la sconfitta operaia alla Fiat e proseguiti con l’ulteriore sconfitta sulla questione della scala mobile – nel corso dei quali si avviava anche un graduale processo di deindustrializzazione del Paese, di smantellamento di pezzi rilevanti dell’apparato produttivo (e in particolare di quello pubblico o a partecipazione statale). Ne derivava un serio indebolimento della classe operaia, costretta nettamente sulla difensiva, la perdita della centralità che essa aveva avuto nei decenni precedenti, e infine anche una difficoltà dei lavoratori in produzione a riconoscersi come classe8.

Rispetto alla forza e alla compattezza che poteva avere la classe operaia fordista, aggregata in grandi impianti, all’interno di processi produttivi omogenei e tutti interni a uno stesso luogo fisico, i lavoratori salariati degli anni Novanta – produttori di plusvalore non meno di quelli che li avevano preceduti – scontarono dunque una minore forza contrattuale, una minore compattezza organizzativa che si rifletteva sul piano sindacale ma anche sul piano politico, e infine la perdita di quella identità e coscienza di classe che era stata un elemento determinante della loro forza anche nei momenti più duri della storia del movimento operaio.

Questi due ordini di fenomeni – l’attacco alla democrazia rappresentativa e la ristrutturazione produttiva – hanno quindi letteralmente tolto il terreno sotto i piedi al movimento operaio. Se nei decenni precedenti esso aveva potuto contare su una classe compatta, relativamente omogenea, organizzata in grandi agglomerati e dotata di una forte coscienza di sé, e al tempo stesso (parlo dell’Italia) di una democrazia rappresentativa avanzata, che poggiava su tre pilastri fondamentali – un sistema politico basato sulla centralità dei partiti di massa, un livello istituzionale fondato sulla centralità del Parlamento, e un sistema elettorale proporzionale che garantiva la effettiva rappresentatività di questo Parlamento – negli anni Novanta di tutto ciò rimaneva in piedi ben poco.

Si affermava quindi un modello del tutto diverso, per molti aspetti opposto. I partiti di massa versavano in una crisi profonda (la Lega Nord però andrà in controtendenza), mentre si affermavano il “partito azienda” di Berlusconi e poi i vari partiti personali prodotti proprio da quei sistemi elettorali maggioritari che vincolavano forze diverse ad aggregazioni forzate, le quali però erano assolutamente frammentate, divise in fazioni e cordate, gruppi di pressione, “partitini”. Prevalevano dunque personalizzazione della politica, ruolo dell’immagine nella costruzione delle fortune politiche e personalismi di ogni tipo. Quanto al Parlamento, non solo era sempre più “epurato” delle cosiddette “ali estreme” e di fatto sempre meno rappresentativo, ma contava anche molto meno, diffondendosi largamente l’uso della decretazione d’urgenza ed essendo ormai prese in altre sedi molte delle decisioni più importanti.

La costruzione dell’Unione Europea, privando ulteriormente i parlamenti nazionali di poteri decisionali, ha ulteriormente aggravato la situazione, affidando decisioni rilevantissime di politica economica e sociale a un organismo “a-democratico” come la Commissione europea, a sua volta sempre più identificata col volere impersonale dei cosiddetti “mercati”, ossia del grande capitale trans-nazionale. La perdita crescente di sovranità è andata così di pari passo con la drastica riduzione della possibilità di incidere sulle scelte politiche di fondo, mentre si delineava sempre più chiaramente quella che vari studiosi hanno definito come “democrazia plebiscitaria” o “post-democrazia” 9 . In sostanza – come ha scritto l’ex-sindacalista Pierre Lévy – le classi dirigenti europee “non sopportano più la democrazia”, almeno nelle forme in cui si è espressa nel Novecento10.


6. Comunisti in Italia dopo il 1991


In questo quadro, la situazione dei comunisti italiani è stata particolarmente difficile. La loro strategia storica era stata giusta ma ci si era rotti la testa contro il muro delle forze reazionarie e degli apparati atlantici; il crollo del campo socialista e la liquidazione del Pci avevano provocato un disorientamento generale e una perdita di memoria collettiva impressionante; i sistemi elettorali maggioritari creavano poi una tenaglia alla quale era difficile sottrarsi, per cui i comunisti erano stretti nell’alternativa tra alleanze subalterne in coalizioni di centro-sinistra sempre più moderate, e un’idea del “correre da soli” che aveva buone probabilità di determinare isolamento e marginalità. Intanto la confusione ideologica sparsa a piene mani da Bertinotti e compagni, la maledizione delle correnti, il prevalere di personalismi e logiche di gruppo all’interno stesso di quella che era Rifondazione comunista (mi riferisco a quando si era tutti in un unico partito), una selezione dei quadri discutibile, la costante conflittualità interna, e infine le rotture e le separazioni, contribuirono a una perdita di credibilità e a una disaffezione diffusa che riguardava non solo l’elettorato che aveva guardato con simpatia al progetto di RC, ma anche gli stessi militanti, che abbandonavano il partito con una rapidità che aveva pochi precedenti.

Successivamente, l’esistenza di due forze che entrambe si richiamavano al comunismo, ma con diversi approcci e visioni, produceva forse una momentanea chiarificazione, ma alla lunga non favoriva di certo quella “accumulazione di forze” che pure tutti ritenevano prioritaria. La perdita di credibilità aumentava, i successi dei primi anni si allontanavano sempre di più, le esperienze di governo in coalizioni di centro-sinistra finivano perlopiù per danneggiarci, le sconfitte cominciano a susseguirsi: da soli o in coalizione, coi nostri simboli o in aggregazioni dall’identità più indefinita.

La marginalizzazione dei comunisti e della sinistra, peraltro, non è solo un problema nostro, ma rimanda a un problema più generale, quello che Paolo Ciofi ha analizzato nel suo libro Il lavoro senza rappresentanza. È per questo che questione comunista e questione democratica si tengono, sono parte di uno stesso problema, quello di restituire ai lavoratori una loro rappresentanza, il che implica a sua volta il ricostruire la loro organizzazione e la loro autonomia strategica. Ed è per questo che la questione comunista non può essere vista in modo separato dal contesto sociale del Paese, come pura opzione ideale o “identitaria”; né può essere separata dal problema della ricostruzione di una sinistra politica in questo paese. Del resto, questo è un insegnamento che ci viene direttamente da Marx ed Engels11.


7. È ancora utile un Partito comunista?


Dunque la costruzione del Partito dovrebbe procedere in modo contestuale a questo saper nuotare in un mare più vasto. E tuttavia è dalla costruzione del Partito comunista che bisogna partire.

Ma perché un Partito comunista? È una domanda del tutto legittima. Provo ad abbozzare qualche risposta. In primo luogo, direi, perché solo un partito comunista oggi in Italia potrebbe sostenere coerentemente una piattaforma politica di classe, di rimessa in discussione seria delle politiche economiche e sociali che hanno imperversato in questi anni, delineando un progetto organico alternativo, e in questo modo contribuendo a far avanzare quella ricostruzione della rappresentanza dei lavoratori che è indispensabile. Dunque in primo luogo per una questione di contenuti, di prospettiva, anche se dobbiamo dirci con franchezza che questa prospettiva è in gran parte da costruire, e che sull’elaborazione di un programma minimo unificante, non generico, siamo ancora indietro, sebbene dei passi avanti si siano fatti, anche in occasione dell’ultima campagna elettorale.

Ma in secondo luogo un partito comunista è necessario per una ragione pratica: calderoni indistinti, aggregazioni al cui interno c’è tutto e il suo contrario, formazioni politiche divise in correnti organizzate, dove ciascuno marcia per suo conto e gran parte delle energie sono spese nelle battaglie interne, sono strumenti inefficaci. E di questo fatto abbiamo dimostrazioni concrete a iosa. C’è bisogno invece di un partito, che abbia la sua organizzazione radicata nei territori, la sua struttura democratica che la distingue dalle finte democrazie plebiscitarie dei partiti-azienda e dei movimenti leaderistici e personali; che riesca a legare vertenze e lotte locali a un progetto di trasformazione complessiva. E in particolare c’è bisogno di un partito comunista, privo di correnti, di piccoli privilegi e rendite di posizione, che abolisca la distanza tra dirigenti e diretti, e che sia in grado di ricostruire una “cinghia di trasmissione” vera col mondo del lavoro, intendendola come la intendeva Lenin (e non come poi è stato equivocato e propagandato), ossia un legame che non vada dall’alto verso il basso, ma che al contrario salga dal basso verso l’alto, innervando il partito delle istanze reali dei lavoratori12.


8. Il nostro patrimonio storico e teorico


Tuttavia questa affermazione generale non basta, perché se anche fossimo d’accordo sulla necessità di ripartire dalla costruzione del Partito comunista (e sarebbe già una gran cosa, perché significherebbe riconoscere che il partito comunista ancora non c’è), non faremmo grandi passi in avanti se non cercassimo di rispondere a due domande: come si costruisce oggi un partito comunista,e quale tipo di partito vogliamo costruire.

Riguardo al come, credo che abbiamo dalla nostra un patrimonio di elaborazione teorica e di esperienze pratiche al quale dobbiamo saper attingere e dal quale possiamo quanto meno ripartire.

La lezione di Lenin e del Che fare?, la concezione del militante comunista come “tribuno del popolo”, in grado di essere presente nelle lotte più diverse per elevare il livello di coscienza e orientarle verso una prospettiva politica generale, è sempre attuale. Dunque partire dalle lotte, stare tra i lavoratori, nei movimenti di massa, senza sottomettersi alla spontaneità, e cercando di portare il partito tra quelle masse e anche, possibilmente, la parte più avanzata di quelle masse nel partito. Come scrive Lenin, solo la forza in grado di portare la sua battaglia politica “in tutti i campi della vita”, di analizzare e conoscere “le forme d’attività e di vita di tutte le classi, strati e gruppi della popolazione” e i loro rapporti reciproci, di mandare i suoi “distaccamenti” “fra tutte le classi”; “solo il partito che organizzerà veramente delle denunce che interessino tutto il popolo potrà diventare l’avanguardia delle forze rivoluzionarie”. In questo senso, “il bisogno più immediato del proletariato (l’educazione politica multiforme per mezzo delle denunce e dell’educazione politica) coincide con la necessità del movimento democratico generale”, e quest’ultima con il costruirsi e l’affermarsi del partito13.

In Italia la lezione di Lenin fu fatta propria innanzitutto da Antonio Gramsci. E probabilmente uno dei limiti forti della rifondazione comunista post-1991 in Italia è stato proprio quello di avere in larga misura abbandonato la tradizione del marxismo italiano, di aver studiato e applicato poco Gramsci così come Togliatti. Per Gramsci la costruzione del partito non è un atto istantaneo, ma un percorso; per dirla con le sue parole, “si tratta di un processo molecolare, minutissimo [...] la cui documentazione è costituita da una quantità sterminata di libri, di opuscoli, di articoli [...] di conversazioni e dibattiti”; insomma da un costante “lavorio da cui nasce una volontà collettiva di un certo grado di omogeneità, di quel certo grado che è necessario e sufficiente per determinare un’azione coordinata”14. Occorre cioè una discussione approfondita, documentata, diffusa, “molecolare”, che costruisca un grado accettabile di omogeneità; e il Partito va inteso come “apparato egemonico” che “crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze”15 : quello che in gran parte è mancato nella “rifondazione comunista”.

Dunque, presenza nelle lotte e nei movimenti di massa; dibattito teorico approfondito e diffuso in funzione di una battaglia egemonica di portare avanti nella società. E oggi questo secondo aspetto può giovarsi molto dei nuovi strumenti di comunicazione di massa, di internet, delle web-tv, dei social-network e così via.

Ma come si fa a portare avanti questo doppio livello di iniziativa quando siamo messi ai margini, per molti versi non siamo percepiti neanche più come esistenti a livello di massa? In questo forse ci può aiutare la riflessione di un dirigente comunista come Luigi Longo negli anni del fascismo. Ricordiamo sempre, tra l’altro, che anche in quei frangenti i comunisti seppero tenere in vita la loro organizzazione, seppure in condizioni di clandestinità e con piccoli numeri, e al tempo stesso seppero conservare un minimo di presenza e di collegamento coi lavoratori. Ecco quello che Longo scrive ai compagni di Milano nel 1931, pochi mesi dopo il varo della “svolta” voluta da lui e da Secchia, che ha riportato in Italia il centro di gravità del Partito:

Ogni compagno deve comprendere che il nostro P. non ha una gran quantità di uomini disponibili e non in un giorno si possono creare dei compagni capaci di dirigere delle intere organizzazioni. Quando i compagni rimproverano al centro del P. la sua ‘assenza’ devono comprendere che il centro del P. non è [...] un Essere onnipotente, che può far tutto ed arrivare dappertutto.

[...] Fare lavoro di massa significa parlare al più gran numero di operai [...] diffondere il più largamente possibile il giornale [...] organizzare [...] il più gran numero di operai. Non tutti sono comunisti, non tutti sono disposti a venire subito nelle file del nostro Partito e questo noi non ci proponiamo neppure. Noi dobbiamo saper trovare molteplici forme di organizzazione [...] gruppi sindacali [...] squadre di difesa proletaria [...] gruppi di lettori dell’Unità [...].

Svolgere lavoro di massa [...] significa pure approfittare delle organizzazioni fasciste esistenti per conquistare alla nostra influenza i proletari che aderiscono a queste organizzazioni. [...] Dovunque vi sono degli operai [...] noi dobbiamo esserci16.


Tuttavia la svolta avanza con difficoltà, ed ecco quello che Gallo dice nell’Ufficio politico nel 1932: se finora sono stati fatti pochi passi avanti è perché si è scelta la “via più facile di basarsi più sui funzionari che sulla base”17. Una traccia di documento per l’Ufficio politico chiede dunque di “compiere in questo campo una svolta”, “partendo dall’altra estremità, cioè dalla formazione di basi e di organismi dirigenti i quali traggano le loro forze esclusivamente dalle organizzazioni di base”, cominciando dalle zone in cui il Partito è già radicato18.

La necessità di ripartire dalla base, di far emergere dalla base i nuovi quadri dirigenti del Partito, di far sì che ogni militante sia un dirigente, che abbia responsabilità e compiti precisi; e poi la necessità di non isolarsi dalla massa, di fare politica anche nelle organizzazioni di massa del regime – un tema sviluppato molto da Togliatti – poiché la contraddizione, il conflitto di classe è di fatto insopprimibile, e tenderà sempre a riemergere, per cui anche il lavoratore che sembrava “perso”, fascistizzato, anestetizzato, può tornare a prendere coscienza e a lottare; ma lotterà assieme ai comunisti se intanto i comunisti ci sono stati, hanno fatto il loro lavoro, hanno mantenuto un legame e una capacità di dialogo che poi in ogni contesto trova le sue forme specifiche. Lavorare anche in partibus infedelium, in territori avversi; questo è il grande insegnamento del Pcd’I clandestino. E forse se in questi anni avessimo parlato di più con gli operai leghisti, coi disoccupati che votavano Berlusconi, coi precari che si astenevano e oggi magari votano per Grillo, non saremmo a questo punto.

Su queste basi si colloca infine il grande insegnamento di Togliatti sul “partito di massa”, sul partito comunista come forza che non può limitarsi a fare della buona propaganda, ma deve essere in grado di proporre soluzioni concrete ai problemi dei lavoratori e del Paese. E Togliatti dice queste cose anche in un discorso che tiene proprio in Toscana, a Firenze, nell’ottobre 1944: “Noi dobbiamo avere tali collegamenti con la massa del popolo e con la classe operaia, con i contadini, con i professionisti, con gli intellettuali, che ci permettano di fare arrivare dappertutto le nostre soluzioni”. Il riferimento alla visione di Lenin, pur con le differenze del caso, è evidente. Si mira a “un grande partito di masse”, in grado di “stabilire dei contatti con tutte le categorie del popolo italiano e [...] dirigerle tutte verso gli obiettivi che ci proponiamo”. Togliatti inoltre esorta i quadri del PCI ad “aumentare il numero degli elementi attivi”, concependo il partito di massa come un’organizzazione in cui “ognuno dei compagni che sono iscritti [...] abbia un compito di lavoro”; e a “decentrare il più possibile l’organizzazione”. In questo contesto le cellule (di officina, di villaggio o di strada) rimangono l’elemento-base, ma sono raggruppate in sezioni territoriali concepite come “centri della vita popolare”, punti di riferimento di massa, luoghi di iniziativa e confronto politico19.

Sono insegnamenti ancora utili. E allo stesso modo ci serve la riflessione di Berlinguer sui limiti che i partiti, e il Partito comunista in particolare, devono superare se vogliono svolgere un’azione politica efficace nella nostra epoca. Occorre – affermava nel 1981 –

liberarsi [...] da una visione riduttiva della politica e della lotta politica, che tende a misurarne i risultati solo in termini di voti per i partiti, di numero di seggi nelle assemblee elettive, di peso espresso in numero di posti e posizioni di potere, di formazione di schieramenti politici, parlamentari e di governo. Tutte queste cose sono importanti e, spesso, decisive; ma esse non devono indurre i partiti – e comunque un partito qual è il nostro – a ignorare o anche solo a trascurare il carattere e il valore schiettamente politici di quei fatti ai quali danno luogo movimenti e organismi che, sulla base di bisogni di esigenze della più varia natura, si manifestano e si affermano nella società e anche fuori dei partiti e che sono indice e conseguenza, a un tempo, di questioni nuove da risolvere, di aspirazioni, idee, costumi e comportamenti nuovi del nostro secolo20.



9. Comunisti oggi. I cambiamenti necessari


Naturalmente però, anche se dobbiamo partire dal nostro patrimonio teorico e storico, non possiamo limitarci a ripetere cose che sono state scritte o dette vari decenni fa. Dobbiamo compiere uno sforzo di elaborazione e proposta. Due anni fa, i compagni Diliberto, Giacché e Sorini, anche sulla base di un lavoro di elaborazione collettivo, hanno dato un significativo contributo in tal senso, delineando l’idea di “un partito di quadri e di militanti con influenza di massa” e insistendo sulla presenza nei luoghi di lavoro e in generale nei “luoghi del conflitto”, ribadendo la centralità di cellule e sezioni, prevedendo quello snellimento dell’apparato che è anche una stringente necessità, e insistendo sulla lotta a ogni forma di “carrierismo”, evitando il cumulo di incarichi politici e istituzionali e favorendo il ricambio dei gruppi dirigenti21. Sono spunti importanti, rispetto ai quali però – bisogna riconoscerlo – nella pratica effettiva non siamo andati molto avanti.

È evidente quindi che ci sono delle cose su cui riflettere, delle cose da cambiare, non solo sul piano strategico-politico, rispetto al quale rimane prioritaria l’elaborazione di un programma minimo che consenta di unificare lavoratori e precari, ma anche sul piano dell’organizzazione interna e dello stile di lavoro. Riguardo all’organizzazione interna, credo che innanzitutto dobbiamo recuperare alcune norme tipiche della tradizione comunista: rapporto organico base/vertici, ricambio frequente e verifica costante del gruppo dirigente; salari operai per i rappresentanti istituzionali; forte caratterizzazione della presenza comunista nelle istituzioni, in particolare negli enti locali: organizzazione di assemblee popolari, rapporto continuo coi lavoratori e il territorio. Si tratta cioè di riattivare una dialettica democratica e partecipativa, senza lasciare al movimento 5Stelle temi e spunti che fanno parte della nostra tradizione e che Grillo usa a modo suo. Anche nel modo di rapportarsi alle realtà di base del partito, bisogna stimolare dibattito e iniziativa, fare in modo che “cento fiori crescano”, orientare la domanda di partecipazione e il malcontento diffuso verso un tipo di militanza che sia davvero basata sul nesso creativo teoria-prassi, contributo all’elaborazione collettiva e attività concreta sul piano della militanza. Per dirla in termini banali, partecipare al dibattito, scrivere documenti ecc. va più che bene, ma bisogna anche volantinare, attacchinare, stare nelle strade del proprio quartiere o nelle lotte del proprio posto di lavoro.

E qui veniamo alla questione dello stile di lavoro. Troppa parte del tempo che dedichiamo alla politica viene perso in dibattiti privi di sbocchi concreti, talvolta in sterili diatribe. Troppi sono i personalismi, dilaganti soggettivismo e individualismo. Occorre definire una diversa proporzione di tempo ed energie tra dibattito interno e iniziativa esterna del partito. La militanza politica non può essere un hobby o un gioco intellettuale: ogni iscritto dovrebbe avere compiti e responsabilità precisi; ogni iscritto, in questa fase, deve essere un dirigente, senza che questo significhi muoversi ciascuno per suo conto, ma anzi riacquistando la capacità di fare un lavoro organizzato e collettivo.

Tutto ciò implica un cambiamento anche nella mentalità dei gruppi dirigenti. In questi anni si è avvertito il peso di politicismo, autoreferenzialità, talvolta di una impostazione giacobina confusa col “leninismo”, per cui un nucleo ristretto di persone decide, si accorda, stabilisce la strada; i militanti, poi, seguiranno. Tutto questo, oltre a essere metodologicamente sbagliato, non è più possibile. Da parte di tutti occorre più umiltà, capacità di ascolto, collegialità. Non solo perché il contesto sociale e culturale è ben diverso da quello degli anni Trenta o Cinquanta, e le modalità orizzontali della comunicazione fanno poi sfuggire da tutte le parti quello che non si è sintetizzato al centro; ma anche perché con la disaffezione alla politica ormai largamente maggioritaria, queste modalità finiscono per allontanare (e hanno allontanato) quei pochi o tanti che si avvicinano al partito con l’intenzione di militarvi in modo attivo.

In questo quadro, occorre anche un tipo diverso di selezione dei quadri, che va basata non su fedeltà e conformismi, ma sulla dedizione al partito, sulle capacità, sul radicamento in un dato contesto; militanti disinteressati, quadri operai, protagonisti di lotte, vanno coinvolti e promossi sul campo a ruoli di responsabilità.

C’è dunque tanto da cambiare nel nostro stile di lavoro. Ma solo così potremo riannodare quel nesso teoria/prassi, direzione/pratica politica che per i comunisti rimane fondamentale. E in questo senso, molto abbiamo da imparare non solo dalla nostra storia, ma anche dalle esperienze di partiti comunisti che hanno conservato un loro radicamento di massa.


10. Le esperienze latinoamericane e il “che fare” in Europa


Infine credo che molto abbiamo da apprendere dalle esperienze in corso in America latina. In questo continente prima che in altri si è avuto il coraggio di mettere in discussione i dogmi del Fondo monetario internazionale e dei grandi poteri del capitale transnazionale, pagando dei prezzi ma poi anche avviando straordinari processi di ripresa e di crescita (vedi ad es. l’Argentina). Nelle esperienze più avanzate, come Cuba o il Venezuela, rimane poi fondamentale la partecipazione di massa; l’iniziativa dal basso viene incoraggiata, valorizzata e orientata nel quadro di un progetto complessivo di trasformazione, delineando un modello di “via democratica al socialismo” che come comunisti italiani non dovrebbe esserci estraneo. Infine, in molti di quei paesi, i comunisti sono protagonisti dei processi in corso coi loro partiti, ma al tempo stesso nel quadro di schieramenti popolari più vasti (si veda il caso del movimento bolivariano), nuotando nel mare del lavoro di massa come noi comunisti occidentali dobbiamo reimparare a fare, contribuendo alla costruzione di veri e propri blocchi storici.

In Italia e in Europa, dunque, bisogna ricominciare dal ricostruire un legame organico col mondo del lavoro, del precariato, dell’immigrazione, del non-lavoro; rilanciare la lotta per la democrazia che in Italia significa anche lotta per la difesa e l’applicazione della Costituzione repubblicana; riprendere il percorso per la riunificazione dei comunisti sulla base del confronto, dell’analisi, della costruzione di una nuova prospettiva strategica; contribuire alla ricostruzione di una sinistra sociale e politica, di un fronte popolare di tutte le forze anti-liberiste e anticapitaliste; tornare a porre al centro la questione sindacale; praticare un nuovo internazionalismo, che riannodi lotte ed esperienze e coordini le forze e le strategie a partire dal livello europeo.

Se riusciremo a fare qualcosa in questa direzione, forse possiamo invertire la rotta, ricominciare a costruire e ad accumulare forze. I tempi non sono brevi e il percorso non sarà facile; al tempo stesso, le urgenze della politica premono e cominciare a fare i primi passi è indispensabile.

* Relazione all’iniziativa “Tra XX e XXI secolo. Le lotte di classe e l’organizzazione dei comunisti di fronte alle trasformazioni economiche e sociali”, organizzata dalla Federazione di Lucca e Versilia del Pdci, in collaborazione con l’associazione Marx XXI – Viareggio, 13 aprile 2013


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1 Su questi temi, si vedano S. D’Albergo, A. Catone, Lotte di classe e Costituzione. Diagnosi dell’Italia repubblicana, Napoli, La Città del Sole, 2008; e L. Cavallaro, Lo Stato dei diritti. Politica economica e rivoluzione passiva in Occidente, Napoli, Vivarium, 2005.

2 Cfr. R. D’Agata, La restaurazione imperfetta. Un ventennio di precarietà globale (1990-2010), Roma, manifestolibri, 2011.

3 http://www.trilateral.org/download/doc/crisis_of_democracy.pdf . Su questi temi, cfr. D. Moro, Club Bilderberg. Gli uomini che comandano il mondo, Aliberti, 2013.

4 M. Fini, La democrazia rifiutata. Ideologie, indirizzi e proposte della “Trilaterale”, “l’Unità”, 6 ottobre 1977. Cfr. http://iskra.myblog.it/archive/2011/11/27/trilateral-la-democrazia-rifiutata.html.

5 http://www.strano.net/stragi/tstragi/salvini/salvin57.htm .

6 Dossier P2, Milano, Kaos edizioni, 2008, pp. 297-308; http://web.tiscali.it/comunisti pistoia/Memoria/RinascitaDemocratica.htm .

7 E. Berlinguer, Rinnovamento della politica e rinnovamento del Pci, “Rinascita – Il contemporaneo”, 6 dicembre 1981; http://www.futuraumanita.it/rinnovamento-della-politica-e-rinnovamento-del-pci-e-berlinguer/.

8 P. Ciofi, Il lavoro senza rappresentanza. La privatizzazione della politica, Roma, manifestolibri, 2004, pp. 43-46.

9 C. Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003.

10 http://www.michelcollon.info/Pierre-Levy-Les-dirigeants.html?lang=fr .

11 “I comunisti [...] non hanno interessi distinti dagli interessi del proletariato nel suo insieme. [...] I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato [...] fanno valere quegli interessi comuni dell’intiero proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d’altro lato per il fatto che [...] rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo. [...] dal punto di vista della teoria, essi hanno un vantaggio sulla restante massa del proletariato pel fatto che conoscono le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario” (K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito comunista, Roma, Editori Riuniti, 1962, p. 76).

12 Cfr. V.I. Lenin, La funzione e i compiti dei sindacati nelle condizioni della Nuova politica economica [gennaio 1922], in Id., Opere scelte, pp. 1682-1685.

13 V.I. Lenin Che fare?, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 105-106, 115-116, 126-127.

14 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 1058.

15 Ivi, p. 1250.

16 Ai compagni della Federazione di Milano, 29 gennaio 1931, in Fondazione Istituto Gramsci, Archivio del Partito comunista
italiano, PCd’I, I inventario, mf. 970, pp. 12-17.

17 Ufficio politico del 4.8.1932, ivi, mf. 1023, pp. 96-99.

18 Ivi, pp. 100-104.

19 P. Togliatti, I compiti del Partito nella situazione attuale, discorso pronunciato a Firenze il 3 ottobre 1944, Roma, Casa editrice l’Unità, 1945, pp. 13, 33-35.

20 Berlinguer, Rinnovamento della politica e rinnovamento del Pci, cit.

21 O. Diliberto, V. Giacché, F. Sorini, Ricostruire il Partito comunista, Macerata, Simple, 2011.
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