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per un movimento

Cattive abitudini

di Sergio Cararo

Balza agli occhi la divaricazione tra le contraddizioni che presenta la fase storica e politica che stiamo attraversando, con la capacità soggettiva di volgerle a favore delle classi subalterne e dei loro interessi.

Sullo sfondo di una crisi che mette in discussione i rapporti di forza internazionali consolidatisi dal dopoguerra a oggi (vedi l’empasse dell’egemonia statunitense) la situazione nel nostro paese  – la “anomalia italiana” – sembra ripresentarsi in tutta la sua pesantezza. La recessione sul piano economico-sociale e le difficoltà di avviare un governance adeguata agli standard gerarchici imposti dall’Unione Europea, continuano ad avvitarsi di passaggio in passaggio. A poco sembrano essere serviti i colpi istituzionali inferti dal Quirinale e dalle lettere-diktat della Bce.

Ma tutto questo non sembra ancora fornire materia sufficiente per una rivoluzione culturale nella sinistra italiana. Non possiamo nasconderci però che anche negli ambiti della sinistra antagonista si stenta non poco nel cercare di mettere al passo esperienze soggettive, anche importanti, con una sintesi più avanzata e ipotesi ricompositive.

Emblematica di questa situazione è la genesi e la proposta della manifestazione del 12 ottobre a difesa della Costituzione. Nata dall’appello di alcune personalità (Rodotà, Landini etc.) questa iniziativa si trascina dentro tutte le cattive abitudini che hanno portato la sinistra alla crisi e alla distruzione del “tesoretto” ereditato dallo scioglimento del PCI.


Una discussione di merito ci porterebbe a sottolineare come insieme ad alcune cose giuste (l’opposizione alle controriforme costituzionali) manchino nella riflessione aspetti decisivi come la subalternità all’Unione Europea che, imponendo i suoi trattati, sta di fatto stravolgendo la Costituzione assai più dei 40 saggi nominati dal governo Letta, oppure sia del tutto assente la denuncia delle responsabilità del Quirinale e di Napolitano nelle controriforme costituzionali “de facto”.

 
Rendere i movimenti sociali subalterni alla “politica”


Ma anche una discussione sul metodo non può evitare di sottolineare come la decisione di convocare una manifestazione nazionale una settimana prima di un’altra convocata da movimenti sociali e sindacati di base il 18 e il 19 ottobre, mandi un pessimo segnale in una doppia direzione:

- agli apparati dello Stato indicando una aperta separazione tra i buoni e i cattivi,

- ai movimenti sociali e alle organizzazioni sindacali impegnate su un’agenda importante di vertenze, manda a dire – ancora una volta – che le loro lotte o si rendono funzionali alla “politica” oppure non sono degne di confronto.


Viene così riproposta una vecchia cattiva abitudine, secondo cui gli “altri” sono bravi compagni che lottano, magari dicono e fanno cose interessanti ma la “politica” è un’altra cosa, è quella che si fa muovendosi a ridosso o magari dentro il palazzo. Fuori da questo schema non ci deve essere spazio per altre opzioni, anzi è bene che più fattori – incluso l’ordine pubblico – contribuiscano a far sì che non ci siano altre opzioni.

Questa situazione sta provocando qui è là lacerazioni in alcuni ambiti (basti pensare ai movimenti per i beni comuni o di carattere territoriale) e posizionamenti di equilibrio di chi salomonicamente annuncia che sarà presente a entrambe le manifestazioni, ben sapendo che difficilmente potrà chiedere ai propri militanti di fare su e giù con la capitale in soli otto giorni. Non solo. Si ha la netta sensazione che essendo quella del 12 ottobre più simile e consona ai riti della “politica” come l’abbiamo conosciuta, gli equilibristi tenderanno a impegnarsi e riconoscersi più nella prima che nelle seconde, quelle del 18-19 ottobre.

La trappola ideologica, e se volete psicologica, sta proprio in questo richiamo della foresta della rappresentazione politica che emerge a tutta forza dalla manifestazione convocata da Rodotà, Landini etc.

 
Le enormi difficoltà a concepire e gestire progetti politici indipendenti


Di fronte ad una situazione interessante ma indubbiamente rognosa, molte compagne e compagni guardano con timore e spaesamento alla prospettiva della costruzione di un progetto politico autonomo rispetto all’abitudine consolidata del tirare la giacca a qualcuno. Negli anni scorsi si tirava per la giacca la direzione del Prc e questa a sua volta tirava per la giacca il Pd. Ognuno avrebbe dovuto fare qualcosa che non intendeva fare: rompere con la subalternità al Pd il primo, rompere con il dogma della governance neoliberale il secondo. Il risultato è stato lo sgretolamento del Prc e il passaggio del Pd nelle mani dei democristiani e dei socialisti che oggi controllano il governo, il partito e la Cgil. Un segno evidente che questa strategia non funziona.

La difficoltà di tante e tanti militanti nel pensare – ancora prima che gestire – un proprio progetto politico, nasce da questa cattiva abitudine che ha rimosso completamente ogni tensione verso l’analisi della realtà – anche e soprattutto quando questa è complessa – alla ricerca di una via breve che offrisse una prospettiva politica sempre più al ribasso.

Specularmente, negli ambiti della sinistra antagonista, il legittimo rifiuto di tutto questo, spesso maturato dopo anni di militanza dentro i partiti della sinistra, ha spinto verso un forte soggettivismo che ha consentito di rimettere in sesto categorie marxiste e una pratica del conflitto importanti. Ma ha anche innescato un processo attraverso cui la “complessività” della prospettiva si dà solo all’interno del proprio collettivo, centro sociale, gruppo organizzato evitando ogni collaborazione che vada oltre specifici appuntamenti o campagne. Un particolarismo nobile e identitario che definisce la coscienza di sé come risultato delle diversità e talvolta della contrapposizione agli altri. Una fase infantile, dunque, della costruzione di una identità politica che vorrebbe essere – senza riuscirci – la cura alla fase senile di identità messe a dura prova dagli strattoni, dagli opportunismi e dalle sconfitte di questi anni.

Questo “assedio nel cuore” sta mettendo a dura prova tutto l’impianto su cui si è agito politicamente negli ultimi venti anni, mentre agisce segretamente la speranza che in qualche modo – volutamente o fortunosamente – tutto ritorni a come prima delle elezioni del 13 aprile 2008, con la “sinistra  di nuovo in Parlamento”. Ma la realtà ci indica che così non sarà e che se così fosse sarebbe – nella migliore delle ipotesi – la micidiale riproposizione del meno peggio che ha logorato la sinistra nel nostro paese dall’avvento del berlusconismo in poi.

 
L’elettoralismo come “certificato di esistenza in vita”


I due partiti della sinistra, Prc e PdCI, mi sembra che stentino ancora a fare i conti con le esperienze del recente passato, e soprattutto  nell’adeguare il loro ruolo e il loro progetto alla dimensione extraparlamentare imposta dal passaggio violento alla gerarchizzazione europea e al “pilota automatico” della Trojka, fattore che liquida ogni residuo di manovra parlamentare sulle decisioni di fondo.

In questo scenario, pesa ancora la rinuncia ad aprire un dibattito leale e portato in profondità sull’organizzazione, sull’indipendenza politica, sulla costruzione di una identità e di un punto di vista di classe e comunista sostanziale e non formale. Pesa cioè il permanere di un impianto politico e culturale sul quale sono cresciuti, si sono formati e adeguati migliaia di compagne e compagni nel nostro paese ma che oggi sono in seria difficoltà.

E’ in tale contesto che la scadenza elettorale delle europee di maggio 2014, rischia di tornare a ipotecare la situazione come una sorta di “ultima spiaggia” per la sopravvivenza o meno di un modello politico e culturale fino ad oggi egemone nella formazione e nell’azione dei partiti della sinistra e di pezzi di movimenti sociali ad essi collaterali. In giro se ne percepisce l’odore, il timore e l’umore in ogni iniziativa, dibattito, idea in circolazione.

E’ abbastanza evidente che se l’ultima spiaggia anche questa volta non dovesse funzionare, si manifesterà il rischio di una “andata a casa” di tante compagne e compagni che sono cresciuti con l’elettoralismo come unico orizzonte e modalità della politica. E questa è una contraddizione che va esplorata a fondo proprio per impedire che la fine di una condizione materiale e culturale consolidata negli anni, depotenzi energie e risorse umane che pure non intendono lasciare il terreno all’egemonia della destra e alla subordinazione del lavoro al capitale.


La rottura nelle relazioni con la classe


Molte compagne e molti compagni, infatti, hanno ritenuto che la dimensione elettorale dell’azione politica, fosse quella prevalente, una sorta di “certificato di esistenza in vita” senza il quale nulla diventa possibile sul piano della rappresentanza politica.

Alla luce dei risultati è difficile disconoscere come questo atteggiamento, nel tempo, abbia prodotto uno scollamento crescente tra attività politica e società, tra attivismo della sinistra e relazioni con i settori popolari, fino al punto da esacerbare al massimo quella autonomia del politico che ha rotto in più punti anche l’internità dei comunisti alla stessa classe di riferimento.

La conseguenza di questa rottura è che proprio quando la condizione materiale della classe dentro la crisi sistemica del capitale chiama ad un maggiore riconoscimento degli interessi di classe e del loro conflitto con interessi materiali contrapposti, molte compagne e compagni si dichiarano predisposti ad “andare a casa” qualora il modello politico su cui si sono fondati (e che è andato in crisi) non funzionasse più. Ma un lavoratore salariato, un disoccupato ma anche un insegnante, un futuro lavoratore della conoscenza, possono realisticamente pensare di andarsene a casa dentro questa crisi solo perché non si supera il quorum elettorale e le condizioni dell’azione politica possono diventare extraparlamentari?

Al contrario, i comunisti e la sinistra anticapitalista dovrebbero partire dall’analisi concreta della realtà concreta per recuperare la loro funzione antagonista al sistema dominante oggi in crisi.

Sarebbe utile – ad esempio – aprire un serio e leale dibattito sulla questione sindacale che si ripropone come un fattore decisivo del rapporto tra comunisti e blocco sociale antagonista, un rapporto che difficilmente oggi è rilevabile nella funzione della Cgil e della stessa Fiom, strutture sulle quali si continua ad alimentare una mitologia non supportata dai fatti ma solo da qualche presenza nei talk show televisivi. Di più. Spesso si è delegato e consegnato il “rapporto con le masse” al mero rapporto con la Cgil come se i punti di sovrapposizione tra le due superfici (quella politica e quella sindacale) fossero di per sé sufficienti a ricostruire una relazione di massa con i lavoratori e i segmenti sociali di un mercato del lavoro fortemente destrutturato. Sappiamo tutti che così non è. Il risultato è che la sinistra di classe non ha alcuna influenza sulla Cgil né sulla Fiom, che continuano ad agire sui ritmi declinati dagli interessi del Pd, larghe intese incluse. Ma la crisi e l’arroganza con cui banche, le multinazionali e l’Unione Europea vogliono gestirne le soluzioni, non consentono più spazi per il riformismo – al contrario – riconsegnano i comunisti alla loro funzione antagonista. Si tratta dunque di cambiare passo e sotto molti aspetti di cambiare mentalità.

Le rinnovate torsioni di stampo vendoliano-bertinottiano – che emergono in ambiti rilevanti del Prc e del PdCI – e contro cui ci siamo battuti da sempre, rendono del tutto inadeguato pensare di ricostruire una soggettività comunista ripartendo nuovamente ed esattamente da un modello politico e culturale che ha prodotto precisamente la crisi politica della sinistra di classe e dei comunisti nel nostro paese. Non possiamo rimuovere il fatto che ormai molti ponti alle spalle sono crollati e che le prossime settimane invochino piuttosto scelte precise. L’alternativa è quella tra il continuare una logorante “marcia sul posto” e il sapersi dotare di soggettività e intellettualità collettiva più avanzate, una condizione questa decisiva per avviare una vera controtendenza di classe nel conflitto politico e sociale nel nostro paese.

 
La trappola dell’antiberlusconismo

E’ ormai evidente come in Italia si vada chiudendo una fase storica e se ne apra un’altra. Tutto ciò non è privo di conseguenze sul piano politico, sociale, sindacale, culturale.

Il tentativo di adeguare in questi venti anni il progetto della Seconda Repubblica alle esigenze della  accresciuta competizione globale e dei poteri forti europei, per diversi motivi – inclusa la variabile berlusconiana – non è riuscito secondo le aspettative e le necessità  a cui fin dal 1992 aspiravano i grandi gruppi capitalistici e le classi dominanti del nostro paese. Per questo motivo si è avviata una impressionante escalation a tutto campo tesa alla normalizzazione della società ed a rendere la governabilità bipartizan un apparato irreversibile di comando, di governo e di amministrazione. A questo – ed a rafforzare il carattere oligarchico dello Stato, della politica e dei poteri decisionali nell’Unione Europea – servono le riforme istituzionali in cantiere. Per quasi venti anni la sinistra ha accettato di guardare il dito (Berlusconi) invece della Luna (il progetto delle classi dominanti intorno all’Unione Europea).

Gli obiettivi di questa operazione sono la liquidazione con ogni mezzo di quella “anomalia italiana” che – ancora prima del ventennio di conflitto intorno a Berlusconi – ha visto convivere e confliggere per quaranta anni un capitalismo arretrato e finanziato dallo Stato contro la presenza e l’azione di una identità comunista radicata nella società e nelle istanze del conflitto. L’apparato ideologico e politico che sovrintende a questa normalizzazione – con una fortissima “regia europea” – punta esplicitamente ad espellere il conflitto sociale come strumento di emancipazione e di relazione tra le classi e i segmenti della società. Un passaggio decisivo di questa restaurazione autoritaria è la cooptazione dei sindacati concertativi dentro uno schema neocorporativo che ne snaturi ruolo e funzione e al tempo stesso imbrigli e depotenzi il conflitto e l’insieme delle dinamiche sociali. Ritenere che padroni e lavoratori abbiano gli stessi interessi e siano la stessa cosa è indicativo di tale impianto ideologico e politico.

Ignorare, subordinare o depotenziare gli interessi dei lavoratori, dei settori popolari, di quello che storicamente e attualmente è il blocco sociale antagonista, sta producendo inevitabilmente un deficit democratico e di rappresentanza politica evidente a tutti, soprattutto a coloro che sono attivi nei movimenti sociali o impegnati in vertenze significative.

 
La tendenza alla divisione prevalente su quella alla ricomposizione

Le reazioni dei partiti della sinistra “radicale” a tale scenario si sono dimostrati del tutto inadeguati e per certi aspetti devastanti, producendo l’effetto di un generale disorientamento tra i ceti popolari e nei movimenti sociali. Questa deriva non attiene solo alla frantumazione centrifuga e rissosa di una identità e presenza comunista, ma travolge anche i principali punti di iniziativa nell’agenda politica dentro la crisi di sistema e la dimensione imposta dalla Trojka europea, rivelando al massimo una subalternità  riformista e neo-keynesiana. Dall’altro la reazione a questa deriva si manifesta più come disorientamento, disagio, rissosità, scetticismo, disillusione, ricerca di identità piuttosto che come un tentativo organizzato e coerente di avviare una controtendenza. E’ in tale contesto che prendono corpo – anche inconsapevolmente – scorciatoie  organizzative o precipitazioni elettoralistiche che sottovalutano passaggi decisivi e rischiano il ripetersi di esperienze già vissute con esiti fallimentari nella nostra storia recente.

Diversamente, ritengo che occorra invece avviare un processo di confronto unitario tra tutte le soggettività della sinistra di classe “resistenti” o coerenti ma che non sottovalutino più o diano per scontato il rapporto con il blocco sociale antagonista.

Nessuno di noi oggi può ancora sottovalutare come la partecipazione di due partiti comunisti al governo Prodi abbia posto serissimi problemi di credibilità dell’opzione comunista a livello sociale e popolare. E’ da questa consapevolezza e da un arco di contenuti e pratiche virtuose e concrete sul terreno dei salari e del reddito, della democrazia e dell’antimilitarismo, che si può determinare l’autorevolezza teorica e la credibilità sociale dell’opzione comunista e di classe nel XXI° Secolo, anche tenendo conto di una dimensione europea ed internazionale dei problemi che condizionano pesantemente lo scenario nel nostro paese.

Su questa riflessione e sulle sue possibili e necessarie ricadute concrete, diventa urgente che tutti coloro che condividono – in tutto o in parte – l’esigenza di non liquidare né di far liquidare una opzione comunista nel nostro paese, ad una discussione pubblica franca e serrata per costruire un comune percorso possibile e indicare – nuovamente – una prospettiva di rottura e trasformazione sociale. Per tentare occorre però molto più coraggio politico che un infinito e paralizzante tatticismo. L’accumulazione delle forze non può essere un orizzonte senza passaggi temporali che chiamino in campo anche la soggettività attiva dei comunisti. Qui si tratta di rimettere in moto una idea generale e una proposta politica di trasformazione dell’esistente nella condizione data, ossia oggi, nel XXI Secolo e dentro la crisi che sta spingendo interi paesi – tra cui l’Italia – alla periferia del capitalismo avanzato.

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