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Ce n’est qu’un debut

Verso e oltre il 18 e il 19 ottobre

Collettivo “Noi saremo tutto” Genova

Pubblichiamo di seguito un corposo e densissimo contributo del collettivo "Noi saremo tutto" di Genova che sentiamo di condividere quasi completamente. Comprendiamo pure che leggerselo su internet potrebbe risultare faticoso per questo motivo potete scaricarlo qui in pdf e poi magari stamparlo
 
“Durante la rivoluzione milioni e decine di milioni di uomini imparano in una settimana più che in un anno di vita ordinaria, sonnolenta, perché una svolta brusca nella vita di tutto un popolo permette di rendersi conto chiaramente dei fini perseguiti dalle classi sociali, delle loro forze e dei mezzi con i quali agiscono”. (V. I. Lenin, Gli insegnamenti della rivoluzione)

La posta in palio

Le giornate di mobilitazione generale del 18 e 19 ottobre possono rappresentare un passaggio importante se non addirittura decisivo per la messa in forma di un movimento antagonista in grado di “unificare” le lotte e le tensioni politiche e sociali che la crisi obiettivamente produce. Per molti versi è un’occasione non secondaria per dare una forma politica a quell’insorgenza sociale manifestatasi nella giornata romana del 15 ottobre la cui radicalità non ha trovato uno sbocco politico/organizzativo capace di trasformare quella rabbia in progetto politico. Ciò non è stato evidentemente un caso e neppure l’esito di una incapacità politica, piuttosto ha dimostrato la difficoltà di buona parte della stessa sinistra radicale e anticapitalista a fare realmente i conti con gran parte della sua storia passata e, al contempo, a confrontarsi positivamente con quella “nuova composizione di classe” che, l’attuale modello di produzione capitalista, ascrive e circoscrive ogni giorno che passa nell’ambito della marginalità e dell’esclusione sociale.

I comportamenti di questo nuovo segmento di classe, che le statistiche ufficiali indicano ormai come maggioritario dentro l’attuale ciclo produttivo, si manifestano il più delle volte in maniera anarchica e nichilista finendo con il reiterare persino in ambito metropolitano pratiche non distanti dal luddismo.

Tutto ciò non deve stupire più di tanto. Per certi versi i comportamenti di questo ampio settore sociale reiterano prassi e stili di vita che, pur con tutte le tare del caso, ricordano assai da vicino quanto mirabilmente descritto da Engels in La condizione della classe operaia in Inghilterra. Prima di entrare nel merito dei comportamenti pubblici di questa classe, ovvero la dimensione di perenne insorgenza sociale che si porta appresso ancorché priva di progettualità politica e quindi incapace di porsi sul terreno della conquista del potere politico, appare utile soffermarsi sulla sua dimensione “sociologica”. Ciò non tanto per vezzo intellettualistico bensì per seguire un metodo di indagine che è stato tanto di Marx, in particolare nel primo libro del Il capitale e in parte nei suoi scritti storici, oltre che, come ricordato, di Engels.

Per comprendere il proletariato contemporaneo non è sufficiente, per quanto indispensabile, la sola analisi strutturale. Dobbiamo evitare, cioè, il vizio professionale degli economisti i quali assolutizzano, o almeno tendono a farlo, il dato oggettivo e strutturale dimenticando che l’astrazione proletariato è fatta di donne e uomini in carne, sangue e ossa, oltre che di tempo ed esistenza concreti. Questo per dire che la dimensione soggettiva della classe riveste un ruolo non secondario nell’autorappresentazione che questa si dà di se stessa con tutte le ricadute obiettive che ciò comporta.

Al proposito non è secondario ricordare Mao e il suo stile di lavoro fondato sull’inchiesta. Nel momento in cui Mao affronta in “concreto” la questione contadina non si limita a descrivere la base strutturale della campagna, i rapporti di produzione e di proprietà ivi presenti ma, una volta fatto ciò, si addentra nei modelli “culturali” che fanno da sfondo alle vite reali dei medesimi. Lo stesso modello lo ritroveremo, per esempio, nel momento in cui Mao affronta il problema del soggettivismo e del militarismo dentro l’Esercito rosso. Anche in questo caso, Mao, non  limita il discorso alla politica, ovvero a identificare sotto il profilo ideologico cosa rappresentano determinate tendenze, ma entra direttamente nel merito degli stili di vita e dei retaggi culturali che all’interno dell’Esercito rosso si manifestano. Perché?  Perché, nel momento in cui l’ordine del discorso va oltre la ristretta cerchia dei militanti e dei quadri politici d’avanguardia, non si può risolvere il tutto con le pure e semplici categorie della teoria politica. In poche parole, l’inchiesta e l’analisi di massa, non possono essere condotte con la medesima strumentazione con la quale, per esempio, si affronta un gruppo politicamente strutturato e teoricamente organizzato. Un conto, richiamandosi a Lenin, è la battaglia interna al partito contro le tendenze economicistiche e terroristiche, altra cosa è il rapporto con quelle aree sociali attratte dall’economicismo e dal terrorismo. Nel primo caso si tratta di combattere e liquidare le linee politiche sbagliate attraverso precise argomentazioni teorico/politiche, nel secondo di conquistare alla politica rivoluzionaria tutte quelle quote di proletariato che nel loro immediatismo non posso far altro che, volta per volta, essere catturate dal riformismo e/o dall’avventurismo. Perché ciò sia possibile occorre conoscere a fondo l’humus sociale e culturale in cui questo proletariato consuma la sua esistenza.

Tradotto nel presente ciò significa fare i conti con la condizione proletaria qua e ora, rendendosi conto che la frattura storica rappresentata dalla fase imperialista globale ha scompaginato per intero il “mondo di ieri” ed che questo è stato un processo che si è articolato a trecentosessanta gradi. L’operaio con il quale ha a che fare Engels nel momento in cui delinea i profili della classe operaia inglese non ha più nulla a che vedere con il lavoratore figlio delle corporazioni medioevali o con l’artigiano che detiene tra le mani, per intero, il ciclo del prodotto. La classe operaia figlia della rivoluzione industriale è il frutto di un sommovimento storico che ha sradicato completamente un mondo facendo comparire sulla scena storica un soggetto la cui cultura e identità è tutta da inventare. Per molti versi, oggi, ci troviamo ad affrontare un compito identico.

Il proletariato che popola le nostre metropoli non è figlio della vecchia composizione di classe ma il parto ex novo di un modello socio economico che si è imposto in piena rottura con il modello pregresso. Tra i due mondi non vi è continuità bensì frattura. Questo è ciò che dobbiamo imparare a comprendere. Il 18 e il 19 ottobre non saranno le date che risolveranno il problema ma possono – e questo dipende in gran parte dalle capacità che le avanguardie comuniste saranno in grado di mettere in campo – esserne un passaggio importante e denso di ricadute. Ma in che modo? Una prima risposta la si proverà a fornire nella parte finale del testo dove proveremo ad affrontare il rapporto con i movimenti e in particolare con quello che possiamo definire il “paradigma No Tav” ma questo non è che una parte, sicuramente importante, ma pur sempre un solo aspetto del discorso. Vi è poi un secondo tema che deve marciare di pari passo ed è rappresentato da ciò che Lenin ha chiamato il grigio lavoro quotidiano. Questo lavoro, oggi, continua a essere quello maggiormente necessario e ignorarlo significherebbe dare una lettura fortemente fuorviante dei rapporti di forza tra le classi.

Facciamo un passo indietro e torniamo al 15 ottobre romano. Chi scrive non è certo annoverabile tra quelli che sono corsi a stigmatizzare quanto accaduto bensì tra coloro che , senza enfasi di troppo, da quegli eventi  hanno tratto indicazioni, almeno in potenza,  in gran parte positive. Una volta affermato ciò, però, occorre anche dire che il 15 ottobre romano non è certamente paragonabile sotto il profilo politico alle giornate di Mosca. Là, con tutta evidenza, l’insurrezione che i bolscevichi avevano da tempo anticipato teoricamente si era fatta carne e sangue nelle vie di Mosca. Tanto che, da quel fatidico 9 gennaio, per circa un anno lo spettro dell’insurrezione continuò ad aleggiare, con azioni armate di massa, entro i confini dell’autocrazia. Di più. Proprio quelle giornate diedero vita alla ripresa di una prassi rivoluzionaria in gran parte dell’Europa, oltre ad essere una poderosa miccia per le nazioni, in primis la Polonia, asservite al giogo zarista. A quel punto, proprio in virtù dell’esperienza concreta fatta dalle masse, il lavoro immediatamente rivoluzionario, ovvero la messa a regime di tutti quegli atti concreti finalizzati all’insurrezione,  diventava, per quella frazione di militanti in grado di agire da partito, il compito più urgente. Dopo l’esperienza che le masse avevano fatto in maniera autonoma e che le portava, attraverso la pratica, a congiungersi con quanto il bolscevismo aveva teoricamente preconizzato, allora a divenire centrale per il partito diventava il farsi  direzione strategica di un moto storico in atto.

La polemica di Lenin, in quel contesto, contro i fautori del legalitarismo e della politica dei piccoli passi è sin troppo nota. In quel momento, senza per questo essere del tutto abbandonato, il grigio lavoro quotidiano doveva e poteva essere posto in secondo piano. L’insurrezione e la sua direzione erano le reali poste in palio. Le domande retoriche poste da Lenin, nella Prefazione alle Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica, sono quanto mai esplicative:

“Non vi è dubbio che abbiamo ancora molto lavoro da fare per educare e organizzare la classe  operaia, ma tutto sta ora nel sapere qual è la cosa più importante, dal punto di vista politico, per questa educazione e per questa organizzazione. I sindacati e le associazioni legali, oppure l’insurrezione armata, la creazione di un esercito rivoluzionario e di un governo rivoluzionario? La classe operaia si educa e si organizza negli uni e durante le altre. E l’una e l’altra cosa sono evidentemente necessarie. Tuttavia oggi, nella presente rivoluzione, tutto sta nello stabilire come principalmente la classe operaia verrà educata e organizzata. Nei primi o durante le seconde?”


Lenin, nel contesto, non ha dubbi. Tutta l’attività del partito, tutte le sue forze devono essere impiegate per l’insurrezione, quindi per il lavoro illegale.

Possiamo dire, con un minimo di realismo politico, che uno scenario simile si è dato dopo il 15 ottobre romano? Obiettivamente no. Dopo il 15 ottobre non si è posto all’ordine del giorno alcun orizzonte insurrezionale, alcuna opzione politica finalizzata alla conquista del potere politico e nessuna avvisaglia di rivoluzione. Il 15 ottobre si è manifestata la possibilità di una lotta politica rivoluzionaria ma sarebbe sciocco scambiare ciò che è in potenza con una sua, anche solo parziale, messa in forma. Per questo, il grigio lavoro quotidiano, non può essere accantonato in nome di altre urgenze.  Non si tratta, con ciò, di fare alcun passo indietro ma, più realisticamente, di non coltivare illusioni prive di ogni realismo. Il cuore di ogni rivoluzione è la conquista del potere politico. Questo sogno dobbiamo coltivarlo ma lo dobbiamo fare a occhi aperti perché solo così sarà possibile che il sogno si avveri. In tale ottica, allora, il 18 e il 19 ottobre  diventano solo un passaggio dentro l’impegno di un lavoro quotidiano di agitazione, di propaganda e di organizzazione costante e testardo.

Centrale, almeno a nostro avviso, in tale ottica rimane il lavoro d’inchiesta perché solo grazie a questo è possibile comprendere la classe nel suo insieme. Per questo non basta limitarsi al dato strutturale. Questo dato ci dice che, oggi, gran parte del lavoro proletario e subordinato è precario, flessibile, in nero e via dicendo. Ci dice anche che, in virtù di tale condizione, questa forza lavoro è priva di rappresentanza politica, sindacale e visibilità sociale ma non ci racconta, e obiettivamente non è il suo mestiere farlo, come questa classe vive, pensa, socializza, condivide determinati spazi urbani e via dicendo. Non ci dice quali sono i suoi immaginari, le sue aspettative, i suoi sogni e le sue aspirazioni. Del resto questo non è una novità. Quando, nel nostro Paese, il modello di produzione fordista iniziò a girare a pieno regime all’improvviso, dalle campagne e dal Sud Italia, centinaia di migliaia di nuovi proletari, molto diversi dall’operaio professionale, andarono a riempire le catene di montaggio. Si trattava di un soggetto sociale ex novo, privo di una tradizione e di una cultura comune. I primi comportamenti pubblici di questo “strano soggetto operaio”, a ben vedere, non erano troppo diversi da quelli evidenziati nel corso del 15 ottobre romano dalla nuova composizione di classe. Anarchismo, ribellismo, teppismo e luddismo furono a lungo la cornice esistenziale di questo strano soldato. Messo al bando dal PCI e al contempo, tranne rare eccezioni come nel caso di Montaldi, incompreso dalle piccole forze comuniste non allineatesi alla svolta socialdemocratica di Togliatti, questa figura operaia era destinata a guidare l’ipotesi rivoluzionaria nel nostro Paese. L’operaio della catena, l’operaio – massa rappresentava esattamente il nuovo che nasce e intorno a lui, intorno alla mitica figura di Gasparazzo, lo spettro comunista tornò ad aleggiare, dopo gli anni della Resistenza, nel nostro Paese.

Su quella figura solo ristretti gruppi di militanti ebbero il coraggio di “scommettere”. Lo fecero non limitandosi all’analisi strutturale ma, attraverso lo strumento dell’inchiesta  andando ad investigare il nuovo soggetto sociale nella sua complessità e non trovarono il soggetto rivoluzionario già bello che confezionato. Anche in quel caso, il soggetto rivoluzionario, era tale solo in potenza. Trovarono un soggetto sociale ricco e denso di contraddizioni che aveva, però, una qualità oggettivamente indiscutibile e particolarmente appetibile: in virtù della sua postazione economica e sociale rappresentava un materiale infiammabile per eccellenza. Ma perché quel materiale si incendiasse, e lo facesse emancipandosi dall’orizzonte nichilista in cui era ascritto per approdare a una forma politica ben delineata, occorreva qualcosa. Era necessario che le avanguardie entrassero in stretta relazione con quel nuovo soggetto proletario e che, mentre lo educavano, imparassero a loro volta ad essere educate. In fondo, l’inchiesta operaia, non è stata altro che l’applicazione, in contesto metropolitano, dell’insegnamento maoista. Questo, indipendentemente da quanto ci riserveranno le giornate del 18 e 19 ottobre, rimane il compito irrinunciabile al quale le avanguardie comuniste debbono, con pazienza, piegarsi.


Per l’organizzazione proletaria metropolitana


In tutto ciò la concomitanza dello sciopero generale indetto per il 18 ottobre dai sindacati di base assume una valenza particolarmente importante non tanto per i numeri che questi saranno in grado di esibire ma per il significato, oggi forse solo simbolico ma foriero di positivi sviluppi, che questo si porta appresso. In questi anni, anche i sindacati di base hanno scontato lo “scarto epocale” tra il loro mondo e quello dei nuovi soggetti sociali e produttivi. Figli delle relazioni industriali novecentesche, pur avendo visto crescere in maniera non proprio effimera la loro influenza su alcuni settori di classe abbandonati al loro destino dai sindacati di regime, i sindacati di base non sono stati in grado di esercitare la stessa attrattiva verso la nuova composizione di classe, oltre a non essere diventati certo egemoni tra la vecchia composizione di classe. Un problema che gran parte dei militanti presenti dentro queste realtà sindacali si pone  e al quale però, finora, non è stata in grado di fornire un qualche tipo di soluzione.

Ciò lo si è visto molto chiaramente anche nel corso del 15 ottobre romano dove la piazza dei sindacati di base, di fronte all’insorgenza sociale apertamente manifestatasi, non è riuscita ad andare oltre allo stupore. Non si tratta di una critica ma di un semplice dato descrittivo. Il fatto che, oggi, queste stesse organizzazioni abbiano premuto per allineare e accomunare il loro sciopero generale con la manifestazione nazionale dei movimenti non ha un valore di poco conto. Questo può e deve essere l’inizio di un lavoro tra militanti sindacali e forze politiche comuniste finalizzato a dar vita, forma e sostanza a organizzazioni di massa metropolitane in grado di raccogliere intorno a sé tutte quelle quote di forza lavoro operaia, proletaria e subordinata ormai estranea alle relazioni industriali novecentesche.

Sotto tale aspetto è quanto mai positiva l’esperienza, che sembra essersi sufficientemente consolidatasi, in corso dentro il territorio metropolitano di Roma. Un’esperienza che ruota principalmente intorno alla “questione abitativa” ma che, almeno così a noi pare, sembra essere in grado di andare oltre la specificità e la particolarità dell’obiettivo casa, pur importante di per sè,  ponendosi nell’ottica di dare forma e contenuto a un’organizzazione di massa in grado di essere parte fondamentale del costituente sindacato metropolitano. Ciò che i movimenti di lotta della metropoli romana sembrano aver colto con assoluta precisione è la necessità di dare vita, non in maniera occasionalistica e movimentista, a una struttura “sindacale” in grado di raccogliere, unire e unificare le figure proletarie che la frantumazione del ciclo produttivo ha disperso sul territorio. Questo, oggi, è il passaggio al contempo obbligato e fondamentale con il quale occorre misurarsi. A fronte di figure lavorative indeterminate, e quindi obiettivamente deboli e difficilmente organizzabili, occorre agire là dove queste figure sono, per forza di cose determinate e ancorate. Questo “luogo comune” è il territorio. Del resto, anche in questo caso, non si tratta di una novità sui generis poiché, gran parte della storia del movimento operaio e proletario, proprio nel territorio ha avuto la sua centralità. La centralità della fabbrica, come cuore dell’organizzazione operaia, è stato il frutto, consumatosi all’incirca tra gli anni ’30 e ’70 del secolo scorso, di un determinato ciclo economico il quale, ormai, è andato bellamente in soffitta. Gran parte della storia politica operaia e proletaria, e si potrebbe aggiungere delle classi sociali subalterne, si è svolta principalmente fuori dai luoghi di lavoro avendo come centralità il territorio. In qualche modo, se una tradizione vogliamo trovare, è a quelle esperienze di lotta e organizzazione radicate dentro i territori proletari che dobbiamo “idealmente” volgere lo sguardo. Se questo è vero, molte cose ne conseguono soprattutto per i militanti e i dirigenti dei sindacati di base.

Perché affermiamo ciò? Perché, se quanto argomentato contiene qualche grano di verità, i sindacati di base sono obbligati a cambiare pelle. Sin dalla loro nascita  questi hanno rappresentato, all’interno dei posti di lavoro, l’opzione antagonista e non collaborazionista e concertativa della forza lavoro. Notoriamente sono stati solo una minoranza con, non per caso, qualche punta di egemonia là dove più alta si manifestava la coscienza di classe dei lavoratori, dove più alta era la consapevolezza della qualità del proprio lavoro o dove il tasso di sfruttamento si manifestava in maniera più elevata. Piccole e importanti “teste di ponte” contorniate però dai solidi presidi dei sindacati concertativi e collaborazionisti. In poche parole la gran massa della forza lavoro ascritta al mondo delle relazioni industriali novecentesche trovava nei sindacati confederali, e in primis nel sindacato giallo CISL, il proprio modello di rappresentanza economica e sociale.

Un’asserzione che, per evitare malintesi di sorta, va meglio precisata. La forza dei sindacati confederali e della CISL in particolare non significa che la maggioranza della forza lavoro proletaria e subordinata trovasse in questi organismi la sua sponda ideale bensì che quelle quote di forza lavoro rappresentabili e socialmente visibili in quelle organizzazioni trovassero l’esatta corrispondenza ai loro interessi. Questa è una sostanziale, per quanto corposa, minoranza della forza lavoro che può vantare, però, un surplus di visibilità pubblica e autorevolezza sociale. Nel frattempo, ed è qualcosa che affonda le sue radici sin dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, il modello delle relazioni industriali novecentesco iniziava a essere messo in mora. Le trasformazioni del modo di produzione capitalistico facevano saltare il banco, ponendo all’ordine del giorno un modello di relazioni industriali del tutto ex novo. L’espressione uomo flessibile è stata, con ogni probabilità, la miglior sintesi di questo passaggio. Da quel momento in poi, attraverso un processo a cascata, si è assistito a una costante polarizzazione della forza lavoro subordinata. Da un lato il rafforzamento, in maniera direttamente proporzionale al loro restringimento quantitativo, delle aristocrazie operaie e impiegatizie le quali hanno fornito, in un primo momento, la base di massa delle politiche antioperaie operate dalla CGIL a partire dalla “svolta dell’EUR”, quindi, in seconda battuta, alle politiche reazionarie e anticomuniste perseguite dalla “cricca berlingueriana”  contro le forze rivoluzionarie e gli strati operai e proletari più combattivi e determinati.

Un primo corposo effetto di questi indirizzi ha trovato, nell’autunno glaciale del 1980, la sua prima organica sintesi. L’effetto valanga che quella sconfitta operaia ha comportato non ha bisogno di molti commenti. Da quel momento in poi la destrutturazione della forza operaia non ha più conosciuto limiti e pudori e, con questa, la costante riduzione della forza lavoro in condizione di essere sindacalizzata tanto che, paradosso tra i paradossi, da anni le organizzazioni sindacali annoverano tra i loro iscritti più pensionati che forza lavoro attiva mentre, i lavoratori sindacalizzati, si pongono oggettivamente in contrapposizione alla restante massa proletaria e operaia. Di ciò ne abbiamo un esplicativo e al contempo curioso esempio osservando quanto accade nella FIOM genovese.

Questa, attraverso un lungo lavorio, è stata in gran parte conquistata da quadri sindacali la cui militanza politica si esplica a tutto tondo nell’organizzazione “Lotta comunista”. Organizzazione che si autoproclama rigidamente leninista, antiopportunista e antiriformista. Esula dai compiti di questo testo una disamina di suddetto gruppo politico e, pertanto, non ci addentreremo nell’analisi delle sue posizioni politiche. Ciò che ci preme evidenziare, invece, sono gli effetti del suo lavoro sindacale. Dopo aver conquistato la direzione locale della FIOM, “Lotta comunista”, non ha fatto altro che difendere, anche piuttosto bene occorre riconoscerlo, quella tipologia di lavoratori, assolutamente residuale, che ha tutte le carte in regola per essere sindacalizzata lasciando però al proprio destino l’insieme di quella massa proletaria, quantitativamente maggioritaria ma assolutamente invisibile, sulla quale poggia per intero il ciclo della produzione. Anche la FIOM a dominanza “Lotta comunista”, andando al sodo, non ha fatto altro che appoggiarsi su alcune figure produttive abbandonandone altre. Tutto ciò non è, almeno secondo la nostra opinione, il frutto di una cattiva gestione del sindacato ma il risultato di un dato oggettivo che pone, oggi, la condizione di classe all’interno di binari che corrono su tracciati non solo diversi ma obiettivamente incommensurabili rispetto alla tradizione novecentesca. In questo senso, tutte le argomentazioni classiche sul lavoro entro i sindacati appaiono come minimo altamente datate.

Nello Estremismo Lenin polemizza non poco contro coloro i quali ipotizzano l’uscita dei comunisti dalle organizzazioni sindacali. Il che allora aveva più di una ragione. In quel contesto, i sindacati, raccolgono la parte più avanzata della classe operaia. Al di fuori dei sindacati, in linea di massima, vi sono i settori proletari maggiormente arretrati e sarebbe stato un vero crimine consegnare spontaneamente all’influenza opportunista e riformista la parte più avanzata della classe. Oggi, però, sarebbe a dir poco ingenuo pensare di essere in una situazione simile. Oggi, nel sindacato, vi stanno semplicemente coloro che possono essere sindacalizzati mentre, al di fuori di questo, vi stanno le sterminate masse proletarie e subordinate non sindacalizzabili. Nel presente non vi è un problema di gradi di coscienza o di settori avanzati e arretrati di classe ma il ben più prosaico effetto di una condizione oggettiva che pone la forza lavoro in una condizione piuttosto che in un’altra. Pertanto, porsi l’obiettivo di conquistare il sindacato, non può che portare, nella migliore delle ipotesi, a essere i rappresentanti di una forza lavoro in via di esaurimento ignorando l’esistenza della stragrande maggioranza dei lavoratori. Un modo come un altro per osservare l’albero, senza cogliere la foresta.

Certo, il presidio dei posti di lavoro “classici” non va né abbandonato, né passato in secondo ordine (la crisi e la ristrutturazione in atto non potrà che colpire pesantemente anche molti ambiti lavorativi apparentemente sicuri), si tratta, però, di iniziare a pensare fattivamente a un modello organizzativo e di lotta che, per condizioni obiettive, non può essere ripreso, in alcuna sua forma, dalle esperienze maturate dalla classe operaia nel suo recente, ma ormai arcaico, passato.

Per essere chiari non si tratta di anteporre il “gatto selvaggio” allo sciopero ordinato, o il sabotaggio alla contrattazione di massa, bensì di individuare forme di lotta e obiettivi praticabili dentro la metropoli. Se, oggi, una forma di ricomposizione di classe è possibile, in maniera concreta, materiale e non ideale, questa lo è non andando a cercare una figura proletaria centrale la quale, sulla base dei rapporti di forza sanciti dalle sue lotte, è in grado di esercitare egemonia e direzione nei confronti di tutti gli altri settori di classe ma attraverso una pratica di lotta comune in grado di unificare, nei fatti, quell’insieme di figure produttive che possiamo definire lavoratori senza fissa dimora. Questo è, nei fatti, il nuovo che nasce. O lo si affronta o si rinuncia a qualunque ipotesi di organizzazione non solo politica ma semplicemente sindacale delle masse.

Ciò, per forza di cose, ha delle non secondarie ripercussioni anche sul piano strettamente politico, ovvero dell’organizzazione comunista. Se, come riteniamo, il partito non è un corpo scollegato dalla classe ma ne rappresenta la parte più cosciente e avanzata, allora l’analisi e la comprensione della composizione di classe diventa parte irrinunciabile della costituzione dell’organizzazione. Dobbiamo, cioè, non aver paura di tirare le logiche conseguenze di quanto, ancorché forse in maniera non eccelsa, abbiamo, in alcune circostanze, provato a delineare sul piano dell’analisi. Qua si tratta di compiere un’operazione che, probabilmente per molti, ha la stessa valenza freudiana dell’uccisione del padre. In poche parole occorre liberarsi, una volta per tutte, del mostro sacro dell’unità di classe. Perché? Perché se non compiamo questo atto ci ritroveremo inevitabilmente ad andare a rimorchio, magari in maniera critica, con tutte le varianti possibili e immaginabili del riformismo e dell’opportunismo. Si vuole, con questo, sostenere che siamo per la disorganizzazione della classe e la sua frammentazione? Assolutamente no ma, ed è questo il punto, riteniamo che un’organizzazione che non delimiti, sin da subito, il suo referente di classe per  organizzarlo autonomamente è condannata sin da subito a una pratica codista e del tutto subordinata a pratiche e retoriche proprie del riformismo e dell’opportunismo. In altre parole, essa sarà costretta a rimanere subalterna alle politiche socialdemocratiche sostenute da quei settori dell’aristocrazia operaia i quali, per loro natura e condizioni materiali, non possono che essere proni al collaborazionismo di classe con quelle aree di borghesia imperialista in grado, per quanto oggi la cosa sia in gran parte illusoria e aleatoria, di garantirgli quote più o meno elevate di profitto.

Del resto, nel nostro Paese, quanto illusoria sia l’ipotesi dell’unità di classe è stata abbondantemente dimostrato nel corso degli anni ’70 del secolo scorso. In quel contesto la socialdemocrazia, pur ammantatasi della denominazione comunista, è stata tra le principali forze che hanno garantito l’affermarsi della controrivoluzione non solo attraverso lo spiccato collaborazionismo di classe ma partecipando attivamente alla lotta contro le forze rivoluzionarie e di classe. All’interno di tale logica e progetto si collocano esattamente i fautori della manifestazione a “difesa della Costituzione” del 12 ottobre.


La giornata dei morti viventi


Quanto accaduto in questi giorni offre, nel caso vi fossero ancora dubbi, un’eccellente esemplificazione. A sostegno del Governo Letta, di fronte alle minacce berlusconiane, i sindacati di regime hanno organizzato, con una parte dei lavoratori, dei presidi sui luoghi di lavoro perché evidentemente per la triplice alleanza e parte dei lavoratori che rappresenta, il Governo Letta non è un nemico ma un partner con il quale collaborare a tutto tondo. Una sorpresa neppure così nuova poiché, tradizionalmente, le “aristocrazie operaie” si sono sempre schierate dalla parte delle borghesie imperialiste. In seconda battuta è importante rilevare l’allineamento di Landini e della FIOM alla linea ufficiale della CGIL. Per coloro che coltivavano qualche velleità su un ipotetico “partito FIOM” in alternativa al PD, il suo leader li ha belli che serviti. Infine non è proprio secondario denunciare la manovra apertamente provocatoria messa in atto dalla FIOM e dai suoi amici attraverso la convocazione di una manifestazione il 12 ottobre, esattamente una settimana prima della manifestazione dei “movimenti”, al fine di “difendere” la Costituzione.

Palesemente questa iniziativa ha il fine di porre una distinzione quanto mai netta e precisa tra una sinistra “critica ma costruttiva e propositiva”, a fronte di una sinistra “caotica e prossima al terrorismo”. Ma, una volta evidenziati i tratti apertamente opportunisti che animano gli organizzatori del 12, è bene soffermarsi un attimo su quel mondo, tanto onesto quanto ottuso, che sfilerà dietro alle parole d’ordine lanciate da Landini, Vendola, Rodotà e compagnia bella. In sintesi sarà quanto di meglio e quanto di peggio di ciò che rimane di un certo residuo novecentesco.

Tutta quella fetta, ormai in estinzione, di lavoratori passati attraverso la “via nazionale al socialismo”, il “compromesso storico”, i “governi di unità nazionale” – passaggi che hanno comportato, sembra il caso di ricordarlo, la rinuncia a ogni ipotesi di governo operaio – l’adesione alla NATO e, tanto per non farsi mancare nulla, il pieno avvallo del terrorismo di Stato, tortura compresa. In seguito lo smantellamento di ogni forma di diritti sociali, la precarizzazione del lavoro (sotto il profilo giuridico/formale è stato il Primo Governo Prodi a sdoganare la precarizzazione del lavoro), l’adesione entusiasta a tutte le guerre possibili immaginabili, sino a coltivare come icona il peggio giustizialismo e i suoi attori. Sicuramente una parte di costoro sono pure persone in buona fede e pieni di buoni sentimenti ma, almeno da Dante in poi, sappiamo che le vie dell’Inferno sono lastricate di buone intenzioni. Inoltre, perché questo è l’aspetto che conta per davvero, costoro sfileranno fuori dal tempo e dallo spazio. Quella Costituzione è stata già da tempo stracciata poiché i soggetti politici e sociali intorno ai quali è stata pensata, mediata  e in parte realizzata, sono ormai fuori dal mondo.

Le Costituzioni non sono icone, buone per ogni tempo e stagione, bensì il frutto di passaggi storici radicali che, attraverso quell’atto “giuridico/formale”, sanciscono la fine di un’epoca e l’avvento di un mondo nuovo. Tutto ciò, nonostante lo scadimento alla quale i vari Governi dell’ultimo ventennio hanno portato la scuola pubblica, lo sanno anche i bambini di quinta elementare. Così come, avendo tra le mani solo qualche strumento culturale di poco superiore, i più sono perfettamente a conoscenza che i giuristi, costituzionalisti compresi, non stilano una Costituzione dopo essersi recati in pellegrinaggio a un’ipotetica fonte del diritto dalla quale, pura e intonsa, sgorga la legge ma, i giuristi, scrivono il nuovo trattato di convivenza sociale, politica e civile al termine di un conflitto nel quale classi sociali e sistemi politici si sono mortalmente combattuti.

Per dirla con Foucault i codici sono scritti utilizzando il sangue essiccato dei corpi caduti in battaglia. La nostra Costituzione non è stata da meno. Pensiamo, solo per un attimo, se gli avvenimenti della Seconda guerra mondiale avessero avuto connotati diversi. Immaginiamo che i nazifascisti fossero riusciti ad avere ragione di Stalingrado e, in virtù di quella vittoria, fossero riusciti a ridurre l’Unione Sovietica ad un’entità statuale confinata oltre gli Urali. Forse l’imperialismo nazifascista sarebbe stato ugualmente sconfitto attraverso l’uso non parsimonioso delle bombe atomiche statunitensi; difficile pensare però, in tal caso, che a redigere la Carta Costituzionale sarebbero stati i medesimi attori politici che vi hanno posto il loro sigillo.

Il post ’45, non avendo tra l’altro il problema di dover contenere l’avanzata politica del movimento comunista, avrebbe probabilmente comportato, per i Paesi sconfitti, una condizione non distante da quella della colonia. Ma passiamo oltre. Prendiamo in considerazione una ipotesi più semplice e anche molto più realistica, poiché coltivata da gran parte dei “resistenti borghesi” e ampiamente sponsorizzata dagli Alleati e in particolare da Churchill. Immaginiamo, cioè, che una volta siglato l’Armistizio, non si fosse prodotto quel fenomeno della lotta armata operaia e partigiana sorta, soprattutto, per iniziativa comunista. Tutti sanno che, l’antifascismo borghese, spingeva per una posizione attendista delegando le operazioni militari a sparuti gruppi di specialisti, posti sotto la direzione dei SOS e agenti unicamente su loro indicazione, senza alcun coinvolgimento attivo della popolazione e, in particolare, evitando che classe operaia, proletariato e ceti subalterni partecipassero fattivamente alla guerra di liberazione.

In quel caso, la sconfitta del nazifascismo, sarebbe arrivata solo grazie alle baionette delle forze Alleate e, conseguentemente, sarebbero state quelle baionette e i rapporti di forza che avevano sancito a delineare i contorni della Carta Costituzionale. Al termine di tali eventi sarebbe stato impensabile, come invece effettivamente è stato, che nella prima stesura, l’ART. 1 della Costituzione potesse recitare: “La Repubblica italiana è una Repubblica fondata sui lavoratori”. In seguito, per gli evidenti richiami alla Repubblica dei Soviet o alle Democrazie popolari che avevano preso forma nell’Europa dell’Est, quell’articolo venne emendato nel meno compromettente e più polisemico: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Ma cosa rese possibile queste formulazioni costituzionali se non l’importanza che la lotta armata operaia e partigiana ha potuto vantare nella lotta contro il nazifascismo? Cosa rese possibile quella Costituzione se non un rapporto di forza costruito dall’esercito partigiano il quale, nel corso della lotta, non si era limitato a combattere ma, mentre combatteva, edificava nuovi modelli di rapporti sociali? Torniamo così al nocciolo della questione: i rapporti di forza ma non solo.

I rapporti di forza non sono qualcosa di astratto ma il frutto di una tensione politica storicamente determinata tra classi sociali concrete. Non si tratta solo e semplicemente del rapporto di forze tra proletariato e borghesia in una sorta di dimensione “ideale”, bensì del rapporto di forza tra queste classi in un contesto storico concreto e determinato, dentro uno specifico modello produttivo inserito, tra l’altro, in uno specifico contesto geopolitico. A un esame solo un poco più attento, quindi, diventa evidente l’insieme dei fattori materiali che forniscono penna, inchiostro e carta agli estensori della Legge Costituzionale. Di tutto ciò, oggi, palesemente non esiste più nulla poiché quella Carta Costituzionale è già stata fatta a pezzi dall’imporsi della controrivoluzione borghese che ha scompaginato per intero le regole del gioco. Certo, in qualche modo, la “battaglia per la Costituzione” potrebbe avere anche una qualche valenza positiva se questa, contrariamente a quanto propugnato dalle forze opportuniste che la sorreggono, avesse lo scopo di rilanciare, a partire da quel tracciato storico che l’ha prodotta, la questione del potere operaio e proletario qui e ora. In questo senso, allora, il richiamo “ideale” alla Costituzione potrebbe servire per rimettere al centro dell’agenda politica il profilarsi di una nuova “costituzione materiale” fondata sui soggetti proletari contemporanei. In questo caso, la Carta Costituzionale, avrebbe uno scopo non dissimile da ciò che rappresenta la memoria storica delle classi sociali subalterne. La memoria e la sua coltivazione non serve per ripetere meccanicamente, nel presente, le esperienze del passato ma come bagaglio politico in grado di fornire armi e strumenti alle lotte del presente. Di tutto ciò, ovviamente, tra gli attuali “difensori” della Costituzione non vi è traccia, poiché ciò a cui costoro mirano è la reiterazione di quel “patto socialdemocratico” che la Carta Costituzionale portava in grembo. Questa, a ben vedere, è stata la prospettiva politica maggiormente coltivata da gran parte dei soggetti politici cofirmatari dell’assetto politico nostrano fuoriuscito dal Secondo conflitto mondiale. Certo, nel momento in cui la Costituzione venne stilata, non era solo l’opzione socialdemocratica ad essere in gioco. Sullo sfondo vi era anche l’opzione soviettista coltivata da quote non secondarie di proletariato e classe operaia, insieme a buona parte dei quadri comunisti combattenti che avevano organizzato, guidato e diretto la resistenza armata operaia e partigiana. Ma questa opzione non era nelle corde della direzione del PCI.

Togliatti, attraverso il Partito nuovo, mutua per intero la fisionomia del partito comunista,  il quale, repentinamente, da partito di quadri con funzione di massa, risultato della battaglia condotta contro l’impostazione settaria e meccanicistica propria dell’ultrasinistra bordighista, viene trasformato in partito puramente elettoralistico. In altre parole si tratta del passaggio da partito/massa a partito/tessera o, per dirla in altro modo, da partito politico combattente per la realizzazione della dittatura del proletariato a partito di intrattenimento fondato sul valzer e la mazurka. Un’operazione che, per essere resa possibile, comporta la messa in mora di tutti i quadri combattenti forgiatisi dentro la lotta al fascismo, di tutti i quadri cresciuti dentro la lotta armata i quali, in gran parte, provenivano dalle file della classe operaia, del proletariato e dei contadini.

Con il Partito nuovo a diventare centrali tra le fila comuniste sono i settori piccolo borghesi e le aristocrazie operaie, ovvero proprio quei segmenti sociali maggiormente proni e cointeressati alla realizzazione del patto socialdemocratico tanto che, da partito degli operai, il PCI mutua in partito di maestri. Quasi nessun politico dell’era eroica della resistenza politica al fascismo prima  e della lotta armata operaia e partigiana sopravvive all’avvento del Partito nuovo. Tra i rari sopravissuti di notevole spessore vi è Luigi Longo il quale, però, si porta appresso, insieme alla grandezza, anche tutti i limiti del suo essere sostanzialmente un capo militare ma non un politico. In quanto generale, Luigi Longo, può essere tranquillamente ascritto all’innocua condizione di icona. Anzi, propria tale condizione, consente al Partito nuovo, nel momento in cui è sottoposto a critica da sinistra di mostrare con orgoglio il vecchio capo militare in prima linea nel realizzare i nuovi indirizzi del partito. Tutta l’ossatura comunista e operaia viene però emarginata.

Questa tendenza è stata egemone, nonostante i non trascurabili scossoni che ha dovuto subire sin dai primi anni Sessanta del secolo scorso, protrattisi per tutti gli anni Settanta, per tutto un ciclo storico. Ciò è stato possibile per un semplice fatto: il patto socialdemocratico era una variabile materialmente possibile all’interno di quel ciclo economico e in virtù degli assetti geopolitici internazionali. Uno scenario che, repentinamente, nei primi anni Novanta del secolo scorso è cambiata. Con il 1989 e la successiva implosione dell’URSS e del Patto di Varsavia finiscono gli assetti geopolitici delineatisi dentro il bipolarismo. Il capitalismo conosce una nuova Grande trasformazione attraverso quel processo comunemente definito globalizzazione. Ciò conduce alla fine di quel modello sociale, proprio dell’Europa occidentale, altrimenti noto come Welfare State il quale rappresentava per intero il distillato sintetico del patto socialdemocratico. Il patto socialdemocratico finisce fuori dalla Storia perché, a venir meno, sono le condizioni materiali e oggettive che lo avevano reso possibile. La socialdemocrazia, oggi, è un fetido cadavere non in seguito all’ennesimo tradimento consumato nei confronti del proletariato rivoluzionario internazionale (attualmente la socialdemocrazia non può essere più il becchino di nulla e di nessuno), bensì per il semplice motivo che quell’opzione non ha alcuna base concreta e materiale su cui poggiare. Nel momento in cui il progetto strategico delle classi dominanti si concretizza attraverso la marginalizzazione e l’esclusione politica e sociale di sempre più ampi settori di forza lavoro salariata e subordinata  le forze “mediatrici” socialdemocratiche non hanno più ragione di esistere.

Tutto ciò che la socialdemocrazia può mettere in atto è il triste remake di Come eravamo ma deve sapere che, alla prova dei botteghini, questo si mostrerà in un flop mostruoso. Neppure il suo consolidato e reiterato spirito questurino sembra avere qualche appetibilità per le classi dominanti, il che è facilmente comprensibile. La socialdemocrazia non ha alcuna presa sui soggetti sociali che formano la nuova composizione di classe, sotto tale aspetto è molto più funzionale il M5S, mentre ciò che resta della vecchia, e in esaurimento, composizione di classe novecentesca trova, anche se è un’illusione colossale, nel PD e nelle sue politiche imperialiste la sponda in grado di garantirle ancora qualcosa. Del resto, come le vicende politiche di questi ultimi due anni sono lì a ricordare, l’asse politico strategico del PD non può che essere ascritto dentro quelle frazioni di borghesia imperialista rigidamente allineata intorno alla costituzione di un polo imperialista europeo.

Ciò che i “difensori della Costituzione” non colgono, e del resto non possono neppure cogliere poiché il materialismo storico e dialettico non è certo il loro bagaglio teorico/analitico, è che il nuovo processo costituente è già in atto solo che, il suo perimetro, non è circoscritto allo Stato/Nazione ma ha dimensioni Continentali, il che, se fossimo di fronte alla messa in forma dello Stato comunista d’Europa, non sarebbe sicuramente un male. Ma non di ciò, ovviamente, si tratta. La posta in palio è la Costituzione del Polo imperialista europeo all’interno del quale non vi è alcun spazio per il “patto socialdemocratico”. Poco più che zombie i “difensori della Costituzione” non possono far altro che porre in scena il giorno dei morti viventi nell’attesa, ormai prossima, del funerale di terza classe che la Storia gli ha preparato.


Che cento fiori sboccino


Rimane, infine, qualcosa da dire sui “movimenti” che hanno convocato la giornata del 19. Dentro quella giornata c’è e ci sarà un po’ di tutto e non potrebbe essere che così. Centrale, però, a noi sembra l’esperienza del movimento NO TAV. Nei fatti questa rappresenta una vera e propria esperienza di “Resistenza popolare” fortemente radicata tra le masse e in grado di sostenere un conflitto, sempre più privo di mediazioni, con un potere statuale che, proprio lì, mostra l’essenza della sua “linea di condotta”. I comportamenti statuali in Val Susa, infatti, sintetizzano un intero paradigma che, se osservato attentamente, è in grado di fornirci l’esatta panoramica della forma Stato di cui, all’interno degli assetti propri della fase imperialista globale, la borghesia imperialista si è dotata. Per molti versi, ciò a cui ci troviamo di fronte in Val Susa, è la cristallizzazione di una politica tipicamente “coloniale” condotta da uno Stato contro la propria popolazione. Per questo, ciò che si sta verificando in Val Susa, può essere considerato a pieno titolo il paradigma per decifrare, non una semplice congiuntura, ma il modello politico dell’attuale fase imperialista globale. Perciò la Val Susa non è distante  e richiama, non solo idealmente, Gaza, Gezi Park, piazza Tahrir e tutti quei luoghi dove globalmente si concentra lo scontro tra le politiche predatorie e neocoloniali delle frazioni imperialiste delle borghesie e la resistenza delle popolazioni subalterne.

In Val Susa, ciò a cui assistiamo è alla messa in forma di una guerra, per adesso a bassa intensità, contro una parte di popolazione al fine di garantire gli interessi affaristici e mafiosi di alcune quote di borghesia imperialista la cui utilità, per altro verso, è del tutto nulla. Interessi monetari a parte, per altro ampiamente circoscritti, per quale motivo tanto accanimento da parte statuale per la realizzazione di un’opera inutile oltre che dannosa? In realtà, ciò che principalmente si sta sperimentando in Val Susa, è un modello di governo del territorio e della popolazione forgiato su polizia, esercito e reparti speciali della magistratura. Un modello che, attraverso un processo a cascata, verrà esteso all’interno di tutte quelle aree sociali e territoriali non disponibili a sottostare ai diktat statuali. Un passaggio che, le borghesie imperialiste, sanno non essere particolarmente facile. La Resistenza in atto in Val Susa è lì a dimostrarlo ma, proprio per questo, per la controrivoluzione la partita che vi si gioca assume una particolare valenza strategica. La Tav diventa, per il suo significato politico, una battaglia che la borghesia imperialista nostrana deve vincere a tutti i costi. È la sua Stalingrado, ma lo è anche per le forze antagoniste.

Il richiamo a Stalingrado non è puramente di facciata. Ciò che nella lotta contro la Tav si sta evidenziando è una formidabile unità di popolo e un legame indissolubile con il proprio territorio che, alla prova dei fatti, si è mostrato invincibile. Lo hanno sperimentato i nazisti, lo stanno sperimentando tra le montagne valsusine le forze imperialiste. “Questa terra, è la mia terra!” da qui “Non un passo indietro!”. La posta in palio, evidentemente, è alta ed è esattamente in tale contesto che vanno evidenziate le reiterate “provocazioni” e “infiltrazioni” intentate dai “corpi separati” dello Stato. In Val Susa è in scena l’intera gamma dell’armamentario controrivoluzionario il quale alterna, in piena continuità, la tattica della provocazione alla strategia dell’infiltrazione. Sulla provocazione, della quale i “pacchi bomba” ne rappresentano solo l’aspetto mediatico di maggiore effetto, vi è poco da dire.

Attraverso questi atti, gli apparati “riservati” dello Stato, pongono le basi per una campagna a tutto tondo finalizzata alla criminalizzazione di un movimento di massa che, giorno dopo giorno, si è conquistato la simpatia e la solidarietà di ampie quote di popolazione subalterna non solo in loco ma sull’intero territorio nazionale ed è pur diventato un punto di riferimento per numerosi movimenti europei. Da un lato, tali atti, mirano a rompere il consolidato fronte di massa che il movimento No Tav ha realizzato ma, a ben vedere, più che a ciò gli atti terroristici servono come giustificazione preventiva per far compiere all’azione politico/militare/giudiziaria statuale un ulteriore balzo in avanti. Difficile, infatti, che “pacchi bomba” e affini siano realmente in grado di disarticolare la solidità di un fronte di massa il quale, proprio in virtù del suo radicamento nel territorio, ben difficilmente può essere scalfito da simili atti. Più realistico ipotizzare che, a partire da questi, si trovi la giustificazione “formale” per una nuova stagione emergenziale, la chiusura o almeno la forte riduzione degli spazi di agibilità politica e organizzativa legali e l’instaurazione di un governo militare e poliziesco sul territorio. Se questo è il palese obiettivo delle azioni provocatorie, il suo cuore strategico è rappresentato dall’opera condotta dagli agenti infiltrati. Questi coltivano un duplice obiettivo. Da un lato devono favorire, all’interno del dibattito politico del movimento “No Tav” tutte quelle posizioni che favoriscono il settarismo, l’auto- isolamento e, nel caso, appoggiare le tendenze alle “fughe in avanti”; dall’altro hanno il compito di individuare, controllare, spiare tutta la gamma di quadri politici che, dentro questa lotta, si sono e si vanno formando. Si tratta, per le forze della controrivoluzione, di un lavoro di intelligence fondamentale.

Immaginare che il “cervello repressivo” della borghesia imperialista sia sostanzialmente ottuso è un errore madornale. La borghesia ha sempre studiato con attenzione – non è certo un caso che gli scritti militari del comandante Giap siano entrati a pieno titolo tra i testi base delle Accademie militari e in particolare tra quelle forze specializzate nelle “contro insorgenze”- la storia e le vicissitudini dei movimenti popolari e comunisti. Sa benissimo che, del resto è sufficiente ricordare quanto accaduto nel corso della nostra guerra partigiana, nella lotta e nella sua conduzione si formano continuamente quadri politici a tutti gli effetti molti dei quali, sovente, diventano veri e propri quadri dirigenti. Per la borghesia è di vitale importanza scoprire queste forze le quali, sorte in sordina e distanti dai riflettori dei media, rappresentano sovente la vera ossatura dei movimenti di resistenza. Infine, e in Val Susa è quanto mai evidente oltre che logico, gli infiltrati hanno il compito di reperire il maggior numero di informazioni possibili per quanto concerne tutto ciò che è possibile considerare il logistico dei valsusini.

Questo, in primis, è formato da quell’insieme di conoscenze del territorio che lo rendono impenetrabile e difficilmente controllabile alle forze d’occupazione. Il perenne scacco in cui, di fatto, sono state tenute le forze occupanti fino a ora ne rappresenta qualcosa di più che una semplice conferma. Per finire, gli infiltrati devono cercare di identificare tutta quella “rete partigiana” che si è dimostrata felicemente attiva nel portare a compimento numerose azioni di sabotaggio contro mezzi e cose impiegate per la costruzione della Tav. In aperta opposizione a questo progetto, non solo il movimento No Tav, ma tutte le forze antagoniste e di classe devono sapersi opporre. Il 19 ottobre deve essere anche la generalizzazione dell’esperienza No Tav in quanto modello di lotta reiterabile, pur con tutte le tare del caso, in ogni ambito territoriale, metropolitano e no.

Un secondo aspetto di particolare importanza riteniamo essere quello che si muove intorno alla questione abitativa. Questo per vari motivi. In prima battuta perché la lotta per il diritto alla casa, consente di unificare e organizzare, per il raggiungimento di un obiettivo concreto e immediato una molteplicità di figure economiche e sociali le quali, dentro la frammentazione produttiva contemporanea, mai avrebbero occasione di parlarsi, comunicare e unirsi. Un modo, quindi, non “ideologico” ma assolutamente materiale di produrre una ricomposizione della classe dentro la frammentata realtà metropolitana contemporanea. In seconda battuta perché, proprio sulla questione abitativa, è possibile entrare, con autorevolezza sociale e politica, dentro i mondi del proletariato immigrato i quali, per lo più, sono quelli in maggiore sofferenza rispetto alla questione abitativa. Inoltre, proprio attraverso la pratica dell’occupazione  e della gestione della medesima è possibile praticare un antirazzismo concreto e materiale poiché, dentro la lotta, “neri” e “bianchi” sono obbligati a cooperare contro il nemico comune. In terzo luogo, la lotta per la casa, consente di entrare in contatto con tutte quelle realtà, sia proletarie che piccolo borghesi le quali, in seguito alla crisi, si sono trovati nella condizione di perdere la casa, non essendo più in grado di far fronte alle rate del mutuo. Infine, proprio intorno alla questione abitativa, è possibile smascherare per intero la funzione controrivoluzionaria e antiproletaria delle “giunte di centro – sinistra” le quali, quando sono chiamate ad amministrare, reiterano senza pudore le peggiori politiche sociali delle giunte centriste e semi fasciste. La lotta per la casa, quindi, come momento non secondario per la costruzione dell’organizzazione di massa dentro la metropoli e un primo momento di unificazione reale della classe.

Sintetizzati, in breve, gli aspetti di maggior significato di ciò che scenderà in piazza tra le giornate del 18 e del 19 ottobre ci sembra importante, in quanto militanti comunisti,  porre al centro delle manifestazioni il tema della tendenza alla guerra. Non si tratta di aggiungere un tema ad altri bensì di individuare esattamente ciò che, dentro una determinata congiuntura, rappresenta il “cuore del politico”. Un aspetto intorno al quale occorre non solo ragionare ma insistere poiché, proprio qua, si gioca il ruolo delle avanguardie comuniste, il loro saper agire da partito ed essere direzione strategica. Un ruolo che è possibile svolgere concretamente solo se, ancor prima di fornire indicazioni politiche concrete, si è in grado comprendere analiticamente il contesto in cui si è storicamente collocati. Agire da partito, porsi come partito dell’insurrezione non significa lanciare parole d’ordine un po’ più a sinistra degli altri, non significa blaterare intorno alla rivoluzione bensì, più concretamente e realisticamente, comprendere, anticipandola, la fase storicamente determinata nella quale ci si trova a operare. Esattamente in ciò si esplica per intero la funzione dell’agire da partito.

Questa fase, oggi, si consuma dentro la crisi sistemica del modo di produzione capitalista il quale, per sua natura, non può che uscirne distruggendo immani quantità di capitale costante e capitale variabile. In altre parole, dentro la crisi, la tendenza alla guerra non può che diventare il progetto strategico necessariamente coltivato dall’imperialismo. Ma se questo è vero, molte cose ne conseguono. Tutti i movimenti, le lotte e con loro tutte le forme di organizzazione della classe non possono pensarsi fuori dalle forche caudine della tendenza alla guerra. Ciò per il semplice e banale motivo che la materialità stessa delle cose non lo permetterà. Se, oggi, l’intera formazione economica e sociale è piegata verso la guerra – essa ne diventa il “cuore politico” – tutto non può che essere pensato avendo a mente detto scenario. Le avvisaglie di ciò, del resto, sono facilmente verificabili osservando come, nei confronti delle masse subalterne, sia già, pur se a bassa intensità e con tratti più sociali che politici, in atto una belligeranza permanente che passa attraverso diverse articolazioni. La marginalizzazione ed esclusione sociale della nuova composizione di classe ne rappresentano una buona esemplificazione così come le strategie “coloniali”, particolarmente evidenti in Val Susa ma agite ovunque a livello globale da parte delle frazioni imperialiste borghesi,  sono l’esatta articolazione di una guerra contro la “propria” popolazione che caratterizza il senso e l’essenza della forma Stato contemporanea.

Per contrapporsi con efficacia ed efficienza a tutto ciò occorre che, il processo di unificazione delle avanguardie dentro la forma partito, trovi al più presto la sua sintesi. Ma su questo occorre essere chiari. Il salto al partito non è un’operazione che può essere pensata a tavolino, magari mettendo insieme la residualità di ceti politici andati a male, o provando a “mettere il cappello” ai movimenti. Il movimento No Tav, tanto per fare un esempio corposo, non ha certo bisogno che qualcuno, magari piombato lì dall’esterno, gli spieghi cosa deve o non deve fare. Non è certo questo il modo in cui, un’avanguardia comunista assolve sul serio al suo compito. Non per caso, nella parte iniziale del testo, ci siamo richiamati a Mao e al suo stile di lavoro. Ciò che, in qualche modo, si percepisce come soggettività comunista deve, per prima cosa, imparare ad andare a scuola dalle masse. Deve apprendere dai movimenti di massa e saper cogliere, per poterle amplificare, sistematizzare e unificare, le tendenze che dentro questi movimenti si esprimono. Deve imparare, in altre parole, a vivere in un’unità dialettica con il movimento di classe e, all’interno di questa relazione, far valere il peso della teoria rivoluzionaria come unica garanzia per apportare dentro i movimenti una visione complessiva del conflitto politico. In questo senso, allora, porre all’ordine del giorno la questione della tendenza alla guerra significa evidenziare, dentro la pratica obiettivamente parziale dei movimenti, il tratto generale e centrale in cui si focalizza il conflitto politico. Scorciatoie organizzattiviste al pari delle sommatorie pasticciate non conducono da nessuna parte. Oggi siamo in una situazione in cui con ogni probabilità, nell’immediato, saranno cento fiori a sbocciare piuttosto che un gigantesco e monolitico albero, cosa che per di più non si è mai data.

Ciò non è un bene o un male ma il semplice riflesso di una condizione oggettiva, all’interno della quale la frammentazione produttiva e sociale giocano un ruolo determinante, che non è possibile evitare attraverso il puro e semplice volontarismo. A diventare decisivo, pertanto, diventa la capacità delle avanguardie a vivere, lottare e soprattutto conoscere quanto, dentro le masse, si delinea. Tutto questo, ovviamente, è ben distante dal teorizzare la necessità di assumere il punto di vista medio delle masse, ascrivendo l’avanguardia alla dimensione dello “uomo della strada”. Del resto il porre l’agitazione sul tema della tendenza alla guerra racconta qualcosa di esattamente diverso. Porre come centrale, dentro i cento fiori, il tema della guerra significa svolgere quel ruolo di anticipazione che è propria dell’agire da partito. Significa, attraverso un lavoro grigio, costante e testardo preparare il terreno per ciò che, il futuro prossimo, porrà all’ordine del giorno senza mediazioni di sorta.

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