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per un movimento

Le mobilitazioni sociali del 18-19 ottobre*

di Franco Russo

1. Considerazioni preliminari

La gestione della crisi da parte delle classi dirigenti europee – governi nazionali, BCE, imprese, banche, tecnocrazia tenuti insieme dal ‘pilota automatico’ dell’UE – sta provocando una disgregazione sociale, essendo stati inflitti alle classi popolari i costi del ‘riaggiustamento economico’ attraverso i licenziamenti e la disoccupazione, la precarizzazione del lavoro, il consolidamento fiscale per contenere deficit e debito degli Stati con la conseguente contrazione dei servizi pubblici.

Senza tener conto di questi fattori, che riguardano la quotidianità di milioni e milioni di persone, non si può spiegare lo stato di acquiescenza e di passività in cui i popoli europei vivono questi anni di crisi, nonostante le lotte e gli scioperi generali in Portogallo, Spagna e Grecia. È calata una cappa per imporre una normalizzazione dei comportamenti sociali.

La CES, organismo sindacale europeo, ha scelto di non sostenere le mobilitazioni nei paesi colpiti dai provvedimenti di austerità, i famosi PIGS, né ha promosso lotte contro le decisioni delle politiche di bilancio e contro il Fiscal Compact e l’ESM.

La CES ha accettato le decisioni dell’UE sulle politiche pubbliche di aggiustamento fiscale, di flessibilizzazione del lavoro, di ulteriori ondate di liberalizzazioni e privatizzazioni. I sindacati della CES sono una componente di tutto rilievo nella gestione politica della crisi, essendo organizzazioni chiamate a contenere i conflitti, quando non proprio a sostenere il padronato nelle sue richieste, come l’ultimo Patto sulla produttività tra Confindustria e CGIL-CISL-UIL. In Italia, paese devastato dalle misure dell’austerità, non si sono avuti forti scioperi dei lavoratori e conflitti sociali, oltre che per il senso diffuso di paura e frustrazione, anche a causa alle scelte di CGIL-CISL-UIL di dialogare con governi e padronato.

La CGIL ha mostrato la ‘faccia feroce’ solo al tempo del governo Berlusconi per sostenere il ritorno al potere del PD. In occasione della legge di stabilità del governo Letta-Alfano CGIL-CISL-UIL hanno proclamato scioperi locali di quattro ore con l’intenzione di contenere la rabbia dei settori più colpiti, come il pubblico impiego.

La marginalità delle forze della cosiddetta sinistra radicale ha fatto concentrare l’attenzione sulla mancanza di una rappresentanza politico-istituzionale della sinistra, come se questa potesse essere conquistata nel vuoto del conflitto sociale. I vecchi gruppi dirigenti della sinistra radicale in una dinamica assolutamente autoreferenziale continuano ad agitarsi al loro interno quasi che il destino della ricomposizione sociale della classi subalterne e la nascita di un soggetto politico di sinistra anticapitalistica dipendessero dalle loro scelte. Il loro destino è stato già inesorabilmente segnato, e reso palese anche dai fallimenti elettorali – dall’Arcobaleno alla Lista Rivoluzione civile di  Ingroia.  


2. Le giornate del 18-19 ottobre
 

Il 18 ottobre si è svolto uno sciopero generale, indetto dal sindacalismo indipendente e conflittuale (più conosciuto come ‘sindacalismo di base’), con una manifestazione di lavoratori a Roma seguita da un’acampada in Piazza San Giovanni, da dove il 19 è partito il corteo dei movimenti sociali, il cui più consistente nucleo erano le organizzazioni di lotta per la casa.

Nella giornata del 19 ottobre sono confluiti altri movimenti territoriali: il NO TAV, il  NO MUOS, i NO agli inceneritori, i/le migranti, i/le richiedenti asilo, gli studenti, i movimenti per l’acqua pubblica.

La straordinaria partecipazione dei migranti alla manifestazione del 19 è la conseguenza della loro massiccia presenza nelle occupazione delle case e nelle lotte per una piena cittadinanza, elementi richiamati nel loro documento di adesione dove i diritti dei migranti e dei rifugiati vengono visti “all’interno di un percorso più ampio, come quello del diritto all’abitare e contro lo sfruttamento dei lavoratori in generale; per la centralità della lotta per la cancellazione della legge Bossi-Fini, che vuol dire anche lo scollegamento tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno; per la chiusura immediata dei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), autentiche prigioni etniche, istituite nel 1998 con la legge Turco-Napolitano a scapito della libertà di movimento delle persone”.

Certo, le giornate del 18 e 19 ottobre non hanno visto partecipi molte forze sociali, anzi, nonostante lo sciopero generale sia stato il più incisivo fra quelli indetti dal sindacalismo di base, è mancata una vasta presenza delle grandi categorie lavoratrici. Questo pone il problema di una nuova confederalità che può sorgere dalla rottura del vecchio sindacalismo di CGIL, CISL e UIL chiuso nel recinto del centrosinistra e nel dialogo con il padronato.

Netta la frattura del sindacalismo di base e dei movimenti sociali con le forze che hanno indetto la manifestazione del 12 ottobre, che non hanno voluto, o non sono state in grado, di aprire una comunicazione con chi da mesi andava organizzando le mobilitazioni di ottobre.

Perché, è bene ricordarlo, la settimana di mobilitazione di ottobre è stata il risultato di assemblee e incontri, come quello sul Monte Amiata di metà luglio, quando movimenti territoriali e per l’acqua pubblica programmarono proprio per il 12 ottobre decine di iniziative; delle riunioni in Val di Susa di fine agosto quando venne lanciato un appello per la mobilitazione del 19 ottobre, appello raccolto dal sindacalismo di base che, indicendo lo sciopero per il 18, ha creato le condizioni temporali e logistiche per tessere l’intreccio tra iniziative sindacali e mobilitazioni sociali.

ARCI, Libera, Libertà e Giustizia, FIOM  non hanno voluto o non sono stati in condizioni di aprire un dialogo per realizzare una settimana di lotte che tenesse insieme la difesa e il ripristino della Costituzione, già violata con la revisione dell’articolo 81, con gli scioperi dei lavoratori e le manifestazioni sociali.

C’è un motivo politico che spiega questa chiusura, ed è che le forze promotrici della manifestazione del 12 ottobre si collocano a ridosso del centrosinistra. I sindacati e i movimenti del 18-19 ottobre hanno consapevolmente e dichiaratamente rotto con il centrosinistra, né intendono essere ‘rappresentati’ dalla vecchia sinistra radicale. Inoltre, essi non vogliono affrontare alla vecchia maniera la questione della costruzione di una sinistra politica. In qualche modo ripropongono il ‘nessuno ci rappresenta’ degli indignados per raccogliere la generalizzata sfiducia verso i ceti politici e i partiti. Vogliono affermarsi e costituirsi come movimenti sociali capaci di raggiungere i propri obiettivi senza la mediazione dei partiti e dei gruppi parlamentari.

Non hanno l’ossessione della ‘politica’, non temono che la mancanza di un partito di sinistra impedisca o renda impotente il conflitto sociale. Si prefiggono la formazione di soggettività conflittuali attraverso l’autorganizzazione, nella convinzione che la rappresentanza deve essere sociale per poter divenire politica.

Se questo è un limite, è un limite deliberatamente tracciato. L’apertura di un tavolo di trattativa tra movimenti e il governo sulle ‘questioni dell’abitare’ dimostra che queste parzialità hanno una potenzialità politica – ciò che è stato più volte ripetuto durante la seconda acampada di Porta Pia: “costringendo il governo a trattare direttamente con i protagonisti sociali delle emergenze, abbiamo reso obsolete le vecchie rappresentanze politiche e sindacali”.

E la trattativa con il governo non ha fatto perdere la carica conflittuale come testimonia l’assedio di Montecitorio e il duro confronto con la polizia del 31 ottobre sotto la sede della Conferenza Stato-Regioni. Per la prima volta uno sciopero e una manifestazione di lavoratori sono stati costruiti insieme con i movimenti sociali e territoriali, uniti simbolicamente da Piazza San Giovanni, dove è terminato il corteo sindacale ed è iniziato quello dei movimenti.

La coalizione sociale delle classi e dei ceti oppressi ha conosciuto una fase di reale costruzione, al di fuori di mediazioni di partito o di apparati burocratici, e senza neppure il sostegno, né politico né organizzativo, delle grandi associazioni. Le acampadas, che si aveva già intenzione di realizzare il 15 ottobre 2011, sono state un esperimento per far incontrare soggetti e movimenti su temi di comune interesse.

Al centro delle discussioni negli speak corner nel pomeriggio del 18 ottobre sono stati: il precariato; la condizione dei migranti e dei richiedenti asilo; come rompere l’UE e costruire un’Europa dei popoli; la democrazia sindacale e l’accordo del 31 maggio tra Confindustria e CGIL-CISL-UIL con cui si mira a perpetuare il monopolio della rappresentanza delle vecchie confederazioni; la confederalità metropolitana per costruire legami tra lotte territoriali e lotte operaie.

Nella seconda acampada, iniziata il 19 a Porta Pia e terminata il 22 ottobre, i temi dominanti sono stati quelli relativi all’abitare e la richiesta di provvedimenti immediati contro gli sfratti e per l’utilizzo del patrimonio sfitto.


3. I movimenti sociali
 

La giornata del 19 ottobre non è stata una scadenza solo nazionale, perché è nata a livello europeo nel corso di incontri tenutisi a Barcellona, Atene e Berlino, quando si è costituita una Coalizione per la  mobilitazione per il diritto alla casa, che l’ha indetta con una piattaforma unitaria: “per la realizzazione di un Diritto alla Casa legalmente applicabile per tutti, in tutti gli Stati e territori d’Europa; per il Diritto alla Città come desiderio di un altro possibile sviluppo urbano, basato sull’eguaglianza dei diritti, sulla solidarietà, sui beni comuni urbani e sulla democrazia radicale; per dire basta agli sfratti forzati in Europa e in tutto il mondo; per lottare contro la finanziarizzazione e la privatizzazione delle abitazioni a difesa dell’edilizia sociale contro i mercati finanziari; per difendere dalla criminalizzazione i senzatetto e gli attivisti per il diritto alla casa; per la requisizione urgente e l’uso delle abitazioni vuote come soluzione al cronico bisogno di case”.

La piattaforma europea è stata sintetizzata in Italia con lo slogan ‘casa e reddito per tutti/e’ che tiene insieme le esigenze di vasti settori sociali – precari, senza casa, studenti – e soprattutto raccoglie le esigenze di vita e di dignità dei migranti. Il carattere meticcio è stata la dimensione più evidente delle mobilitazioni del 19 che ha consentito un’attiva gestione politica interna al corteo, garantendone un esito pacifico. Il 19 ottobre, oltre a questa dimensione sovranazionale – in quel giorno si sono svolte manifestazioni per il diritto all’abitare in 15 città europee −, ha coinvolto i NO TAV con una serie di riunioni e assemblee in Val di Susa sfociate in un appello il 1 settembre, che, in vista del 19 ottobre, indiceva un’assemblea a Roma per il 28 di settembre, quando l’aula prima di Lettere della Sapienza si è riempita di attivisti/e dei movimenti sociali e di studenti.

Nel corso dell’estate la mobilitazione italiana si è andata arricchendo di partecipazioni, ciò che spiega il successo del 19 ottobre per i numeri e per l’articolazione degli obiettivi programmatici.

Perché si è scelto il Ministero delle Infrastrutture come luogo finale della manifestazione del 19, e non i palazzi del potere più dichiaratamente ‘politici’, come quello dell’Interno o Palazzo Chigi?

In questa scelta si rivela la specificità del movimento del diritto all’abitare, intorno a cui si è costruita la più generale mobilitazione sociale e territoriale. Proprio perché obiettivi erano ‘casa e reddito’, il diritto a una città non dominata dagli interessi dell’industria edilizia e della finanza, si è puntato il corteo − dopo aver manifestato contro il Ministero dell’Economia e il suo braccio finanziario, la Cassa Depositi e Prestiti − verso il Ministero che gestisce edilizia, grandi opere e trasporti.

Le questioni del’abitare non sono il pretesto, la copertura  per un’operazione ‘politica’, sono proprio le questioni su cui si organizza un movimento sociale altamente conflittuale e lo scopo della manifestazione era sì di essere visibili, ma anche di acquisire legittimazione politica da parte di un soggetto che vuole essere la controparte diretta del governo senza le mediazioni di forze politiche e parlamentari.

È ‘politica’ questa o solo lotta ‘sociale’? È lotta sociale che diviene politica. Nascerà un soggetto politico o un movimento dei movimenti capace di sviluppare un conflitto metropolitano? Se si rimane ancorati all’orizzonte che vede nel partito lo strumento indispensabile di lotta politica, si dirà che tutto questo appartiene a un conflitto parziale, limitato a un settore sociale – insomma questo sarebbe un movimento di natura ‘economicista’ −, senza capire che la ‘politica’ per essere un evento reale deve coinvolgere le  persone con i loro bisogni e istanze: la politica è azione collettiva di settori e classi sociali, non manovre di e nei gruppi dirigenti.

La stessa democrazia rappresentativa si rinnova, e i diritti costituzionali sociali e di libertà si attuano attraverso pratiche collettive che richiedono anche una ‘reinterpretazione delle norme’  per rispondere a bisogni e per aprire spazi di autonomia collettiva e personale – Häberle parla a questo proposito di ‘comunità degli interpreti’, che comprende anche soggetti esterni al mondo giuridico e istituzionale. Per questo gli organizzatori della manifestazione del 12 ottobre sulla Costituzione hanno perso una grande occasione non volendola collegare con le mobilitazioni del 18 e del 19.

La lotta per la Costituzione ha sempre le sue radici nel conflitto sociale, solo così può assumere un’effettiva dimensione politica, che si irradia anche nel campo dell’ermeneutica giuridica – ci si ricordi delle esperienze dei pretori del lavoro degli anni ’60-’70 del Novecento quando sull’onda delle lotte operaie il diritto del lavoro venne reinterpretato alla luce dei principi costituzionali.

Le classi dirigenti ne sono tanto consapevoli che, con la forza del conflitto di classe dall’alto, stanno sradicando la stessa democrazia parlamentare usando i Trattati europei per istituire una ‘costituzione economica’, sancita dal pareggio di bilancio in Costituzione sotto la cui mannaia cadranno i diritti sociali.


4. Un nuovo sindacalismo
  

Era una scelta difficile per la FIOM interloquire con lo sciopero generale dei ‘sindacati di base’, la FIOM però deve avere la consapevolezza che la nascita di un sindacalismo di classe e democratico non può passare solo per gli scontri interni al grande apparato burocratico della CGIL senza alimentare una radicale lotta al vecchio sindacalismo.

Ormai è il tempo di dar vita a nuovo sindacalismo confederale, che non può sorgere nei corridoi di Corso d’Italia né solo nelle aule dei tribunali. Di nuova confederalità parla la piattaforma dello sciopero generale del 18 ottobre, con una valenza politico-sindacale molto ampia essendo aperta al mondo della precarietà, del lavoro migrante e dei movimenti sociali.

Non meno importante è la ‘questione delle questioni’ da sempre sollevata dal sindacalismo di base: la democrazia, con la rivendicazione che il potere decisionale sia direttamente dei lavoratori. L’accordo del 31 maggio intende restaurare il monopolio della rappresentanza di CGIL-CISL-UIL, mentre “la rappresentanza deve essere regolamentata da una legge che misuri la reale rappresentanza delle varie organizzazioni sindacali”, come recita la piattaforma dell’USB.

Questa contiene, oltre alla rivendicazione degli aumenti salariali e delle pensioni, quella di un ‘reddito sociale’ per tutti/e, che raccoglie le proposte del reddito universale di cittadinanza. E che le due giornate di mobilitazioni del 18 e del 19 non siano solo la somma di rivendicazioni parziali lo dimostrano le proposte di nazionalizzazioni delle grandi imprese, come l’ILVA, in modo da avviare processi di una generale ‘riconversione produttiva’.

La piattaforma del 18 ottobre richiama gli obiettivi della migliore cultura ambientalista: per mettere in sicurezza territorio ‘devastato da decenni di speculazione e abusivismo’ le scuole e il patrimonio pubblico; per realizzare il rimboschimento, tutelare e ampliare i terreni agricoli, e riqualificare la filiera agroalimentare; per requisire le case sfitte in modo da garantire il diritto all’abitare; per tutelare il patrimonio artistico.

Non si avanza più l’idea che sia lo sviluppo dell’attuale sistema capitalistico a garantire l’occupazione, bensì la prospettiva di un’altra economia socialmente ed ecologicamente sostenibile.

La partecipazione del sindacalismo di base – Confederazione COBAS e USB – al referendum sull’acqua e sul nucleare è il segno di questa capacità di dialogo e di relazione con gli altri movimenti. Il sindacalismo di base sta vivendo una fase di espansione sociale e di arricchimento culturale.

Sul tema dell’Unione Europea netto è il rifiuto dei Trattati dell’austerità – il Fiscal Compact e l’ESM –, di cui si chiede la cancellazione, così come determinata è la volontà di continuare la lotta contro il pareggio di bilancio in Costituzione, votato in parlamento da PD e PdL. L’indicazione, contenuta nella piattaforma del 18 ottobre, della rottura dell’UE è l’espressione della presa d’atto che non si è più di fronte a un ‘deficit democratico’ delle istituzioni dell’UE, bensì in presenza di un’oligarchia, strumento del dominio delle imprese, delle banche e della finanza.

Lo sciopero del 18 ottobre ha visto di nuovo insieme  Confederazione COBAS, CUB e USB che hanno deciso di far propria anche la scadenza dei movimenti; la Rete 28 Aprile ha sostenuto le due giornate, e con ciò ha caratterizzato anche il suo modo di stare nel prossimo congresso della CGIL. Io penso che in Italia si potrà innescare un nuovo e duraturo ciclo di lotte operaie e sociali se ci impegna a costruire una nuova confederalità sindacale che può avere come base di avvio proprio le giornate del 18 e 19 di ottobre.

* da Alternative per il socialismo, n. 29

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