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Nel cervello della crisi

La «storia militante» di Sergio Bologna tra passato e presente

di Damiano Palano

Proprio quarant’anni fa, mentre esplodeva la prima crisi dell’economia post-bellica, a Milano veniva dato alle stampe il primo numero di «Primo maggio», una delle riviste più importanti nella storia dell’«operaismo italiano». Quella rivista aveva il proprio punto di riferimento in Sergio Bologna, attorno al quale si erano raccolti alcuni giovani storici provenienti da differenti esperienze politiche della sinistra extra-parlamentare, ma vicini all’istanza di quella che veniva definita come una «storia militante». Da qualche anno il ricchissimo Dvd che accompagna un volume curato da Cesare Bermani  su quell’esperienza (La rivista «Primo maggio» (1973-1989), Derive Approdi, Roma, 2010) ha rimesso in circolazionetutti i ventinove numeri della rivista, insieme ad alcuni rari documenti complementari. D’altronde, nel lavoro di riscoperta dei classici dell’operaismo italiano promosso in questi ultimi anni da editori come Derive Approdi e Ombre corte, «Primo maggio» non poteva davvero essere dimenticata. Non solo perché, a causa di tormentate vicende editoriali, i fascicoli della rivista erano diventati ben presto introvabili, scomparendo così (quasi totalmente) anche dallo sguardo delle nuove generazioni e da ciò che rimaneva della ricerca critica sulle trasformazioni sociali.

Ma soprattutto perché quella rivista – capace di resistere per un quindicennio, oltrepassando anche la soglia fatale del 1980 – seppe proporre al dibattito teorico e politico degli anni Settanta intuizioni preziose, in grado di sfuggire anche alle inevitabili semplificazioni e scorciatoie di una discussione segnata costantemente dall’urgenza. In effetti, scorrendo oggi le pagine dei ventinove numeri di «Primo maggio», ciò che emerge – insieme a qualche scontato segno del tempo, marcato soprattutto a livello lessicale (perché il lessico politico-teorico di allora era abissalmente distante da quello di oggi, tanto da risultare talvolta persino indecifrabile a un lettore contemporaneo) – è il quadro di un’esperienza capace di proporre ipotesi originali e di individuare con lungimiranza i sentieri che la ristrutturazione produttiva avrebbe imboccato negli anni seguenti.

Ad aprire il primo numero della rivista era un articolo di Sergio Bologna, dedicato a Moneta e crisi. Marx, corrispondente della «New York Daily Tribune» 1856-1857. Quel saggio, destinato a inaugurare la discussione sulla direzione della trasformazione economica (e sul ruolo rivestito dalla moneta) venne poi pubblicato, in una versione più lunga, nel volume collettaneo Crisi e organizzazione operaia (Feltrinelli, Milano, 1974), e proprio in questa versione viene riproposto oggi in un volume nel quale, sotto il titolo Banche e crisi. Dal petrolio al container (Derive Approdi, Roma, 2013, pp. 199, euro 17.00) sono raccolti alcuni scritti antichi e recenti di Bologna. Scritti che consentono ancora oggi di apprezzare, oltre all’originalità delle ipotesi formulate allora, quella prospettiva metodologica che «Primo maggio» cercò di adottare nel suo lavoro di indagine sul passato e sul presente.


Una storia «militante»

Nel presentare al lettore gli scritti di Banche e crisi, Bologna ricostruisce l’intento con cui la rivista fu pensata e con cui – non senza qualche travaglio – venne portata avanti quell’esperienza di ricerca: «Io venivo dagli anni Sessanta, dal maggio francese, dalle lotte dei tecnici, dagli scioperi selvaggi alla Fiat, e non avevo intenzione di tirare i remi in barca, volevo creare uno strumento di ricerca che contenesse, come programma, i valori espressi da quei movimenti di massa. Non volevo essere un intellettuale ‘organico’, ma volevo dimostrare di saper usare gli strumenti di lavoro degli intellettuali, in particolare gli utensili di uno dei mestieri cognitivi più belli e affascinanti, quello dello storico, per poterli usare in maniera diversa» (p. 7). Certo nella storia di quella rivista non mancarono affatto le lacerazioni interne, le divisioni (metodologiche e politiche), le scommesse per molti per molti versi perdute. E, anzi, le disavventure editoriali, i dissapori redazionali, gli scontri personali scandirono quasi senza sosta tutto il lungo percorso dalla fondazione, nel 1973, alla chiusura definitiva, giunta alla fine degli anni Ottanta. Ma, a dispetto delle traversie che «Primo maggio» dovette superare, risulta piuttosto evidente – come sottolinea lo stesso Bologna – che tutta quell’esperienza si giocò effettivamente attorno all’ipotesi di una «storia militante». E se quell’ipotesi rappresenta davvero il carattere fondamentale di un’esperienza quantomeno anomala nel panorama italiano, essa è anche l’elemento in grado di spiegarne le traiettorie, oltre che, a un certo punto, un certo ripiegamento. Perché «Primo maggio» fu effettivamente un esperimento che puntò gran parte delle carte che aveva a disposizione sulla stessa possibilità di una storia che fosse «militante» non solo dal punto di vista teorico e metodologico ma anche sotto il profilo organizzativo.

Il carattere «militante» della rivista non discendeva infatti solo dal fatto che i redattori provenivano da esperienze di forte impegno politico, o dal fatto che ancora molti conservavano solidi legami con organizzazioni dell’estrema sinistra. Si trattava infatti di una rivista «militante» anche perché era pressoché totalmente autoprodotta, priva di supporti editoriali significativi e, soprattutto, senza sostegni economici da parte di istituzioni, enti, organizzazioni. In altre termini, era una rivista di «storia militante» non solo perché sviluppava una lettura consapevolmente ‘politica’ e ‘parziale’ del passato e del presente, ma anche perché intendeva l’attività storiografica come espressione di una ‘militanza’ politico-culturale del tutto gratuita. Nell’affollato panorama editoriale del periodo, questo carattere distingueva perciò «Primo maggio» anche da molte altre iniziative che si trovavano collocate più o meno nella medesima area. Si differenziava, per esempio, dalle collane Materiali marxisti e Opuscoli marxisti, perché non aveva alle spalle il sostegno economico, distributivo e promozionale dell’editore Feltrinelli. Ma si differenziava anche da riviste come «Classe» o «Aut aut», che potevano beneficiare di un radicamento nelle istituzioni accademiche, oltre che di un sostegno editoriale non irrilevante. Nata da un’idea di Sergio Bologna, raccolta e sostenuta da un piccolo gruppo di ricercatori, come Bruno Cartosio e Franco Mogni, «Primo maggio» ebbe infatti a lungo come editore Primo Moroni, fondatore della celebre libreria Calusca di Milano e instancabile animatore del dibattito culturale radicale negli anni Settanta. Nel momento in cui uscì il primo numero della rivista, nel 1973, Moroni era d’altronde il punto nevralgico di quella galassia di piccoli editori indipendenti che avrebbe proliferato per circa un decennio, fino al passaggio cruciale degli anni Ottanta. In questo senso, l’operazione andava a innestarsi su un terreno estremamente fertile e, soprattutto, nasceva da una specifica impostazione di politica culturale, che intendeva costituire dei luoghi di dibattito a fianco del movimento, ma non più dentro le sue organizzazioni, d’altronde investite già in quel periodo da una crisi piuttosto profonda. Ovviamente, però, il supporto della Calusca e di Moroni non poteva offrire a «Primo maggio» né una solida garanzia economica, né una rete distributiva efficiente e capillare, due elementi indispensabili per la sopravvivenza di qualsiasi pubblicazione periodica. E anche per questo «Primo maggio» dovette scontrarsi – non sempre con successo – con una serie di ostacoli che andavano al di là dei problemi che incontrarono altre riviste e altri gruppi di ricerca impegnati negli anni Settanta su un lavoro analogo. Le difficoltà interne e quelle esterne alla redazione non potevano infatti non incidere sullo stesso programma originario della rivista. Un programma che dovette nel tempo essere ricalibrato, ripensato e, infine, abbandonato, ma che forse, proprio oggi, torna a rappresentare per le nuove generazioni un lascito al tempo prezioso e ingombrante.


Passato, presente, futuro

«Primo maggio» era però una rivista «militante» anche per la propria impostazione metodologica. L’opzione di fondo che alimentava la rivista fin dalle origini era d’altronde esplicitata dalla breve presentazione che campeggiava sulla quarta di copertina del primo numero e che illustrava in che senso dovesse essere intesa l’espressione «storia militante». «Obiettivi di lotta, parole d’ordine, forme organizzative che in questi anni abbiamo usato nella lotta politica» – si leggeva nel pezzo, steso da Sergio Bologna – «diventano categorie di interpretazione del passato e, viceversa, la storia passata del movimento operaio diventa modello per la tattica di oggi». Per questo, «una rivista di storiografia militante non solo sceglie i temi entro periodi ben definiti della lotta di classe, ma scopre in quelli un filo conduttore che li porta immediatamente ai problemi del presente» (quarta di copertina di «Primo maggio», n. 1, 1973). Ciò implicava, dunque, un criterio ‘politico’ nella scelta dei temi, ma, ovviamente, anche una chiave di lettura ‘militante’ nel modo stesso di affrontare certi nodi.

Non si trattava, in questo senso, di una novità, né all’interno del panorama operaista, né nella stessa ricerca di Bologna. In effetti, «Primo maggio» doveva sviluppare quegli stessi criteri che erano alla base della collana «Materiali marxisti» dell’editore Feltrinelli, all’interno della quale sarebbero usciti, fino ai primi anni Ottanta, studi di autori stranieri, come Karl Heinz Roth (L’«altro» movimento operaio), George P. Rawick (Lo schiavo americano dal tramonto all’alba), Benjamin Coriat (La fabbrica e il cronometro), F. Fox Piven e R.A. Cloward (I movimenti dei poveri), e ricerche del Collettivo padovano di scienze politiche (tra cui volumi come Imperialismo e classe operaia multinazionale, L’operaio multinazionale, Stato e sottosviluppo). D’altronde, l’idea di utilizzare il passato come chiave di lettura per il presente era stata alla base anche del famoso seminario del 1967 sugli anni Venti e Trenta, i cui lavori furono raccolti solo alcuni anni dopo in Operai e stato (Feltrinelli, Milano, 1972):un volume che non costituiva soltanto il primo tassello dei «Materiali marxisti», ma anche l’esplicitazione di molti elementi teorici – dalla nozione di «operaio-massa», alla distinzione fra «composizione tecnica» e «composizione politica» della classe operaia, fino alla stessa ipotesi dello «Stato-piano» – che avevano guidato i gruppi operaisti tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Anche in quel caso, infatti, il passato – il ciclo di lotte operaie tra la fine della prima guerra mondiale e il New Deal – era utilizzato come chiave per comprendere il presente, e, soprattutto, i conflitti negli Stati Uniti – e la stessa genesi dell’«operaio massa» – erano intesi come strumenti di anticipazione dei conflitti italiani ed europei.

Tra le ipotesi di Operai e Stato e la nascita di «Primo maggio» stavano però, oltre ad alcuni elementi comuni, anche sostanziali differenze. La prima di queste consisteva nel modo stesso di intendere il rapporto fra ricerca teorica e azione politica. Dopo la disastrosa esperienza di Potere operaio (che, abbandonata l’originaria impostazione anarco-sindacalista, si era rapidamente tramutato in un gruppo neo-leninista, con una latente vocazione militarista), Bologna non pensava più che la «storia militante» potesse avere un ‘immediato’ utilizzo politico. Per lui e per gli altri due fondatori, Cartosio e Franco Mogni, la rivista doveva piuttosto «collocarsi in quella zona mediana della riflessione che ha il suo spazio a cavallo tra l’università post-sessantottesca e il movimento, che sembra particolarmente necessaria e di cui sono disponibili vari esempi interessanti sia in Italia, sia fuori, particolarmente in Germania e negli Stati Uniti» (C. Bermani – Bruno Cartosio¸«Piccola storia» di una rivista, C. Bermani, a cura di, La rivista «Primo maggio», cit., p. 7). Anche se questa posizione di relativa ‘estraneità’ alla dinamica politica non poteva non limitare la possibilità di fornire valutazioni sul presente (almeno fino all’esplosione del movimento del ’77), si trattava del frutto di una «valutazione strategica». «Intervenire sulla cronaca politica, anche in termini di riflessione, esporrebbe la rivista a un tipo di dialettica che i pochi compagni della redazione non potrebbero poi in alcun modo sostenere, né tanto meno controllare» (ibi, p. 9).

Se la rivendicazione di un’autonomia intellettuale dalle organizzazioni politiche definiva dunque un primo rilevante fattore di scarto fra l’operaismo degli anni Sessanta e la «storia militante» di «Primo maggio», una seconda differenza, altrettanto importante, riguardava anche le scelte sul passato che doveva essere riletto e recuperato. Senza dubbio, il passato continuava a essere letto con una prospettiva politica rivolta al presente, e in questo senso l’articolo con cui Bologna apriva il primo numero era esemplare, dato che ricercava nelle pagine marxiane una chiave per leggere la crisi mondiale del 1973. E, d’altro canto, il programma era piuttosto chiaro su questo punto, nel momento in cui esplicitava il legame tra i conflitti e le domande della ricerca: «Lo schiavismo e la rivoluzione industriale, l’emigrazione, le lotte negli Usa e l’Industrial Workers of the World, l’ondata consiliare degli anni Venti, il sistema sovietico di industrializzazione e di gestione della forza-lavoro non sono temi scelti a caso, ma imposti dalle lotte nei ghetti americani, dalle lotte autonome delle grandi fabbriche europee di questi anni. Molti criteri tradizionali del cosiddetto materialismo storico sono entrati in crisi. Basti pensare al concetto di classe, a quello di Lumpenproletariat all’esercito industriale di riserva. Molti criteri nuovi si sono formati. Basti pensare al rifiuto del lavoro, al ruolo della donna, alla repressione tecnologica delle lotte. Allora la storia della tecnica, per esempio, non è mera storia dell’invenzione o della meccanizzazione, ma lotta di classe, repressione. E così la storia del proletariato italiano. Perché restringerla ai confini del nostro paese? Perché non seguire il cammino degli emigranti, che si portavano dietro la sconfitta di lotte contadine, per diventare militanti e agitatori negli scioperi industriali di massa delle due Americhe? E così la storia dei partiti e dei sindacati. Perché farne una storia delle burocrazia, una storia delle istituzioni, e non invece una storia dei rapporti tra classe e organizzazione, tra spontaneità e direzione? I criteri leninisti diventano allora l’unica categoria corretta per una storiografia dei partiti» («Primo maggio», n. 1, 1973, quarta di copertina). Già da questa indicazione programmatica, al di là degli elementi di evidente continuità con la ricerca degli anni Sessanta, affiorava però – in modo forse ancora piuttosto sommesso – una differenza destinata ad approfondirsi.

Oltre Torino

L’attenzione agli Industrial Workers of World e a una figura come Louis Fraina testimoniavano come «Primo maggio» continuasse a guardare agli Usa. Ma a ben vedere – come iniziavano a segnalare i riferimenti alle lotte nei ghetti, al ruolo della donna, al Lumpenproletariat, all’emigrazione – il riferimento non era più costituito dalla centralità (politica e teorica) dell’operaio massa. Per molti versi, infatti, la rivista aveva tra i propri scopi anche la ‘relativizzazione’, e un ripensamento critico, della centralità dell’operaio massa. Questo obiettivo era esplicitato da Bologna in un articolo fondamentale, Il rapporto società-fabbrica come categoria storica, che, pubblicato sul secondo numero, può essere forse considerato come una sorta di manifesto programmatico per il lavoro dell’intera rivista (o almeno per la concezione che ne aveva in questa fase lo stesso Bologna). Era proprio in questo saggio, posto come premessa a un contributo sulle Date di storia della Fiat (1900-1940), che Bologna faceva emergere nel modo più chiaro dove stesse la distanza rispetto all’operaismo non solo dei «Quaderni rossi» e di «Classe operaia», ma anche delle ricerche di Operai e Stato o di «Contropiano».

In sostanza, secondo la critica articolata da Bologna, l’operaismo degli anni Sessanta era stato vittima di una rappresentazione distorta del processo di industrializzazione, soprattutto perché, non aveva compreso come, di fatto, l’«operaio massa» e la sua centralità fossero ormai vicini al tramonto. Assumendo Torino e la Fiat come la prefigurazione del futuro del conflitto di classe, l’operaismo aveva così travisato (e considerato come politicamente marginali) la realtà del decentramento produttivo, la terziarizzazione e il lavoro diffuso, e cioè proprio quegli aspetti su cui avrebbe puntato negli anni seguenti la ristrutturazione. I «Quaderni rossi», e con loro tutto l’operaismo degli anni Sessanta, scriveva infatti Bologna, avevano «inchiodato ogni processo di rinnovamento del movimento operaio, ogni rottura strategica con le vecchie organizzazioni, ogni ricostruzione di una storia operaia, ai lavoratori della Fiat ed al rapporto città-fabbrica di cui Torino è espressione» (S. Bologna, Il rapporto società-fabbrica come categoria storica, in Primo Maggio, n. 2, 1974, p. 3). In una sostanziale continuità con Gramsci, Torino e la Fiat erano stati dipinti come l’esemplificazione paradigmatica dell’«assorbimento del terreno fordista dentro il rapporto di produzione», delineato nelle pagine sul «Fordismo» dei Quaderni del carcere. E, lungo questo sentiero, la nozione di operaio massa aveva finito col perdere una parte della propria densità, oscurando inoltre gran parte dei conflitti che contemporaneamente andavano prendendo forma nella società. All’interno di una simile prospettiva, la relazione fabbrica-società era stata infatti per molti versi ‘cristallizzata’ attorno al modello di Torino e delle sue peculiarità, col risultato che non erano state neppure intraviste le trasformazioni che andavano modificando quel rapporto. Ma, paradossalmente, la tradizione storiografica che aveva trovato nella città della Fiat il paradigma della relazione tra produzione e riproduzione rischiava di fornire una rappresentazione della realtà sempre meno efficace e sempre più «provinciale», perché si andavano ormai affacciando all’orizzonte tanto un «declino dell’auto», quanto una prorompente disseminazione sul territorio delle attività produttive: «Il fatto che la Fiat, per rispondere all’attacco di classe del 1969-71, fugga da Torino, assuma una struttura articolata sull’intero territorio nazionale, il fatto forse ancor più importante del ‘declino dell’auto’ come modo di produzione e di consumo – sottraggono molta carica ‘militante’ alle analisi storiche basate ancora sul vecchio rapporto Fiat-Torino, città fabbrica. Per questo diciamo che la nuova forma della Fiat ha rapidamente fatto invecchiare un’intera tradizione storiografica» (ibi, p. 7).

Proponendo un programma collettivo di lavoro che rivolgesse la propria attenzione, ad esempio, agli operai delle medie imprese, al lavoro diffuso, ai disoccupati e al lavoro domestico, «Primo maggio» doveva invece finalmente abbandonare l’assunto della centralità politica di Torino (e del modello di città-fabbrica che essa aveva rappresentato) e avviarsi a rompere «l’omertà storiografica sulle lotte operaie a Milano». La critica dell’immagine gramsciana della città-fabbrica non era però l’unica innovazione che «Primo maggio» proponeva rispetto alla tradizione operaista: passando infatti a un progetto storiografico ad ampio raggio, la rivista aprì le proprie pagine alla storia orale e a quegli interpreti che, seguendo le orme di Gianni Bosio e Danilo Montaldi, esploravano la vita quotidiana di operai, ‘sfruttati’ e ‘marginali’, alla ricerca di sistemi culturali alternativi e antagonisti rispetto a quello dominante (Si veda in questo senso, ad esempio, C. Bermani, Dieci anni di lavoro con le fonti orali, in «Primo maggio», n. 5, 1976, pp. 35-50, ma anche l’intervento di S. Bologna e C. Bermani, Soggettività e storia del movimento operaio, in «Il Nuovo Canzoniere Italiano», III s., n. 4-5, 1977). Si trattava senza dubbio di una strada originale e ricca di potenziali sviluppi, in cui era evidente l’influsso del ‘soggettivismo’ dei movimenti antiautoritari e del loro tentativo di cogliere nella cultura degli ‘strati subalterni’ (e talvolta marginali) i segni della resistenza e dell’opposizione alla ‘cultura dominante’. Ma si trattava anche di un sentiero che, investendo indirettamente la dicotomia operaista di «composizione tecnica» e «composizione politica» della forza lavoro, rischiava di condurre la ricerca a una sorta di ‘cortocircuito’ teorico.

Il cardine teorico di «Primo maggio» era infatti la nozione di «composizione di classe», un concetto, come scrisse Massimo Cacciari, in gran parte «pontificale», entrato a far parte dell’armamentario teorico operaista fin dalla metà degli anni Sessanta, ma destinato in seguito a essere rielaborato e affinato notevolmente. L’idea dell’esistenza di una «composizione di classe» era stata formulata inizialmente da Romano Alquati nelle sue ricerche sulla nuova classe operaia pubblicate sui «Quaderni rossi» e su «Classe operaia», ed era stata ripresa anche da Mario Tronti, che, in Operai e capitale, aveva auspicato la nascita di una storiografia in grado di ripercorrere, dal punto di vista operaio, il processo di «costituzione in classe» della forza lavoro. L’idea centrale era che, a fronte dell’esistenza della composizione organica del capitale, si potessero rintracciare anche i contorni di una specifica «composizione di classe», costituita dai conflitti sedimentati nella struttura soggettiva della forza lavoro: in questo senso, la storia della composizione di classe veniva ad essere la storia del processo attraverso cui la classe conquistava e consolidava la propria ‘rigidità’ economica nei diversi settori produttivi e a livello sociale. Alquati, con l’espressione «composizione di classe», intendeva esprimere probabilmente l’idea della rigidità politica conquistata dalla classe operaia e consolidata nella sua struttura soggettiva, ma gli sviluppi successivi estesero notevolmente questa intuizione, arrivando a distinguere, all’interno della composizione di classe, una «composizione tecnica» e una «composizione politica». Questa precisazione teorica, elaborata evidentemente sulla scorta della distinzione marxiana tra composizione tecnica e composizione di valore del capitale, fu dovuta soprattutto a Bologna e Negri, che la utilizzarono per fornire solide basi teoriche alla definizione di «operaio massa» cui diedero corpo alla fine degli anni Sessanta. Ma, se entrambi sottoposero in seguito quella nozione a una seria critica, la stessa cosa non accadde per lo schema analitico della composizione di classe, destinata ad alimentare una lunga serie di equivoci teorici, di cui la stessa vicenda di «Primo maggio» avrebbe fornito qualche testimonianza.


La moneta e la crisi

Proprio attorno alla nozione di «composizione di classe» (e all’individuazione di una figura conflittuale più o meno «egemone») sarebbero nate le principali discussioni interne a «Primo maggio», esplose soprattutto in coincidenza con l’irruzione sulla scena del movimento del Settasatte e in seguito destinate a degenerare in aperta polemica (come nel caso del Convegno tenutosi a Mantova nel 1981, forse il punto terminale della vicenda della «storia militante»). Ma, almeno per la prima fase di vita della rivista, lo sguardo centrato sulla composizione di classe consentì di osservare le trasformazioni del capitalismo in modo molto diverso da quanto avevano fatto (e facevano ancora) molti studiosi marxisti. In sostanza, quell’opzione che Tronti aveva fissato nei suoi scritti negli anni Sessanta, stabilendo la precedenza storica e logica della classe operaia sul capitale (e sulla sua organizzazione politica), si traduceva nelle pagine di «Primo maggio» nel cardine metodologico della «storia militante». Perché i movimenti del «capitale» venivano ricostruiti a partire dalla realtà di un conflitto, allo stesso modo con cui gli studiosi di strategia, partendo da elementi frammentari, possono ricostruire, intuire e prevedere le mosse di un esercito impegnato in una lunga guerra di posizione. Così, anche quando Bologna tornava a leggere gli articoli stesi da Marx per la «New York Daily Tribune», non lo faceva per un intento filologico, ma piuttosto con l’obiettivo di ricostruire le connessioni che avevano condotto l’autore del Capitale a spingere la propria ricerca più avanti, fino a immaginare – negli appunti febbrili del 1857-58 – le conseguenze (economiche ma anche politiche) che avrebbe comportato la realizzazione del mercato mondiale. Sempre ponendo lo sguardo sulla composizione di classe e sulle sue trasformazioni, «Primo maggio» seppe però individuare due nodi cruciali, allora quasi completamente inesplorati, costituiti per un verso dal ruolo strategico rivestito dalla moneta all’interno della strategia di ristrutturazione, e, per l’altro, dalla rilevanza (anche politica) che andavano assumendo i trasporti. Ed è proprio a questi nodi che si legano i primi due saggi raccolti in Banche e crisi.

Quando in Moneta e crisi Bologna rileggeva gli articoli stesi da Marx per la «New York Daily Tribune», non si limitava infatti a sottolineare come quegli scritti avessero una parentela con la stesura del Grundrisse. Più in generale, riconosceva in quei contributi, all’apparenza stesi solo per raggranellare qualche soldo, tanto il presupposto di una svolta teorica, quanto il motivo che spinse Marx a tornare un’altra volta ad agire sul terreno politico. «La stessa unità di fondo tra impianto teorico e progetto di partito non si sarebbe forse realizzata», notava infatti Bologna, «senza aver vissuto, scrutato, tallonato la crisi monetaria del 1857» (Moneta e crisi. Marx, corrispondente della «New York Daily Tribune» 1856-1857, in Banche e crisi, cit., p. 17). La crisi rappresentava infatti il laboratorio capace di indurre Marx a un salto, rispetto al ‘48, sia dal punto di vista teorico, sia da quello politico: «le istituzioni politiche vengono reinterpretate a partire dall’organizzazione monetaria, le leggi del valore a partire da uno stadio ormai maturo dello sviluppo capitalistico», ma, soprattutto, il fallimento della ristrutturazione avviata da Napoleone III «indica alla classe operaia il nuovo terreno dello scontro e le nuove dimensioni dell’organizzazione per il potere» (p. 20).

Dal punto di vista strettamente teorico, sosteneva Bologna, la crisi del ’57 spinge infatti Marx a ripensare quella distinzione fra un ceto industriale produttivista e un ceto finanziario invece arretrato e parassitario che ancora nel 1850, ai tempi della stesura delle Lotte di classe in Francia, contrassegnava la sua lettura. Gli articoli stesi per la «New York Daily Tribune», dedicati a un’analisi delle dinamiche della crisi finanziaria, inducono invece Marx ad abbandonare questa visione e a riprendere proprio dalla banca e dal suo ruolo ‘rivoluzionario’ l’indagine sulla formazione del «mercato mondiale». L’esperienza del Crédit Mobilier consente in primo luogo a Marx di criticare le illusioni dei proudhoniani sulla gratuità del credito,  ma, in secondo luogo, innesca anche un ripensamento forte sul governo della liquidità come anticipazione del governo del capitale sociale. Ed è proprio a questo proposito che viene abbandonata l’idea che esista una parte ‘sana’ (produttiva) distinta da una parte ‘malata’ (speculativa) del capitalismo, nel senso che – osservava Bologna, ripercorrendo il sentiero di Marx – la ‘sproporzione’ e la ‘crisi’ non risultavano degenerazioni, ma aspetti necessari allo sviluppo capitalistico: «Sviluppo e crisi sono indissolubilmente legati perché si trovano unificati nelle medesime istituzioni: senza una sproporzionata dilatazione del credito nessuna capacità moltiplicativa del sistema industriale, senza una sproporzionata crescita della composizione organica del capitale nessun aumento della massa del profitto, senza uno sproporzionato aumento del pluslavoro nessun controllo sul lavoro necessario. Le cause della crisi sono intrinsecamente necessarie allo sviluppo. Senza una disponibilità sociale del capitale, mediante il Crédit Mobilier, nessun salto in avanti nel sistema bonapartista; ma le leggi di sopravvivenza di quella medesima istituzione che garantisce la mobilitazione delle risorse francesi producono stagnazione e crisi. La società del capitale non è divisa dunque in una parte ‘sana’ e in una parte ‘malata’ ma sviluppo e stagnazione vivono in simbiosi nelle sue istituzioni. Il Crédit Mobilier ha un effetto rivoluzionario e non regressivo sul capitalismo francese, ma i ritmi della moltiplicazione della ricchezza azionaria non sono adeguati alla riduzione del lavoro necessario, la speculazione non incontra le resistenze che il pluslavoro incontra in fabbrica: dalla forma denaro ai rapporti di produzione e viceversa» (p. 31). In questo senso, il Crédit Mobilier non era considerato da Marx come l’espressione deteriore di una speculazione promossa da un’aristocrazia finanziaria ‘parassitaria’ tanto quanto il Lumpenproletariat in cui, nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte aveva individuato una delle basi del consenso di Napoleone III. La banca dei Péreire si profilava piuttosto come un’operazione finalizzata a modificare il comportamento dei rentiers francesi, che – allettati dalla prospettiva di interessi elevati – dovevano spostare i loro risparmi dai titoli di Stato verso l’industria, in modo tale da consentire alla Francia di superare quella sostanziale stagnazione che la condannava a un ritmo di crescita molto inferiore a quello registrato in Inghilterra e in Germania. Al di là della specificità del caso francese, il punto era che Marx coglieva il ruolo del credito come molla per lo sviluppo capitalistico e per la realizzazione del mercato mondiale. Ma, in questo modo, Marx riconosceva anche come il denaro potesse agire, oltre che come merce particolare, anche come capitale, ossia come leva per il rivoluzionamento della produzione.

Se la connessione fra il mondo della finanza e il mondo della produzione era dunque un punto saldo dell’analisi, il discorso di Marx non poteva non allargarsi dalla Francia verso l’Inghilterra e verso l’intero mercato mondiale. E, soprattutto, non poteva non coinvolgere il rapporto fra pluslavoro e lavoro necessario, dal momento che proprio su questo terreno si giocava la partita fondamentale della ristrutturazione produttiva. Era però proprio a questo punto che l’analisi di Marx – secondo la lettura che ne forniva Bologna – si arrestava. Inevitabilmente, quando si spostava verso il cuore della produzione, l’indagine richiedeva una conoscenza non puramente indiretta delle strategie che conducevano alla determinazione di un certo livello del lavoro necessario. E invece Marx, che aveva perso ormai quasi tutti i contatti con la realtà del movimento operaio, era costretto per molti versi a ‘dedurre’ una serie di comportamenti e di strategie da fonti indirette, con il risultato di rendere più sfocato il ragionamento dei Grundrisse. «Il problema», scriveva infatti Bologna, «è quello di sapere se la disattenzione di Marx per i comportamenti operai, quel suo lunghissimo isolamento dal movimento reale, dai comportamenti spontanei della classe operaia, dalle modificazioni nella composizione di classe, dalle sofferenze e dalle lotte di ogni giorno del proletariato non abbiano indebolito a sua volta il progetto teorico, non abbiano appunto costretto Marx stesso, nelle ultime pagine dei Grundrisse, a vagheggiare una società futura» (p. 91).

Quando Bologna rilevava questo limite, fin dentro le pagine di Marx, non faceva altro che ribadire il cuore della metodologia operaista, rivelata dalla «rivoluzione copernicana» di Tronti e sviluppata, in direzioni differenti, da tutte le diverse anime di quel filone teorico. Nella congiuntura del 1973, in questa sottolineatura era però possibile intravedere una polemica (non troppo esplicita) su alcune letture della crisi che andavano profilandosi, e che in qualche misura tendevano a recepire lo schema del celebre Frammento sulle macchine – probabilmente proprio le «ultime pagine dei Grundrisse», in cui Marx si spingeva «a vagheggiare una società futura» – in termini piuttosto deterministici, a sottrarre l’analisi della crisi a ogni riferimento alla realtà della composizione di classe e alle dinamiche concrete dei conflitti economici, oltre che – un po’ come aveva fatto proprio l’autore del Capitale – a trovare una ‘scorciatoia’ politica debitrice più della tradizione cospirativa del movimento socialista che delle intuizioni sul futuro dello sviluppo capitalistico. Ma, soprattutto, il fatto che Bologna rimarcasse una carenza nella stessa analisi marxiana confermava l’idea che, per comprendere davvero ciò che avveniva nel mondo in quel momento, si dovesse sempre incominciare a guardare quello che accadeva dentro le fabbriche, nel cuore della produzione di merci, per evitare di adottare una prospettiva distorta.

Ed era d’altronde proprio questa l’operazione che Bologna cercava di fare nel secondo dei saggi raccolti in Banche e crisi, apparso originariamente sulla rivista «Quaderni piacentini» e intitolato Petrolio e mercato mondiale. Cronistoria di una crisi. Quell’articolo non si limitava infatti a ricostruire la «cronistoria» dello shock petrolifero, ma cercava soprattutto di portare alla luce la logica dei diversi attori e soprattutto degli Usa, dall’originario progetto dell’amministrazione di Nixon di sganciare gli Stati Uniti dal Medio Oriente e di renderli autosufficienti dal punto di vista energetico, al fallimento dell’operazione e dunque al mutamento della strategia americana, che – dopo la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro – veniva di fatto ad ancorare la propria moneta alla merce-petrolio. Nonostante siano trascorsi quattro decenni, e nonostante sia per questo sin troppo facile ritrovare più di qualche forzatura in quel discorso, è però evidente come Bologna cogliesse bene il mutamento intervenuto con la dichiarazione di inconvertibilità della moneta statunitense e come il controllo sul Medio Oriente diventasse allora cruciale per la conservazione dell’egemonia americana, sempre più indebolita nelle sue basi economiche, su Europa e Giappone. Ma Bologna sottolineava anche le implicazioni ‘politiche’ dell’intera operazione sul piano delle relazioni con la forza lavoro, dal momento che la crisi energetica innescava di fatto una ‘svalorizzazione’ del lavoro e soprattutto una generale ristrutturazione del settore dell’automobile, sia negli Usa, sia in Europa. E anche se Bologna tendeva forse a sopravvalutare le capacità di resistenza della classe operaia del settore dell’automobile (e allora era per molti versi inevitabile), in sede retrospettiva è possibile riconoscere proprio in quello stallo che si delineò nei primi anni Settanta l’avvio della crisi odierna. Le differenti soluzioni adottate per far fronte alle difficoltà delle economie occidentali – l’inflazione degli anni Settanta, l’indebitamento pubblico degli anni Ottanta, l’esplosione del debito privato negli anni Novanta – non furono infatti in grado di superare realmente le condizioni determinate dall’esaurimento del ciclo espansivo fordista. E tutto ciò sebbene le conseguenze delle diverse stagioni della ristrutturazione si siano rilevate di enorme portata tanto sul profilo produttivo dei paesi occidentali, quanto sotto il profilo politico e delle relazioni di potere.


Ieri e oggi

Se si può certo rinvenire un filo robusto che lega la crisi dei primi anni Settanta e quella che stiamo vivendo oggi, questa operazione può essere fatta anche per gli scritti di Bologna. Naturalmente nel corso di quattro decenni la prospettiva dell’intellettuale triestino è cambiata non poco, le forzature politiche degli anni Settanta sono ormai del tutto abbandonate, e anche sotto il profilo metodologico le coordinate risultano – almeno in parte – mutate. Mettendo oggi a confronto i primi due saggi di Banche e crisi con i successivi, è così piuttosto agevole riconoscere come lo scorrere del tempo e il drastico mutamento della temperatura politica degli ultimi tre decenni abbiano avuto un impatto marcato sullo stile e sulla metodologia di Bologna. Ciò non significa però che egli abbia deposto le armi dell’analisi critica del presente, perché, al contrario, è possibile ritrovare anche nei suoi scritti più recenti la stessa passione militante che aveva contrassegnato un’esperienza anomala come quella di «Primo maggio». In molti dei suoi interventi più recenti – a partire almeno da quelli pubblicati sulla rivista «Altreragioni», fondata al principio degli anni Novanta, quasi come prosecuzione del lavoro di «Primo maggio» – è comunque possibile riconoscere anche quella vena provocatoria che ha sempre costituito il tratto forse più evidente dello stile di Bologna. Una vena provocatoria – che, beninteso, non si è mai tradotta in una provocazione fine a se stessa – indirizzata spesso proprio contro quei luoghi comuni del pensiero di sinistra che tendono a inchiodare al passato ogni ragionamento e ogni prospettiva, e che spingono dunque a liquidare molti segnali di mutamento come semplici deviazioni temporanee, prive di rilevanza politica e teorica.

Un esempio emblematico di questa vocazione alla provocazione e alla polemica intellettuale è naturalmente rappresentato dall’attenzione che Bologna ha dedicato, da circa un ventennio, a quella trasformazione del mondo del lavoro, che ha condotto alla formazione di un «lavoro autonomo di seconda generazione», non riconducibile al vecchio lavoro autonomo, ma più vicino – per i legami di dipendenza da grandi e medie aziende, per l’eterodirezione dell’attività – al lavoro dipendente, sebbene sia in gran parte estraneo alle forme tradizionali dell’organizzazione sindacale. Il frutto più maturo di quella direzione di ricerca è rappresentato da Vita da freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro (Feltrinelli, Milano, 2011), un volume scritto insieme a Dario Banfi e in qualche modo riflesso anche dell’esperienza di consulente maturata da Bologna nel corso di un trentennio. Leggendo con attenzione quel testo, ricco peraltro di materiali interessanti, è probabilmente possibile ravvisare alcune ambivalenze, la principale delle quali è d’altronde l’ambivalenza ‘politica’ presente nella composita realtà dei lavoratori freelance: una parte dei quali si sente «precaria» e guarda con speranza a una stabilizzazione e dunque alla prospettiva del posto fisso, mentre un’altra componente si percepisce come ‘strutturalmente’ sciolta da vincoli di dipendenza e dichiara orgogliosamente la propria libertà come scelta di vita (non troppo diversamente da quanto hanno fatto, nella storia degli ultimi due secoli, le «libere professioni»).

L’ambivalenza ravvisabile tra i lavoratori della conoscenza è probabilmente destinata ad avere non poco peso sulla prospettiva di sindacalizzazione di questo settore suggerita come ipotesi praticabile da Vita da freelance. Ma queste difficoltà non sono certo sconosciute a Bologna, che, d’altronde, iniziò a guardare oltre i confini della classe operaia di fabbrica ben prima che la fine del ciclo fordista divenisse un luogo comune. Già in un articolo a suo modo ‘classico’, pubblicato nel 1969 e steso in collaborazione con Francesco Ciafaloni, aveva infatti puntato lo sguardo su I tecnici come produttori e come prodotto (in «Quaderni piacentini», n. 37, 1969). Ma soprattutto nella seconda metà degli anni Settanta iniziò a concentrarsi sul nodo dei trasporti e sui lavoratori (autonomi e dipendenti) di questo settore, e non casualmente uno dei due dossier pubblicati da «Primo maggio» era dedicato proprio a questo tema. Ciò significava allora soprattutto ricostruire le trasformazioni in atto nel mondo dell’autotrasporto, la riorganizzazione del settore, le implicazioni della diffusione del container, ma anche mettere in luce la capacità di contrattazione di cui i camionisti potevano disporre nelle vertenze con l’industria automobilistica. Al di là di tutto questo, un discorso sui trasporti risultava però centrale soprattutto per articolare la prospettiva della composizione di classe anche su un terreno esterno al perimetro della fabbrica e dello stesso lavoro ‘produttivo’, per riconoscere come il settore della distribuzione tendesse a diventare sempre più importante per la costruzione del mercato mondiale e come persino a questo livello andassero diffondendosi comportamenti conflittuali non del tutto dissimili da quelli propri del mondo operaio. Ed è proprio a questo filo del discorso di «Primo maggio» che si ricollegano gli ultimi due saggi raccolti in Banche e crisi, scritti in questo caso recentemente e dedicati al ruolo dei porti e alle trasformazioni del settore marittimo.


L’altra faccia del mercato mondiale

All’inizio degli anni Ottanta, quando Bologna dovette lasciare l’insegnamento universitario, il suo interesse per il mondo dei trasporti – un interesse fino a quel momento esclusivamente ‘teorico-politico’ – iniziò a diventare anche un’occasione di lavoro, da cui è nato recentemente anche un volume come Le multinazionali del mare. Letture sul sistema marittimo-portuale (Egea, Milano, 2010). Poggiandosi sulla solida conoscenza del settore accumulata in questi anni, i due testi raccolti in Banche e crisi cercano soprattutto di chiarire per quali motivi si è imposta negli ultimi anni una corsa al «gigantismo  navale», e perché – compiendo un errore strategico di enorme portata – in Italia i porti abbiano rincorso questa tendenza. La finalità dei due interventi di Bologna è in questo caso soprattutto una critica ai progetti italiani di ingrandimento dei porti: progetti che non considerano le reali esigenze economiche dei territori, e che, dunque, sottovalutano la necessità prioritaria, che non è quella di avere porti capaci ospitare navi giganti, ma piuttosto di rafforzare l’integrazione logistica, anche con l’adeguamento dei collegamenti ferroviari che legano il territorio ai porti. Ma, al di là di un simile obiettivo polemico, Bologna non manca di sottolineare nella Prefazione e nel post scriptum che esiste più che un sottile legame fra i saggi di quarant’anni fa e quelli di oggi, perché «parlano anch’essi di mercato mondiale (oggi chiamato ‘globalizzazione’), di mezzi di trasporto, di infrastrutture e di banche, parlano dell’ultimo capitolo di quella storia cominciata con i fratelli Péreire e così lucidamente analizzata da Marx». Allora «c’era da tagliare l’istmo di Suez, oggi si allarga il canale di Panama, allora il compito di rastrellare capitali presso le corti e le cancellerie d’Europa era svolto da spregiudicati banchieri d’affari, oggi il compito di racimolare soldi presso piccoli risparmiatori e di spennarli con investimenti sbagliati è distribuito tra una miriade di società finanziarie protette dallo Stato» (p. 8).

Proprio il riconoscimento dell’importanza assunta oggi dalla logistica potrebbe d’altronde aprire le porte a una nuova «rivoluzione copernicana», capace di guardare la ‘globalizzazione’ e il ‘mercato mondiale’ da una prospettiva in grado di coglierne i punti deboli. E una simile prospettiva di ricerca è in effetti uno dei tanti motivi che induce una volta di più a rileggere le pagine di Banche e crisi con uno sguardo puntato verso il presente. Probabilmente, una motivazione altrettanto valida è però quella che consiste nel riscoprire nelle diverse sequenze dell’itinerario percorso da Sergio Bologna nel corso di cinquant’anni le tappe di una ricerca che ha davvero pochi eguali nel panorama italiano, e di cui chi si troverà un giorno a scrivere la storia intellettuale dell’ultimo mezzo secolo non potrà in alcun modo dimenticare il ruolo cruciale. Naturalmente tutto ciò che appariva scontato negli scritti di quarant’anni fa – il riferimento a un forte soggetto conflittuale, e forse anche la convinzione che la Storia fosse comunque incamminata in una certa direzione (a prescindere dall’incertezza della congiuntura) – non può che risultare ai nostri occhi come il frammento di un Welt von Gestern ormai irreversibilmente tramontato. Ma ciò non significa forse che si debba rinunciare definitivamente a utilizzare l’intelligenza come strumento per indagare criticamente il presente. E soprattutto non significa che si debba abbandonare il compito di rileggere il nostro passato (più o meno recente) per cercare di decifrare le traiettorie possibili del prossimo futuro, proprio come intendeva fare – magari presuntuosamente, ma con intuizioni quantomeno originali – quel gruppo di giovani studiosi che quattro decenni fa si raccolse attorno alla bandiera della «storia militante» orgogliosamente innalzata da «Primo maggio».

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