Print
Hits: 2596
Print Friendly, PDF & Email

Cambia il tempo

La giornata lavorativa, le giornate d'autunno, i giorni che ci aspettano

di L., del Laboratorio Baracca

I've never read Marx's Capital, but I have the marks of capital all over my body.
(Big Bill Haywood)

NG 15131.

Il capitalismo affranca dai limiti di un consumo circoscritto da angusti confini materiali e culturali, ha fatto un mondo a sua immagine e somiglianza, ha sostituito all'antica autosufficienza e all'antico isolamento locale e nazionale uno scambio universale, una interdipendenza universale, ha affermato l'illimitatezza di principio della produzione. Il lavoro umano non deve necessariamente riferirsi ad un oggetto particolare, può bensì esercitarsi universalmente – nel senso proprio che l'intero universo diventa il suo oggetto potenziale. Potendosi astrarre rispetto dal modo in cui si dispiega concretamente questo lavoro, esso stesso acquista un carattere generale, diventa un'astratta potenza in grado di insinuarsi in ogni meandro della realtà, trasformandola, rendendola oggetto appropriabile all'uomo, nella forma di merce consumabile secondo il suo valore d'uso e scambiabile secondo il suo valore di scambio.

Il denaro, espressione di quest'ultimo, diventa l'incarnazione di questo potenza; esso può arrivare a comprare la stessa capacità di lavorare degli individui.

Anzi è proprio la possibilità di appropriarsi della forza-lavoro altrui come merce da consumare produttivamente, facendo astrazione dal modo concreto in cui questo accade, a rendere possibile in generale l'indifferenza nei confronti dell'oggetto specifico del lavoro, e quindi del consumo – a rendere tutto mercificabile. Ciò avviene quando si incontra sul mercato il lavoratore libero; libero nel duplice senso che disponga della propria forza lavorativa come propria merce, nella sua qualità di libera persona, e che, d'altra parte, non abbia da vendere altre merci, che sia privo ed esente, libero di tutte le cose necessarie per la realizzazione della sua forza-lavoro.

Individui liberi ed eguali nell'astrazione del diritto si distinguono così tra consumati e consumanti. Il limite di questo consumo non può essere però decretato dal diritto. Se il diritto aveva infatti stabilito la possibilità dell'appropriazione della capacità di lavoro altrui per un certo tempo, esso non è però in grado di decretare la natura reale di questo tempo appropriato: l'astratta disponibilità all'uso della merce forza-lavoro si contrappone al concreto corpo dell'operaio "usato", che non può staccarsi da questa merce anche dopo averla venduta e la segue nell'atto del suo consumo, nel processo produttivo. Qui il titolo di proprietà si fa materia contesa, visto che il significato reale del consumo ratificato astrattamente dalla legge non può che essere diverso per il compratore della merce (il capitalista) e per il venditore (l'operaio): il capitalista, cercando di rendere più lunga possibile la giornata lavorativa e, quando è possibile, cercando di farne di una due, sostiene il suo diritto di compratore. Dall’altra parte, la natura specifica della merce venduta implica un limite del suo consumo da parte del compratore, e l’operaio, volendo limitare la giornata lavorativa ad una grandezza normale determinata, sostiene il suo diritto di venditore. Qui ha dunque luogo una antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. Fra diritti eguali decide la forza.


2.

I capitalisti, in virtù della proprietà privata dei mezzi di produzione, dispongono della potenza produttiva dei proletari, che non essendo proprietari di nient'altro che della propria capacità di lavorare saranno costretti a mettergliela a disposizione. L'affermazione astratta, certificata legalmente, dell'eguaglianza degli individui, è l'altra faccia quindi della sua negazione concreta per i proletari. Il potere astratto, incarnato dal denaro, dell'uomo sul mondo, diventa il dominio concreto, della classe borghese, dell'uomo sull'uomo. L'affrancamento dalle forme del consumo limitate ad angusti spazi culturali e materiali promesso, è l'altra faccia del drammatico imporsi di nuovi, più angusti, limiti sulla classe sfruttata. La definizione di questi limiti si esprime nel controllo e nella ripartizione del tempo di lavoro sociale, il lavoro umano astrattamente inteso che si oggettiva nei mezzi di produzione (il capitale) e che viene erogato dalla forza-lavoro. Questa non può essere decisa dal diritto, dalle stessi leggi dello scambio che sembravano regolare i rapporti tra gli individui. A decretare lo sfruttamento quindi, cioè la ripartizione della giornata lavorativa globale in cui la classe lavoratrice nella sua interezza lavora per produrre i propri mezzi di sussistenza (che costituisce il valore della forza-lavoro) rispetto a quello speso per la classe capitalista (che costituisce il plusvalore), è quindi la lotta: nella storia della produzione capitalistica la regolazione della giornata lavorativa si presenta come lotta per i limiti della giornata lavorativa — lotta fra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia. Lotta di classe, che si impone sullo Stato, che ne certifica i risultati. Le disposizioni minuziose, che regolano con tanta uniformità militare, al suono della campana, periodi, limiti, pause del lavoro, non erano affatto prodotti di arzigogoli parlamentari: si erano sviluppate a poco a poco dalla situazione, come leggi naturali del modo moderno di produzione. La loro formulazione, il loro riconoscimento ufficiale, la loro proclamazione da parte dello Stato, erano il risultato di lunghe lotte di classe.

La lotta di classe innerva la costituzione materiale della società anche se non si mostra, decretando la lunghezza della giornata lavorativa, prodotto di una guerra civile, lenta e più o meno nascosta, fra la classe dei capitalisti e la classe degli operai.


3.

L'arma della classe lavoratrice è la sua azione collettiva, in grado di spezzare il ricatto legale a cui la proprietà privata dei mezzi di produzione costringe ogni suo membro, quello di competere “volontariamente” sul mercato del lavoro o morire privo di mezzi di sostentamento, ricatto attraverso cui vengono definite le condizioni della vendita e del consumo della sua pelle. Gli operai debbono unire le loro forze e strappare in quanto classe, una legge di Stato, una barriera sociale potentissima, che impedisca a loro stessi di vender sè e i propri figli alla morte e alla schiavitù mediante un volontario contratto con il capitale. Il diritto formale alla libertà ed eguaglianza dei singoli individui appartenenti alla classe proletaria non può quindi venire incontro ai lavoratori e le lavoratrici nel loro complesso. Allo stesso tempo però ogni azione contro l'oppressione e le discriminazioni legate al genere, all'etnia o alla nazionalità, anche quando si richiama ai citati diritti, sono uno strumento della loro lotta, rimuovendo queste gli ostacoli alla loro unità in quanto classe. La negazione concreta della diseguaglianza formale è momento necessario della lotta per l'affermazione materiale dell'uguaglianza sostanziale.

Quest'ultima può però imporsi realmente solo attraverso una “barriera sociale potentissima”. Barriera che non consiste solamente in una legge dello Stato che limiti la singola giornata lavorativa legale, ma in tutto ciò che l'azione collettiva dei membri della classe lavoratrice strappa al Capitale perché sia assicurata loro una quota di prodotto sociale, indipendentemente dal contributo dato alla valorizzazione. Tutte le lotte per sottrarsi al ricatto di doversi vendere come merce per vivere, sono quindi in sé stesse lotte contro lo sfruttamento ed incidono sulla ripartizione della giornata lavorativa globale da destinare ai mezzi di sussistenza anziché al plusvalore – anche quando queste non si presentano in questa forma, neppure alla coscienza degli stessi che lottano, anche quando non terminano in una certificazione statale.


4.

Il potere della classe capitalista consiste nel suo stesso monopolio dei mezzi di produzione. Essa non può concertare azioni autenticamente comuni, dato che ogni suo membro è sempre in guerra concorrenziale con il proprio vicino, ed è per questo che abbisognano di regole che valgano ugualmente per tutti, imposte da una forza in grado di interrompere e regolare questa "guerra di tutti contro tutti" – cioè lo Stato moderno, dotato del monopolio della violenza legittima. D'altronde la classe capitalista neanche deve pianificarne di azioni comuni, visto che è la stessa concorrenza ad orientare l'azione del capitalista singolo verso la riproduzione del dominio della propria classe, anche quando questo eventualmente comporta la propria stessa liquidazione; ed è in questo modo che emerge la risposta del Capitale alle lotte della classe operaia.

Innanzitutto ogni capitalista introduce innovazioni tecnologiche di modo da aumentare la produttività del lavoro del proprio processo produttivo, così da produrre impiegando meno del tempo di lavoro sociale medio e lucrare sulla differenza. Quello che risulta dall'insieme delle azioni dei singoli capitalisti è un abbassamento generale del tempo di lavoro necessario a produrre le merci, comprese quelle che entrano nel consumo della classe operaia. Svalorizzandosi così i mezzi di sussistenza della classe lavoratrice, ma rimanendo invariata la durata della giornata lavorativa, il salario reale (cioè il prezzo del lavoro rispetto al prezzo delle altre merci) risulta lo stesso, mentre diminuisce il salario relativo (cioè il prezzo del lavoro rispetto al profitto), e con questo il potere dei proletari su di un mondo sempre più trasformato ed appropriato dalla borghesia. Entro i limiti della produzione capitalistica, lo sviluppo della forza produttiva del lavoro ha lo scopo di abbreviare la parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio deve lavorare per se stesso, per prolungare, proprio con questo mezzo, l’altra parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio può lavorare gratuitamente per il capitalista. Nei metodi particolari di produzione dei plusvalore relativo, che ora passiamo a considerare, si vedrà fino a che punto questo risultato sia raggiungibile anche senza ridurre le merci più a buon mercato.

La stessa accumulazione di capitale poi riproduce costantemente la costrizione dei membri della classe operaia a competere “volontariamente” sul mercato del lavoro per l'accesso ai mezzi di sussistenza: qualsiasi azione collettiva dei membri della classe operaia che interferisse eventualmente sull'accumulazione, facendo diminuire il plusvalore disponibile per l'espansione del capitale, implicherebbe infatti una crisi a cui alla liquidazione di alcuni capitalisti si accompagnerebbe la messa in libertà di numerosi lavoratori, e così l'ampliamento dell'esercito di indigenti pronti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro e qualsiasi salario pur di lavorare e far quindi ripartire i profitti dei padroni. La legge dell’accumulazione capitalistica mistificata in legge di natura esprime in realtà il fatto che la sua natura esclude ogni diminuzione del grado di sfruttamento del lavoro o ogni aumento del prezzo del lavoro che siano tali da esporre a un serio pericolo la costante riproduzione del rapporto capitalistico e la sua riproduzione su scala sempre più allargata. Non può essere diversamente in un modo di produzione entro il quale l’operaio esiste per i bisogni di valorizzazione di valori esistenti, invece che, viceversa, la ricchezza materiale esista per i bisogni di sviluppo dell’operaio. Tanto sono varie le forme ed i risultati della lotta della classe lavoratrice, altrettanto sono quelli del contrattacco del Capitale, le vie attraverso cui viene svalorizzata la forza-lavoro e riportato al livello necessario al proseguo dell'accumulazione il saggio di sfruttamento.

Le lotte contro lo sfruttamento che non diventano lotte contro il rapporto stesso di sfruttamento, sono condannate a riprodurre lo sfruttamento.


5.

Nella sfera della circolazione delle merci, laddove si trovano soltanto il venditore e il compratore indipendenti l’uno dall’altro, non si mostra l'imporsi sotterraneo dei limiti dei rapporti di produzione capitalisti – limiti che appunto rendono la grandezza del salario la variabile dipendente e l'accumulazione quella indipendente. Individui isolati che riscoprono la socialità solo per mezzo dello scambio di ciò che possiedono, anche questo fosse il proprio corpo, vedranno nei propri rapporti reciproci non rapporti immediatamente sociali fra persone, ma rapporti materiali tra persone e rapporti sociali tra cose. Rimane loro nascosta la fonte segreta di ogni reddito, e cioè lo sfruttamento che genera il (plus)valore sociale che viene poi distribuito dal capitalista (complessivo) attivo, in quanto è quest'ultimo che sfrutta direttamente il pluslavoro e che in genere utilizza il lavoro. Di conseguenza è nascosto il reciproco legame che lega il profitto al salario, entrambi alla rendita e tutti e tre allo sfruttamento, sicché il profitto si presenta immanente al capitale, distinto dallo sfruttamento diretto del lavoro. I rapporti sociali così si oggettivano e autonomizzano reciprocamente e ripresentano la loro intima connessione agli agenti reali della produzione per mezzo del mercato mondiale, le sue congiunture, il movimento dei prezzi di mercato, i periodi del credito, i cicli dell’industria e del commercio, l’alternarsi di prosperità e crisi, che appaiono a questi agenti come leggi naturali onnipotenti che li dominano riducendoli all’impotenza e che operano nei loro confronti come cieca necessità. Leggi che le categorie dell'economia borghese, forme di pensiero socialmente valide, quindi oggettive, per i rapporti sociali capitalisti pretenderanno di governare.

Fintanto che il proletariato subisce il dominio ideologico della società borghese e rimane inconsapevole della sua essenziale funzione nei rapporti di produzione, e quindi del suo potere, le azioni collettive dei suoi membri saranno limitate alla sfera della distribuzione. Così le lotte di frazioni della classe lavoratrice per garantirsi i mezzi di sussistenza, parte dell'inconscia lotta di classe per la definizione della giornata lavorativa globale, assumono i travestimenti consci di lotte per un introito. Quelle che sono però solo sembianze rischiano di ribaltarsi realmente in una generale guerra tra poveri per garantirsi i mezzi di sussistenza o la possibilità ad accedervi. La lotta viene così riassorbita nella concorrenza, quella che rovina la classe lavoratrice mentre riproduce il dominio della classe capitalista. Concorrenza che si riarticola secondo linee etniche, di genere, nazionali, in cui false identità ridefiniscono i confini angusti della produzione e del consumo attraverso nuove oppressioni e discriminazioni; linee interclassiste in cui gli sfruttati si alleano ai propri sfruttatori, che offrono contenti rinnovate illusioni corporative. Di queste illusioni si nutrono i “patti sociali”, il più delle volte raccolti attorno allo Stato, che proprio in virtù della sua pretesa “politica economica” aspirerebbe a garantire le risorse materiali necessarie alla “nazionalizzazione delle masse”, alla soddisfazione dei bisogni dei membri della classe lavoratrice tramite i diritti sociali dovutigli in quanto “cittadini”.

Lo sviluppo delle forze produttive comporta tanto la possibilità che il potere d'acquisto del salario rimanga inalterato o salga mentre diminuisce la quota di esso rispetto al profitto, tanto che all'ineguale forza produttiva del lavoro in diversi luoghi geografici corrisponda un differenziale salariale. L'inclusione della classe lavoratrice lungo linee statuali, e quindi la differenziazione e scomposizione della sua unità reale in una serie di contrasti apparenti, ha quindi una base materiale. L'andamento dell'accumulazione globale di Capitale ne definisce i termini.


6.

L'accumulazione di Capitale si serve e promuove lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali, che deve però essere sempre subordinato alla sua valorizzazione, pena lo scoppiare di una crisi, una epidemia sociale che in tutte le epoche precedenti sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovrapproduzione. I limiti nei quali possono unicamente muoversi la conservazione e l’autovalorizzazione del valore-capitale che si fonda sull'espropriazione e l’impoverimento della grande massa dei produttori, questi limiti si trovano continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo e che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro. Il mezzo – lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali – viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, l'espansione del capitale esistente. Si impone così la paradossale distruzione di forze produttive nello stesso momento in cui i bisogni di masse di persone rimangono insoddisfatti, sicché un eccesso di capitale si collega ad un eccesso crescente di popolazione.

Che si liquidino attività produttive in eccesso, quindi capitalisti singoli con i loro operai, è normale natura del modo di produzione capitalistico, in cui una più o meno latente pressione competitiva manda costantemente in bancarotta attività economiche non sufficientemente profittevoli, per quanto utili socialmente, per quanti bisogni rimangano insoddisfatti. La crisi erompe quando alla normalità si sostituisce lo stallo, quando l’accrescimento illimitato di valore si identifica con la creazione di ostacoli alla possibilità di valorizzazione — di realizzazione del valore creato nel processo di produzione. Per competere i capitalisti devono rivoluzionare costantemente i metodi di produzione tagliando i costi del capitale costante, cioè macchinari e materie prime, e del capitale variabile, cioè la forza-lavoro (condizioni della produzione), mentre per riuscire a vendere dipendono proprio dalla domanda degli altri capitalisti e dei lavoratori (condizioni della realizzazione) – allora vengono periodicamente prodotti troppi mezzi di lavoro e di sussistenza perché possano essere impiegati come mezzi di sfruttamento degli operai a un determinato saggio del profitto. Vengono prodotte troppe merci, perché il valore ed il plusvalore che esse contengono possano essere realizzati e riconvertiti in nuovo capitale, e nei rapporti di distribuzione e di consumo inerenti alla produzione capitalistica, ossia perché questo processo possa compiersi senza che si verifichino continue esplosioni. La crisi non solo manifesta, ma inasprisce questo carattere della concorrenza, dato che costringe i capitalisti ad essere ancor più competitivi; ed in tali momenti, quando non si tratta più di dividersi il guadagno ma le perdite, cessa l'azione di fratellanza nella classe che la concorrenza sviluppa finché gli affari vanno bene, e ognuno cerca di ridurre quanto più possibile la propria parte di perdita e di riversarla sulle spalle degli altri. La perdita per la classe nel suo complesso non può essere evitata, ma quanto di essa ognuno debba subire diventa in tal caso una questione di forza e di furberia, e la concorrenza diviene lotta tra fratelli nemici. L'antagonismo tra l'interesse di ogni singolo capitalista e quello della classe capitalistica si rivela in tal caso proprio come nel periodo propizio si era manifestata l'identità di tali interessi.

I loro affari si fanno quindi sempre meno comuni e di conseguenza la crisi contagia i comitati di gestione di essi, lo Stato.

Man mano che la crisi avanza, però, il capitale in eccesso viene distrutto e si rinfoltisce l'esercito di disoccupati. Le condizioni per un rilancio dell'accumulazione si ristabiliscono e la crisi, da stallo, diventa la violenta soluzione delle contraddizioni in atto, fenomeni violenti che ripristinano l'equilibrio sconvolto. Il ciclo ricomincia in nuove vesti.


7.

I movimenti reali della produzione capitalista, che presuppone la rappresentazione delle merci come denaro, la circolazione monetaria, e quindi il capitale nella forma di denaro, il capitale monetario, come 'primus motor' di ogni impresa, si esprimono negli andamenti del sistema creditizio. Questo supera i limiti della produzione solo per portarli ai suoi estremi. Allarga i limiti del consumo intensificando il processo di riproduzione stesso, che da un lato accresce il consumo di reddito da parte degli operai e dei capitalisti, dall'altro intensifica lo stesso consumo produttivo. L'accumulazione diviene quindi capitale monetario prestabile e serve all'allargamento della produzione stessa. Negli ultimi trent'anni il grande ciclo della speculazione finanziaria ha garantito i profitti di innumerevoli aziende, banche o interi sistemi bancari (es. Islanda), enti pubblici (es. i derivati nei comuni italiani), nonché, tramite il credito al consumo, compensato la perdita di potere d'acquisto dei salari reali che nei paesi occidentali maturava da decenni, che a sua volta ha garantito la domanda pagante necessaria all'acquisto delle merci prodotte in ogni parte del globo. Ha così sostenuto quella gigantesca ristrutturazione capitalistica che toglieva il terreno sotto ai piedi alle lotte operaie esplose a partire della fine degli anni '60, di cui la deindustrializzazione dei paesi del centro e la delocalizzazione nei paesi di periferia le gambe.

L'ingigantirsi della speculazione creditizia sta solo ad indicare la sua capacità di aggirare tutti gli ostacoli specifici che incontra la valorizzazione di capitale, ma non di superare il limite immanente in cui il capitale è in grado di valorizzarsi come tale. Fino a presentarsi essa stessa, nel suo incontrollato autoalimentarsi, come limite. “La finanza non è la malattia, ma la droga che ha permesso di non avvertirne i sintomi. Con il risultato di cronicizzarla e di renderla più acuta. Nel 2007 questo modello è saltato, e la crisi è esplosa in tutta la sua violenza” (V. Giacché - 100 tesi sulla Crisi). Il punto di forza di ciò che si è chiamato “globalizzazione” era il suo stesso punto di debolezza, cioè quel gigantesco ciclo del debito che aveva sostenuto profitti, ma anche stili di vita e consumi “al di sopra delle nostre possibilità” – cioè delle possibilità che la produzione capitalista offre al 99% della popolazione mondiale –, tramite l'enorme e sempre più sofisticato castello di carte finanziario, che prima o poi doveva crollare, e così è stato. Il propagarsi della crisi globale ha quindi manifestato gli squilibri che da tempo maturavano nascosti tra i paesi dell'Eurozona, che sono così degenerati: con l'introduzione dell'Euro “l’economia dei paesi più forti (Germania in primis) si era liberata della zavorra costituita dalle proprie monete pesanti e aveva reso ancor più competitive esportazioni, mentre il livellamento verso il basso del costo del debito alimentava l'indebitamento facile dei paesi periferici che, schiacciati dall’alta competitività dei paesi del centro anche perché non potevano più svalutare le proprie monete, smantellavano interi settori produttivi specializzandosi in servizi e alimentando bolle immobiliari (come in Spagna)” (Laboratorio della Baracca – Tra crisi economica e crisi democratica). Il cerchio si chiudeva quando proprio grazie al debito i paesi periferici erano in grado di acquistare le merci dei paesi del centro, che dai relativi profitti ottenevano a loro volta la liquidità da prestare ai paesi periferici. Fintanto che il ciclo economico globale era espansivo questo poteva apparire un circolo virtuoso (e sarebbe pure potuto rimanerlo o diventarlo) – travolto dalla crisi globale, ha invece espresso tutte le proprie contraddizioni. Di fronte alla necessità di fronteggiare la crisi, le istituzioni dell'Eurozona si sono impantanate nel dilemma: optare per strategie di “austerità”, che tagliassero la spesa pubblica e restringessero la base monetaria, per non gravare, attraverso le tasse o l'inflazione, sui costi di produzione (condizioni della produzione); o optare per strategie di “crescita” che, attraverso la spesa pubblica e la liquidità facile, sostenessero la domanda pagante e stimolassero gli investimenti (condizione della realizzazione). L'armonia tra gli stati membri non poteva non incrinarsi di fronte a tali scelte, dato che “ciò che è crescita per uno (per alcune borghesie nazionali, per esempio quella tedesca), è austerità per gli altri (in questo caso per la borghesia italiana), e viceversa” (Clash City Workers – La Crisi dell'Eurozona). Così allo stallo economico è seguito lo stallo politico. Il procedere della crisi ha però contemporaneamente rafforzato il nucleo duro composto dai capitalisti più grandi e più internazionalizzati, quel “polo imperialista Europeo” che, unico, è capace e intende competere a livello internazionale con gli altri grandi blocchi del mondo globalizzato – USA, Giappone, Brasile, Russia, India, Cina etc (CCW – Il programma del governo che verrà), competizione che si è ulteriormente inasprita per via della stessa crisi.

L'esempio italiano in questo senso è paradigmatico: il precipitare della crisi ha indebolito sempre più quegli strati sociali che costituivano l'ossatura della società italiana e la loro relativa rappresentanza politica, incapaci di affrontare l'“emergenza” proclamata dalla stessa dirigenza europea (che raggiungeva il suo punto di parossismo con l'impennata dello spread) lasciando strada libera a quella “componente del capitale francese e tedesca che ha ambizioni continentali, e che intorno a sé riesce a mobilitare strati analoghi della borghesia degli altri paesi dell’UE” in grado così “di imporre un suo uomo”. Questo è stato in grado in poco tempo di attaccare i patti sociali del “keynesismo criminale” italiano, un sistema consolidato che “si reggeva su un ampio ceto impiegatizio che garantiva stabilità e voti, un fitto sistema di clientele, grossi sindacati che “controllavano” la forza lavoro, contrattando (sempre più al ribasso) le sue condizioni di vita con Governo e padronato, su una rappresentanza politica più o meno stabile dei gruppi sociali, su una serie di mediazioni sociali che permettevano di redistribuire un minimo di risorse” (CCW – Qualche nota sul governo Monti), sistema già sotto attacco dei primi governi tecnici degli anni '90, mai però scosso nelle sue fondamenta. Un sistema che aveva giocato un ruolo fondamentale nel contenere la spinta delle lotte sociali degli anni '70, garantendo attraverso la spesa pubblica lavori improduttivi e reti di piccoli privilegi a chi, per via della deindustrializzazione, veniva espulso dai processi produttivi (come sintetizzato dal modo di dire torinese “per ogni licenziato a Mirafiori, ci sono due portantini alle Molinette”); e che soprassedendo sull'evasione fiscale, consentiva l'emergere di miriadi di piccoli padroncini o di “imprenditori di sé stessi”. Il ruolo giocato dalla classe politica nell'implementazione di tutto ciò spiega a sua volta il proliferare della corruzione. Questi sono tra i motivi principali per cui la ricchezza privata in Italia sia la più alta in Europa, allo stesso modo del debito pubblico. In poco tempo, così, al governo si è spianata la strada per un pesante attacco alle condizioni di vita e di lavoro, mascherate da sacrifici necessari a ripagare il debito e far ripartire la crescita, il cui risultato netto è stato proprio l'allungamento della parte non pagata della giornata lavorativa sociale: i tagli al welfare hanno aumentato i costi dei mezzi di sussistenza, l'allungamento dell'età pensionabile ha esteso complessivamente l'ammontare di lavoro da erogare nell'arco della vita, l'eliminazione dell'articolo 18 implica maggiore ricattabilità e quindi maggiore adattabilità alle condizioni di lavoro imposte dal capitale. Tutto questo nel pieno di una dilagante disoccupazione, cioè di un rinfoltito esercito di manodopera di riserva che esprime la generalizzata svalorizzazione della forza lavoro. Così sembra che “i padroni e le classi dominanti dopo un iniziale sbandamento si sono messi d’accordo e, mostrando una grande unità sovranazionale hanno concertato e spietatamente applicato una serie di politiche e di 'riforme' volte a tentare di far ripartire il capitalismo.” (Comitato No Debito Napoli – Occupyamo Piazza Affari!). Le continue contorsioni istituzionali seguite alle elezioni del 2013 e soprattutto l'incapacità della politica (anche europea) di assolvere i suoi scopi dichiarati, manifestata dal fatto che il Pil ha continuato a calare ed il debito pubblico a crescere, indicano però allo stesso tempo l'opposto. Dare però la colpa agli effetti “depressivi delle politiche di austerità” che “erano già stati sollevati con una lettera aperta firmata da 300 economisti keynesiani nel 2010” (R. Realfonzo – “Con l'austerità l'Unione è a rischio”, ilSole24Ore), significa confondere l'essenza delle cose con la loro forma fenomenica: quello del perseguimento della crescita è solo il (necessario) scopo ideologico della teoria economica, che ignora il carattere di classe di quelli che assume siano i mezzi atti a perseguirlo – cioè istituzioni come la proprietà privata tutelata da uno Stato più o meno interventista e soggetti come gli individui utilitaristi che scambiano beni sul mercato, che sono sì reali, ma comunque prodotte, determinate dallo stesso sistema ora in crisi; e in tempi di crisi lo scopo dichiarato – cioè il perseguimento del benessere generale (lo sviluppo incondizionato delle forze produttive della società) –, che è in verità il mezzo, entra in conflitto con il suo mezzo dichiarato – cioè la proprietà privata tutelata dallo Stato –, che è in verità lo scopo (l'espansione del capitale esistente). Le “irrazionalità” della politica economica non sono altro che il riflesso della irrazionalità delle relazioni sociali di produzione capitaliste. Nessuna economia politica “critica” potrà risolvere le prime senza fornire strategie per trasformare le seconde.

Che la strategia del grande capitale europeo funzioni è quindi da vedere. Quel che è certo è che qualsiasi cosa lo sostituisca non può rappresentare niente di meglio fintanto che il Capitale continua ad operare per ristabilire le condizioni della sua valorizzazione, che appunto si fonda sull'espropriazione e l’impoverimento della grande massa dei produttori: “è sempre più chiaro che dietro questi cambiamenti sta la costruzione esplicita di un governo, anche politico, del capitale europeo: un progetto che per realizzarsi deve muoversi prudentemente e superare strada facendo le resistenze di frazioni della classe dominante. Una austerità che tenga sotto pressione i governi, e una successione di crisi che allentino le opposizioni, sono un complemento fatale di questa strategia, la quale d’altra parte è costretta a scommettere che una qualche ripresa ci sia: ripresa che, ancora una volta, non può che venire dall’esterno della eurozona. Una ipotesi i cui margini di incertezza sono elevatissimi. Intanto, la crisi procede ‘oggettivamente’ con svalorizzazione della forza-lavoro, centralizzazione dei capitali, ristrutturazione dei processi produttivi, ‘snellimento’ del pubblico. Che così la crisi non divenga permanente è tutto da dimostrare. Una inversione di rotta potrebbe essere imposta solo dalla politica e dalla società” (R. Bellofiore – L'eccezione esemplare) . D'altronde che il Capitale rappresenti una crisi permanente per la classe lavoratrice è dimostrato. Che solo essa, con le sue lotte, possa rappresentarne la controtendenza è ciò che essa stessa deve dimostrare.


8.

Negli ultimi anni sono scoppiate una miriade di vertenze e conflitti dentro e fuori i luoghi di lavoro, che, per quanto sconnessi e limitati, in varie forme hanno provato a resistere alla svalorizzazione operata dalla crisi. Lotte per lo più difensive, che proprio per questo apparivano voler conservare lo status quo; quello che in effetti stavano difendendo era la quota di prodotto sociale che le leggi del modo di produzione capitalistico stavano sottraendo nel presente o minacciavano di sottrarre in futuro ai soggetti coinvolti. A volte queste lotte hanno preso una forma esplicitamente reazionaria, come ad esempio nel caso del movimento dei forconi, o nei vari rigurgiti localisti e nazionalisti di tutta quella “piccola borghesia che ha già visto negli ultimi anni erodersi i propri margini di guadagno e vede ora messa a repentaglio addirittura la propria esistenza come categoria” (CCW – L'Italia ai tempi di Monti) – che subiva in sostanza quei processi di proletarizzazione i cui esiti reali sono l'aumento della “concorrenza al ribasso fra salariati per garantirsi mezzi di sussistenza e quindi il loro indebolimento e frammentazione” (Laboratorio della Baracca – Radiografia del d.l. “liberalizzazioni”). La maggior parte delle volte invece, queste semplicemente non sono riuscite ad andare al di là della propria vertenza specifica e di rivendicazioni corporative, finendo nelle braccia di sindacati che avevano perso “la capacità di ottenere un qualche risultato all’interno della crisi” ma non quella “di neutralizzare la rabbia montante, l’insoddisfazione, la possibilità di costruire percorsi autonomi di organizzazione. Su questo terreno resiste solo la parte del patto concertativo che prevedeva la riduzione della conflittualità in nome del presunto interesse comune nella crescita economica. La triste realtà sembra essere: poca conflittualità per poco o nulla in cambio, che non sia l’esistenza stessa di un sindacato.” (Connessioni Precarie – La concertazione è finita). D'altronde il miraggio della crescita economica ha continuato ad ammaliare masse di proletari in cerca della “giusta politica industriale” che sostenesse “crescita, sviluppo, occupazione” (come gridavano gli operai Alcoa), proletari prigionieri delle rappresentazioni dell'economia politica e i cui pregiudizi venivano rafforzati dalle analisi di pletore di economisti sedicenti “alternativi” e dalle illusioni di chi le ritraduceva in strategie politiche riformiste. Le poche lotte offensive sono state per lo più quelle portate avanti nei luoghi di lavoro a maggioranza di manodopera straniera, in cui i lavoratori migranti, da Nardò a Piacenza, sono stati “capaci di rovesciare una situazione dove, a causa della precarietà e della crisi, sembrava impossibile agire contro lo sfruttamento” (Coordinamento Migranti – L'assemblea del 30 Giugno) e con un'organizzazione fuori dai sindacati confederali e dai partiti a strappare piccole ma significative vittorie in un periodo di generali sconfitte.

Rimanendo limitate quasi tutte alla propria specificità, queste lotte non sono riuscite ad imporre al dibattito politico un'agenda che partisse dalle proprie condizioni. Una voce visibile in grado di irrompere nella scena pubblica si era però manifestata proprio agli albori della crisi economica, quando il movimento dell'Onda aveva urlato “Noi la crisi non la paghiamo!” – coniugando un'esplicita presa di parte ad un riconoscimento delle cause profonde dei propri problemi immediati. Un movimento che aveva molte caratteristiche dei movimenti antiausterity che negli anni successivi sarebbero esplosi in numerosi paesi occidentali: sia perché il motivo scatenante (la famigerata legge 133) era contenuto in un documento di programmazione economica che aveva tutte le caratteristiche tipiche di quelli che avrebbe poi suggerito la BCE, ma anche per le parole d'ordine e le modalità, nonché per la diffusione ed il grande numero di partecipanti. Il cuore del movimento era costituito da giovani appena entrati, o di lì ad entrare, in un mercato del lavoro che sempre più li condannava ad un destino di precarietà e di lavori non conformi alle proprie ispirazioni o qualifiche, o che non aveva proprio posto per loro – e che nella crisi vedevano aggravarsi ulteriormente questo già magro scenario. Quando questo movimento si è poi unito alle proteste dei metalmeccanici che, capitanati dalla FIOM, resistevano a quel modello Marchionne che prefigurava una generale redefinizione al ribasso (per i lavoratori) delle relazioni industriali italiane, sembrava essersi creato un raccordo virtuoso tra chi si trovava forzatamente fuori da processi produttivi sempre più degradanti, e chi dentro di questi si vedeva sempre più degradato. Un raccordo che avrebbe potuto costituire un riferimento per tutte le vertenze sparse per l'Italia, anche quelle non immediatamente legate alla condizione lavorativa o studentesca, come quelle legate alla salute ed all'ambiente che dalla Val Susa a Terzigno si erano effettivamente cominciate a rivolgere al movimento. L'assenza però di un reale terreno comune che non fosse quello delle dichiarazioni di principio, rendeva i vari segmenti del movimento vulnerabili alla cooptazione, come limpidamente sintetizzato dall'emblematico episodio dei pubblici elogi rivolti a quello che poi sarebbe diventato uno dei maggiori interpreti del piano del grande capitale europeo, cioè Napolitano, da parte di autoproclamati rappresentati del movimento studentesco. Essi, accolti dal presidente della Repubblica pochi giorni dopo gli scontri del 14 Dicembre 2010 e poco giorni prima che questo firmasse la famigerata riforma dell'Università, lo avevano nei fatti presentato come “interlocutore privilegiato degli studenti, buon padre comprensibile delle ansie che travagliano le nuove generazioni”. Così “una rete che parlava di 'rivolte', 'conflitto', 'riappropriazione'” si riduceva “a cantar le lodi del Presidente della Repubblica” (come sosteneva chi ne aveva condiviso il percorso fino a quel momento – Infoaut). D'altronde finché la rabbia si limitava ad essere “quella contro una classe politica colpevole di non cogliere il sillogismo in base al quale gli investimenti per la ricerca producono innovazione, e l’innovazione alla competizione con i Paesi di serie A; insomma, contro una classe politica colpevole di gestire un capitalismo straccione, appare manifesto come questo terreno anziché costituire la base per una »ricomposizione« dei movimenti sociali, si presti facilmente ad una sua scomposizione, dato che la difesa dei »giovani« e degli »studenti« dalla precarietà potrebbe essere un carico da accollare sulle spalle dei più »anziani«, dei »garantiti«, magari tagliando le pensioni o altri pezzi di welfare state, oppure spremendo ulteriormente i lavoratori nel ciclo produttivo. O ancora ottenuta attraverso una »migliore« collocazione dell'Italia all'interno della divisione internazionale del lavoro, chiedendo al sistema pubblico (ma anche a quello privato) maggiori investimenti in ricerca e sviluppo. [...] Invece di lottare per una sussistenza storica e sociale come parte della classe, autonomamente da qualsiasi contributo alla valorizzazione del capitale o a valori d’uso marchiati dal segno capitalistico, ci si limita a rivendicare un'elevazione del proprio status, un miglioramento delle condizioni della propria categoria anche a costo che questo passi attraverso lo sfruttamento di qualcun altro.” (WildCat – In ordine sparso contro la crisi).

Alla base ideologica dell'unione tra chi, nei movimenti, aveva confuso la capacità del Capitale di presentarsi distinto dallo sfruttamento con la sua realtà, e chi con più classiche, ma altrettanto opportunistiche, ragioni socialdemocratiche paventava la compatibilità tra buone condizioni salariali, continuità di reddito e crescita del Paese – a questa base illusoria, non corrispondeva un'unione materialmente in grado di imporsi sulla società. Così l'incapacità di costruire una progettualità in grado di incidere nel breve e medio periodo sui rapporti di forza economici e sociali, nel mentre che si aggravava un'emergenza economica che imponeva scelte politiche repentine e faceva dilagare la rabbia sociale, finiva per polarizzare le differenze all'interno del movimento tra chi cercava scorciatoie istituzionali e chi voleva inasprire il livello dello scontro – questo è ciò che esprimeva drammaticamente la giornata del 15 Ottobre 2011. A fronte dell'implosione del movimento che ne è seguita, da una parte la FIOM si riaccodava alla CGIL per “essere riammessa ai tavoli negoziali” ed in nome della battaglia per la democrazia si dava alla peggiore repressione interna (Antiper – Questioni di democrazia in Fiom); dall'altra i giovani si potevano accontentare di vedere il loro “padre protettore” Napolitano far fuori in un colpo solo l'odiata “casta” ed istallare un governo di tecnici che prometteva di rimettere l'Italia sui binari di una prosperità economica che avrebbe valorizzato le loro qualifiche e realizzato le loro aspirazioni. Questo ovviamente non risolveva né i problemi sui posti del lavoro, né quelli dei giovani precari e disoccupati. Così da una parte le vertenze aperte non sono diminuite, ed anzi si è registrato un relativo rafforzamento dei sindacati di base che le hanno seguite. Dall'altra le questioni aperte dei giovani si sommavano alle delusioni del ceto medio “tradito” ed a molte di quelle sollevate dai movimenti per l'ambiente e per la salute per costituire il bacino elettorale del Movimento5Stelle (che presentava proprio il reddito minimo garantito come primo punto del programma), plaudito anche da alcuni degli elementi più combattivi dell'ex-Onda. Si potrebbe dire che più che causa dell'assenza in Italia di “movimenti inequivocabilmente antiausterity” (Wu Ming – Il M5S ha difeso il sistema), l'emergere di Grillo sia stato anche il sintomo delle contraddizioni di questi stessi movimenti. La dimostrazione dell'assenza di una qualche base sociale reale del progetto politico della sinistra istituzionale “antiausterity” – progetto che a parole garantiva la compatibilità, o anzi la necessità, del benessere delle classi popolari per la crescita del paese tout court e che si è risolto nell'ennesima smentita storica del proprio avventurismo politico – è un ulteriore tassello in questo quadro.

Le istanze dei migranti invece, che già ben poca parte avevano giocato in un movimento che si era limitato a sporadici (seppur alle volte intensi) momenti di solidarietà, sembravano venire meglio recepite dal neonato governo di larghe intese che, nonostante fosse così attento a tenere un basso profilo in grado di accontentare le diverse componenti politiche che lo formavano, aveva nella prima volta della storia della repubblica nominato un ministro di origine africana. D'altronde era da qualche tempo che gli stessi Draghi e Napolitano (quello dei CPT) facevano dichiarazioni di apertura nei confronti dell'estensione del diritto di cittadinanza (non a caso nello stesso momento in cui le politiche che sostenevano privavano esso di qualsiasi significato sostanziale sul versante dei diritti sociali). Sull'importante fronte della lotta al razzismo istituzionale il movimento veniva quindi “superato da sinistra, anche solo sul piano dell’involontaria segnalazione del problema, dal governo che si è appena formato” (Connessioni Precarie – L'integrazione è un campo di battaglia) – soprattutto quella parte di movimento che adocchiava a Grillo mentre questo, sparata dopo sparata, manifestava sempre più il carattere intimamente razzista del suo partito.

Così, i limiti soggettivi, ovvero nella coscienza e nell'organizzazione, di tutte quelle azioni collettive che oggettivamente, e cioè a prescindere dalla consapevolezza degli agenti, operavano per resistere alle costrizione a vendersi come merce a condizioni ulteriormente al ribasso, e che quindi rispondevano alla “crisi economica”, forma mistificata dall'attacco del Capitale sulla ripartizione della giornata lavorativa sociale – tutti questi limiti hanno impedito a queste stesse lotte di interrompere il cieco operare delle leggi del Capitale stesso. I loro già scarsi risultati si sono visti così ulteriormente frustrati, in un generale quadro socio-economico che ha continuato a peggiorare.


9.

Il deteriorarsi del tessuto economico italiano continua ad erodere i meccanismi di pacificazione sociale e di conseguenza molti conflitti potrebbero perdere il loro carattere episodico e marginale (o testimoniale, come è stato il caso delle manifestazioni contro il debito, l'Europa, l'austerity che sono seguite all'implosione dell'Ottobre 2011). Esauritasi ogni credibilità di un progetto riformista dotato di una qualche prospettiva – cosa certificata dal flop della manifestazione del 12 Ottobre, che rappresentava il proseguo ideale del mancato comizio del 15 ottobre 2011, a difesa delle irrealizzabili promesse ideali della Costituzione da parte di chi intanto realizza materialissimi “tradimenti neocorporativi” con Confindustria e Governo (CCW – Un'analisi dell'accordo sulla rappresentanza) – segnala la presenza, più o meno latente, di un movimento radicale abbastanza radicato, capace di "superare lo choc provocato dalla sconfitta politica del 15 ottobre 2011 che aveva fatto implodere il movimento, mentre negli Stati Uniti nasceva Occupy Wall Street, in Spagna si affermavano gli indignados e in Italia ci si è rinfacciati il risentimento e le responsabilità" (Ciccarelli su ilmanifesto). Se nessuno questa volta ha inneggiato al miracolo e all'imminenza di una nuova rivoluzione di chissà quale "nuova soggettività" – come è stato fatto in tutti questi anni in cui niente poi succedeva realmente – non è per mancanza di elementi su cui sperare, ma forse proprio perché finalmente qualche elemento c'è, perché dopotutto "qualcosa è successo" (Contropiano). Sicuramente non la "nascita di un blocco sociale antagonista" (come subito vorrebbe fosse Cremaschi), ma comunque una sostanziale omogeneità di intenti "tra le tante forme della povertà e della precarietà [...] diverse componenti che si sono riconosciute in un percorso comune" (Gianluca di Infoaut), manifestatasi nella capacità di rimanere in equilibrio tra radicalità nelle forme espressive ed ordine nello svolgimento del percorso – cosa rivendicata dagli organizzatori e che hanno dovuto accettare e ribadire addirittura i mass media, finiti per lodare il servizio d'ordine del corteo. Anche allo scivolone di separare le due giornate di lotta si è in parte rimediato grazie al pomeriggio e sera in Piazza San Giovanni che ha fatto da "ponte tra lo sciopero generale e la manifestazione sociale del 19 [creando] coesione, organizzazione, connessione politica e sociale" (ancora Contropiano). In sostanza “sabato si è avuta la dimostrazione di come esista nel paese una nuova e consapevole radicalità diffusa, che non si lascia impaurire dalle retoriche mediatiche, che partecipa in massa a cortei che hanno come obiettivi politici quello della rivolta generalizzata contro l’attuale sistema di sviluppo, e che nel portare avanti questi obiettivi si serve anche di pratiche illegali, dell’uso della forza e della riaffermazione della propria autonomia di fronte alle neutrali logiche legalitarie” (Militant). Inoltre la sovraesposizione mediatica legata all'intenzione di disinnescarla criminalizzandola, ha sortito il paradossale effetto di imporre all'opinione pubblica i contenuti di una manifestazione che altrimenti sarebbe passata tranquillamente sotto silenzio. Sembrerebbe intravedersi quindi un processo di "ricomposizione non di ceti politici ma di lotte e segmenti sociali, di quei soggetti che subiscono la crisi e sono stufi di pagarne i costi", processo che si è reso visibile esprimendo lo slogan: "Una sola grande opera: casa e reddito per tutt*", parola d'ordine che fatta propria dalle migliaia di famiglie occupanti e dai militanti NoTav non risulta "agitata come una bandiera ideologica, ma agita nelle pratiche materiali di riappropriazione" (Infoaut).

Dall'altra parte però chiamare una manifestazione con parole d'ordine quali “assedio” e “sollevazione” e poi sentirsi lodare il proprio servizio d'ordine da “Il Tempo”, nello stesso momento in cui si è ricevuti ad un tavolo di trattativa con il Governo, rischia di finire col far riassorbire nel teatrino della politica e nella spettacolarizzazione della miseria quelle che vengono presentate come le istanze che emergono dai segmenti più radicali della società. In effetti “la velocità con cui il sistema sta fagocitando quelli della sollevazione è impressionante. La serie di articoli, con foto, degli accampati "disperati" scritti retoricamente è sconcertante. Bruciata la rivolta in una puzzetta mediatica ora viene la cosa più subdula, mostrare per quello che è questa cosa.” (Pensareinprofondo). Mentre nelle rappresentazioni mediatiche veniva oscurato il fatto che il 18 ci fosse stato uno sciopero e che in piazza fossero scesi migliaia di lavoratori e lavoratrici, la manifestazione del 19 ha subito uno schema già visto e a cui molti dei toni e delle dichiarazioni degli stessi partecipanti, in particolare quelli trasmessi nei talk show che ne sono seguiti, sembrano prestarsi: quello di disinnescare il tutto nella retorica generazionale, o nella narrazione delle difficoltà di generici bisognosi legittimamente incazzati, perché traditi da un sistema (politico) che non gli garantisce quello che sulla carta “dovrebbe”.

Di fronte all'imporsi delle forze cieche del Capitale, travestite da spread, inflazione, tagli, ecc., l'individuo soccombe. Eppure l'ideologia meritocratica continua a mietere adepti proprio tra gli stessi a cui impone una sempre più acuta guerra tra poveri; è un merito del movimento quello di aver saputo e sapere inscenare una solidarietà collettiva che risolva i problemi dei singoli – problemi a cui si vorrebbe far credere possa porre rimedio maggiore competitività individuale. Diventa il suo limite se anche questa solidarietà agisce perché ci si preservi in quanto individui, se diventa la reazione di una massa di indignati traditi dalle promesse irrealizzabili di libertà, eguaglianza e proprietà che la società borghese proietta come suo ideale da realizzare. Una società che costringe al lavoro attraverso il ricatto della miseria, non può che accompagnare alla ricchezza ad un polo il dilagare della miseria ad un altro. Il grande ciclo del debito degli ultimi trent'anni ha sicuramente amplificato le capacità del Capitale di occultare questa sua natura, che ora si ripresenta nella forma di insopportabile corruzione o di “anormale” guadagno e avidità da parte degli agenti mediante i quali ha operato, e che fino al sopraggiungere della crisi avevano anche redistribuito parte di ricchezza. Anche perché mentre da un parte questo tramutava in piccoli padroncini, in imprenditori di sé stessi, in varie categorie parassitarie coloro che poi ha tradito, dall'altra parte con la mano dello Stato incarcerava, criminalizzava, torturava, costringeva al pentimento, coloro che ad esso avevano provato ad opporsi. Cosa che si è impressa nell'inconscio collettivo al punto che alcuni trovano preferibile il suicidio al riconoscimento di ciò che non hanno voluto vedere quando si stava costruendo quel mondo illusorio che ora gli crolla davanti agli occhi.

Esprime anche questo il diffuso odio per politici e banchieri – odio che è più che altro un rancore politicamente inservibile. Questa, tra l'altro, non è neanche l'unica cosa che il movimento condivide con i grillini, cioè proprio con chi della lotta alla corruzione dei politici e all'avidità dei banchieri fa la propria bandiera. Le stesse parole d'ordine “casa”, “reddito” e “no alle grandi opere” compaiono nel programma dei 5stelle o in alcuni emendamenti da loro presentati. Al di là delle distorsioni mediatiche difficilmente controllabili, quindi, sono le stesse parole d'ordine che aprivano il corteo e con cui esso si è presentato alla pubblica opinione ad annunciare rischi oggettivi.


10.

Esser riusciti a dettare pubblicamente una propria agenda in grado di ridefinire le priorità della politica attorno a bisogni sociali insoddisfatti, imponendo una vertenza in grado di legare durature e determinate lotte (“no alle grandi opere”) a nuove lotte in grado di mostrare altrettanta determinazione (“casa per tutt*”), è un innegabile gesto di intelligenza politica. Soprattutto quando fatto a partire da pratiche che non hanno problemi ad anteporre all'inviolabilità della proprietà privata l'inaccettabilità della fame; a prescindere dall'esito delle trattative, costituisce un risultato prezioso già solo aver mostrato la possibilità di mettere in questione la retorica dominante dell'inevitabilità dei sacrifici. Basta questo a segnalare lo scarto qualitativo tra la manifestazione del 19 e altre manifestazioni degli ultimi due anni, anche quando più numerose (è bene ricordarlo), come il No Monti Day. L'ideologia dominante ha però materialissime basi, sovvertibili solo tramite una strategia politica complessiva in grado di mostrare come dietro l'apparente inscalfibilità dei vincoli economici ci siano reali, ma mutabili, rapporti sociali, e che indichi dove colpirli. Per far questo non ci si può di certo limitare a dire che le risorse basta prenderle dalla TAV o dalla politica, come hanno fatto o fanno molti dei componenti del movimento in crisi da grillismo. Il modo in cui più o meno esplicitamente buona parte di questo pretende di risolvere questi dilemmi sembra giocarsi ancora su quel piano del consumo e della redistribuzione che finisce dritto nei vicoli angusti imposti dal Capitale.

Il rischio infatti che la “riappropriazione diretta” abbia come sua traduzione concreta forme particolari di ammortizzazione sociale, i cui costi si scaricherebbero paradossalmente sul lavoro di chi la opera, è palese. Si manifesta ogni volta in cui si perdono giornate intere appresso a tutti i disagi materiali che comportano, o quando si finisce a fare lavoro di sorveglianza (per non dire di polizia) perché non degeneri il concentrato di disagi sociali delle moltitudini di bisognosi che su questi si riversano. Di fronte al procedere della pauperizzazione sociale, l'eventualità che questi processi scavalchino quelli di “politicizzazione e rilancio” è altissima. Giusto e inevitabile, quindi, che si sia aperta una vertenza politica allargata che, tra le altre cose, propone una generale moratoria degli sfratti. Pericoloso non vedere le varie forme in cui il Capitale potrebbe anche lì ripresentare ai proletari i costi della loro condizione di subalternità: ad esempio, uno tra i tanti, per l'effetto di un abbassamento dei salari laddove e qualora essi si liberassero del problema di un affitto da pagare (che in città come Roma porta via più della metà di uno stipendio), cosa che potrebbe fargli accettare salati al ribasso e magari per questo farsi odiare da altri lavoratori in condizioni diverse. In questo senso la lotta per la casa non deve essere altro “che un pezzo di una lotta più generale per la riappropriazione di quote di salario diretto e indiretto sottratte ai proletari in decenni di offensive padronali […], si tratta di mettere in piedi una campagna che ponga al centro il tema della garanzia di salario per tutti […]. Una 'vertenza' generale che, per ovvi motivi, non può che andare di pari passo con l'altrettanto generale battaglia per la riduzione dell'orario di lavoro” (Iskra-COC). Senza una generale battaglia che faccia esplicito riferimento alle condizioni di lavoro, anche la rivendicazione generica di “reddito per tutti”, di cui in realtà non è chiara la declinazione specifica, può far ripresentare i soliti costi sotto mentite spoglie, ad esempio quello di rendere più accettabili salari magri e saltuari per via della compensazione fornita dallo Stato. Articolare quindi la questione senza includere nemmeno le condizioni di lavoro di quelli coinvolti direttamente nei processi produttivi dove viene prodotto ciò che sarebbe da distribuire, significa essere addirittura più arretrati di chi nelle istituzioni avanza una proposta analoga ma con maggiore “realismo” – come il Ministro del Lavoro Giovannini. Il realismo con cui Giovannini paventa di declinare la “via italiana al reddito minimo” – cioè tenendo in conto le alterazioni nell'offerta di lavoro che comporterebbe, nonché i vincoli finanziari del Paese – non esprime altro che la realtà dei rapporti di produzione capitalisti, che se il nostro Ministro non ha interesse a mutare, parte del movimento non sembra intenzionato a comprendere. Sostenere vuotamente nei talk show che “le risorse ci sono”, per poi prestarsi a qualsiasi compromesso nelle trattative per ottenerle; fare questo con la segreta pretesa che grazie al livello raggiunto dalla forza produttiva del lavoro sociale l'accesso incondizionato ad un reddito realizzerebbe immediatamente la liberazione dalle miserie del lavoro salariato, rende ciechi di fronte alle strategie con cui il Capitale riesce ad imporre la miseria proprio nel pieno dell'abbondanza. L'intera divisione capitalistica del lavoro, tanto nella sfera della produzione quanto in quella della distribuzione, orienta lo sviluppo delle forze produttive perché il risparmio di lavoro nel produrre una certa quota di merci non si traduca in altro che nell'espansione della quota totale di merci da produrre, e quindi in un ulteriore mobilitazione di lavoro. Non può bastare quindi rompere un involucro politico o finanziario “parassitario” per rompere l'intera trama di rapporti giuridici, sociali, tecnologici e ambientali che riproduce il dominio capitalistico. Non comprendere questo significa inoltre non vedere la base reale, anziché ideologica, dell'unione con quelle lotte che si presentano a difesa dell'“ambiente” e dei “territori”, di cui i compagni e le compagne No Tav hanno assurto ad emblema. Questa non risiede nel carattere “capitalistico” del fine immediato della trasformazione antropica dell'ambiente – da imputare magari alla brama di profitto dei capitalisti singoli, o di controllo degli apparati repressivi e militari, ecc. –, trasformazione che l'illimitato sviluppo delle forze produttive rende sempre più estesa e profonda. Non si tratta di questo, o meglio non essenzialmente di questo –, bensì della condizione di vulnerabilità che determina gli esiti reali di queste trasformazioni sui destini delle persone, e di come queste stesse trasformazioni producano questa vulnerabilità. Questa condizione rende molto differente gli esiti dell'impatto antropico sull'ambiente, per chi da una parte ha le disponibilità economiche per ammortizzare qualsiasi colpo, e che quindi ha interesse che il mondo sia sempre trasformabile e aperto ai suoi affari, e chi dall'altra invece magari già fa un lavoro usurante al punto che ulteriore inquinamento risulterebbe fatale. Altrettanto differente è chi privato di beni “naturali” è magari costretto a lavorare di più per procurarseli, a chi vede in queste mancanze nuovi mercati da inondare di merci. In un mondo che sempre più reca il marchio della crescente potenza dell'attività umana ed in cui le sorti di ogni individuo sempre più dipendono dalla sua posizione nei rapporti con gli altri uomini, di fronte a catastrofi “naturali” prodotte dallo stesso sviluppo delle forze produttive che pretende di affrancarci da queste – ed effettivamente gli uni affranca mentre gli altri devasta –, reclamare l'immediata riappropriazione di questa produttività sociale, nasconde i problemi da essa stessa creati. Essere, dall'altra parte, costretti a difendersi dal cieco operare di questa potenza sociale idealizzando il proprio territorio o “l'ambiente”, astraendoli dal ruolo che questi hanno nella produzione e riproduzione materiale della vita, fa il gioco di chi ha interesse a contrapporre ragioni sociali a ragioni ambientali (ad es. sostenendo che c'è bisogno di lavoro e non ci si può preoccupare dell'inquinamento) e contemporaneamente a confondere questioni sociali per questioni naturali (ad es. attribuendo malattie a singoli fattori inquinanti e non al lavoro nel suo complesso). Spiana la strada a soluzioni “tecniche” del problema e rischia inoltre oggettivamente di ripiegare in un localismo più o meno incosciente.

Le domande aperte da tutte queste lotte costringono quindi a risalire alla radice del nesso tra i bisogni sociali da soddisfare ed i mezzi materiali con cui farlo. Quello che indicano realmente va oltre la sfera del consumo, della semplice ridistribuzione immediata, e finisce nella sfera della produzione e riproduzione della vita materiale e sociale, e della distribuzione di questa. Esse ricercano una libertà che sappia essere il comune controllo razionale del ricambio organico con la natura, in vista di bisogni collettivi da soddisfare con il minor dispendio possibile di fatica. Una libertà il cui primo, necessario, momento è la lotta per la riduzione del carico di lavoro. Se la “crisi” consiste nel farsi palese di come le miserie della disoccupazione degli uni siano il risvolto del sovraccarico di lavoro degli altri, allora il nome che la latente lotta sulla giornata lavorativa globale prende nella crisi al fine di palesarsi ai suoi stessi interpreti, sarà quello in grado di evidenziare al massimo questa contraddizione. La parola d'ordine “lavorare meno, lavorare tutti, a parità di salario”, è una delle sue migliori manifestazioni. Sarà onere di chi è scientemente partecipe della lotta per affermarla realmente quello di mediarla con gli interessi immediati dei partecipanti incoscienti, scoprendone così l'effettiva realtà.


11.


Prendere autenticamente parte nella lotta di classe significa innanzitutto rompere gli schemi della sua rappresentazione. Questa vorrebbe inscenare l'immediata coincidenza degli interessi di chi è superficialmente unito dalla forma in cui si manifesta empiricamente la miseria che lo colpisce in quanto membro della classe sfruttata.

La presenza delle innumerevoli famiglie migranti trainanti e trainate nella manifestazione del 19, è ancora una volta rivelatrice: gli stessi migranti vengono pressoché ignorati dalla maggioranza del movimento quando manifestano contro quel ricatto che, legando “permesso di soggiorno e contratto di lavoro, divide la classe operaia di questo paese permettendone una gestione differenziale, indebolendone l'unità proprio in un momento in cui subisce un attacco generalizzato e frontale” (CCW – Brescia. Manifestazione dei e delle migranti!). Cioè quando lo fanno a partire da una condizione drammaticamente specifica che è allo stesso tempo quella veramente generalizzabile, perché rivelatrice delle forme in cui la minaccia della miseria costringe chi ne è colpito a produrla e riprodurla partecipando al processo produttivo del Capitale. Ad unire è invece la loro miserevole condizione di senzatetto, drammaticamente generalizzata o in via di generalizzazione con il procedere della crisi, in cui il loro protagonismo viene misurato con l'intensità dello scontro che sembrano disposti a mettere in gioco (e nemmeno con le loro stesse parole, visto le poche o nulle dichiarazioni provenienti dalle loro bocche). Condizione però non generalizzabile a quelli che subiscono lo sfruttamento in una forma diversa da quella della pauperizzazione. Così è alto il rischio che da una rappresentazione della miseria si passi alla sua rappresentanza, e quindi alla gestione della marginalità. Poco aiuterebbe il fatto che i protagonisti delle trattative siano gli stessi “protagonisti sociali delle emergenze”, così da porre il problema della rappresentanza “su un terreno sconosciuto ed estraneo ai vecchi professionisti della politica” (Contropiano – Emergenza abitativa. Governo deludente). Cose del genere le dicono anche i grillini, proprio nello stesso momento in cui creano nuovi professionisti, pur se di tipo diverso. Il rischio a quel punto sarebbe di scadere nel “culto di sé, della propria autorappresentazione come 'Il Movimento', al tempo stesso avversario e interlocutore dello Stato. Dentro una visione in cui tutto si riduce al (proprio) 'conflitto' e/o 'mediazione' col potere” (PCL – Considerazioni sul 19 Ottobre). Schemi già visti e che rischiano di ripetersi, come segnala la capacità di riciclarsi nel percorso aperto il 19 da parte di quelle realtà politiche che il loro ex(?)-ideologo ritiene “ridotte al proprio desiderio di permanere in qualsiasi modo”, tanto da piegarsi “alla dura legge dell’imprenditorialità, perdendo man mano ogni prospettiva politica” (Toni Negri – Qualche questione sullo stato dei movimenti). Le innumerevoli ed interminabili assemblee tecniche che hanno preparato la giornata del 19, in grado di smentirsi tutte tra loro e contemporaneamente essere smentite da quanto poi effettivamente fatto, indicano inoltre la qualità di questo professionismo di movimento e la sua capacità effettiva di organizzarsi per “rispondere alla dispersione, e per esercitarsi a gestire funzioni e strutture complesse” (S. Prinzi – Sul buon uso dell'impazienza). La sedicente “lotta per l'egemonia” tra gruppi politici diventerebbe la forma mistificata di una particolare riproposizione della guerra tra poveri.

Tentare di rimediare a queste lacune spingendo sull'acceleratore di una “ricomposizione politica” imperniata attorno alla contrapposizione alla UE (Rete dei Comunisti – Due manifestazioni una prospettiva), proietta ancora una volta sul piano della rappresentazione – questa volta di un corpo sociale unitario oppresso linearmente da particolari vincoli politico-economici. Se questo può avere il merito di indicare alcuni degli agenti con cui il Capitale media il suo attacco al lavoro – in questo caso alcune frazioni della borghesia europea – il suo effetto sulle lotte sociali che, sole, possono “riaprire quegli spazi che oggi non possono non apparire, allo stato delle cose, inesorabilmente chiusi, come in una cappa d’acciaio” (Bellofiore, Garibaldo – Euro al capolinea?), sono tutt'altro che lineari. Più che indicare agli attori di queste lotte una serie di passaggi possibili o necessari per liberarsi dalla cappa che il sistema nella sua globalità impone, quindi una serie di “obiettivi di lotta di movimenti sociali di massa che, in una determinata congiuntura, estendono e radicalizzano la mobilitazione” (M. Nobile – Le trappole dell'antieuropeismo), finisce per far ricadere su alcuni dei rappresentanti del sistema stesso (la Merkel, la Troika, ecc.) la colpa degli effetti di questa cappa. Un effetto passivizzante su masse che non aspettano altro che qualcuno a cui dare la colpa del tradimento subito (non a caso la retorica antieuropeista è presente anche in Grillo), ed i cui interessi sarebbero quindi rappresentati da calcoli a tavolino di esperti della lotta. Se poi è vero che “quando arriva in Europa il plusvalore, estratto in modo massiccio e brutale nelle lontane fabbriche dell’Asia o dell’America latina, al miope occhio d’Occidente appare solo come capitale che si scambia con se stesso: sembra perdere ogni traccia del rapporto sociale che globalmente lo produce, per diventare un’irreale attività finanziaria tra capitali” (ConPrec – Un debito inestinguibile), allora concentrare le rivendicazioni attorno allo Stato e quindi alla gestione della moneta, delle banche, del debito ecc., significa nascondere l'essenziale proprio nel momento in cui lungo le filiere globali di produzione infiammano lotte che “svelano che quelle che sembravano irresistibili forze economiche cieche a cui non si può che adattarsi o soccombere, sono in realtà il frutto di uno sfruttamento a cui ci si può ribellare” (CCW – La Cina è vicina!).

L'irriducibile varietà di forme in cui si manifesta la miseria della condizione proletaria resistono strenuamente ad una loro rappresentazione unitaria. L'illusorio tentativo di ritrovarla sul terreno dell'empirico si dissolve in interminabili stratificazioni sociologiche, nelle innumerevoli categorie giuridiche che regolano i rapporti lavorativi, nel mosaico di fonti che compongono il reddito degli individui. Insistere astrattamente sulla priorità del conflitto “capitale/lavoro” confondendolo con quello che le scienze borghesi chiamano “relazioni industriali” o con l'agenda del relativo Ministero, è la premessa per la derubricazione del carattere classista della nostra società a faccenda tra le altre, non più importante delle altre innumerevoli oppressioni che subiscono gli individui. L'esigenza di colmare il vuoto inscenandolo negli scontri di piazza o in uno sterile arditismo, sua inevitabile conseguenza; tanto quanto quella di impantanarsi nel falso problema che i movimenti sono finiti per porre solo a se stessi, cioè di ritrovare immediatamente il “soggetto rivoluzionario”, identificato di volta in volta da diverse mode pseudointellettuali (“operaio massa”, “operaio sociale”, “cognitivo”, ecc.). O anche in quello di trovare i luoghi dove si produrrebbe plusvalore, quelli degli operai immediatamente “produttivi”, quando il Capitale è un flusso in continuo movimento, che liquida attività diventate improvvisamente improduttive, spreme il lavoro per ridurre i tempi di circolazione, risparmia sui mezzi di sussistenza dei lavoratori con il lavoro domestico delle lavoratrici, produce nuove schiavitù in cui la frusta del negriero batte i ritmi dei mercati azionari. Questo quello che il Capitale è – un tutto integrato che sussume differenze che contemporaneamente erode, che usa il lavoro riproduttivo di alcuni per estrarre plusvalore ad altri, che estrae plusvalore che può non realizzarsi, che ridefinisce continuamente il tempo di lavoro socialmente necessario perché questo continui ad imporsi. Un'unità differenziata al suo interno in cui produzione, distribuzione, scambio, consumo, sono momenti della stessa totalità.

Quello che il Capitale fa per essere ciò che è, passa sui corpi di uomini e donne spremuti nei luoghi della sua produzione. Questi uomini e queste donne sono quindi ciò che fanno: producono la stessa condizione sociale che li costringe a produrre. Il frutto delle loro mani piene di cicatrici gli torna indietro dominando le loro vite e le loro menti. Non sanno di fare ciò che sono. Basta però il minimo sussulto delle loro mani, che sono le nostre, perché questo si intraveda.

Il punto di partenza dell'unico progetto che riteniamo possibile cerca la voce di queste cicatrici e di questi sussulti. Voce da rendere visibile e far sempre più propria.

Senza portare questa nei focolai di lotta, questi rischiano di risolversi in un sindacalismo che per quanto conflittuale deve avere come priorità gli interessi immediati dei salariati in quanto salariati, pena la sua scomparsa; senza accompagnare questa ad ogni affermazione o richiesta politica e/o economica, queste si ridurranno ad un astratto moralismo privo di bisogni concreti a cui riferirsi e dei soggetti in grado di mobilitarsi per soddisfarli; senza riferirsi a questa, ogni critica del discorso ideologico e/o scientifico che il Capitale tiene su sé stesso si risolverà in una variante eccentrica di questo stesso discorso. Come sempre, vale anche l'opposto.

Queste parole non sono già quelle del progetto che sognano. Chiarendo a sé stesse ed a coloro a cui si rivolgono la natura di questo sogno, sperano di contribuire alle condizioni della sua realizzazione.

Novembre 2013

a Sara e Celi. E a tutte gli altri.
L., del Laboratorio della Baracca
Web Analytics