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La crisi delle identità politiche: reinventarsi o morire

di Gigi Roggero

“Oggi è il 10 gennaio 1610. L’umanità scrive nel suo diario: abolito il cielo.”
“Galileo: Quelli che vedono il pane solo quand’è sulla tavola, non vogliono sapere come è stato cotto. Quelle canaglie preferiscono ringraziar Dio piuttosto che il fornaio! Ma quelli che, il pane, lo fanno, quelli sapranno capire che non si muove niente che non venga messo in movimento.
Ludovico: Rimarrete in eterno schiavo delle vostre passioni.”
B. Brecht, Vita di Galileo

Chi sono i populisti? Protagonisti di una nobile tradizione rivoluzionaria che nella seconda metà dell’Ottocento ha cercato di rovesciare lo zarismo (facendo anche fuori l’odiato Alessandro II), erano intellettuali radicali che andavano al popolo, di cui esaltavano forme di vita in via di sparizione o profonda mutazione (innanzitutto la piccola comunità contadina, l’obščina). Mitizzato, il popolo finiva così spesso per divenire astratto e disincarnato: l’unico soggetto concreto del populismo era così lo stesso intellettuale rivoluzionario. In questa sede, tuttavia, non ci interessa una ricostruzione storiografica o etimologica del termine, quanto invece un punto politico pregno di attualità: ci sono categorie (populismo è una di queste, non certo l’unica) di cui si continua a fare ampio uso per una sorta di coazione a ripetere, di pigrizia concettuale, di paura di perdere le proprie sicurezze. Sarebbe ora di superare questi tic nervosi e di mandare definitivamente in pensione il dottor Stranamore che alberga dentro di noi. Sarebbe ora, cioè, di rendersi conto che se non servono più a interpretare e soprattutto a trasformare la realtà, queste categorie vanno buttate via o reinventate completamente. Questo è per noi il principio fondamentale di un realismo materialista, che nulla ha a che vedere con la realpolitik sempre in odore di opportunismo.

Se abbiamo cominciato dal populismo, un motivo evidentemente c’è: negli ultimi vent’anni l’etichetta è una sorta di inappellabile sentenza di condanna che ha colpito in modo trasversale, il cui uso – subalterno all’ordine del discorso dominante – si è impennato con lo sviluppo della crisi. Se poi ai soggetti astratti esaltati dai populisti russi dessimo un nome diverso, scegliendolo nell’ampio repertorio concettuale utilizzato negli ultimi anni per identificare gli auspicati soggetti o gli spazi delle lotte contemporanee, il campo definitorio si rovescerebbe in modo sorprendente. Qui il problema, però, è che non serve a nulla bollare di populismo chi oggi tenta di comprendere condizioni di vita e comportamenti soggettivi delle figure del lavoro vivo contemporaneo, a costo di immergersi nelle sue espressioni bastarde, di navigare su ambigue frontiere, di provare a orientarsi e agire dentro movimenti impuri e perfino cosparsi di melma. La semplice domanda che poniamo è: esiste un’alternativa al rischio di insozzarsi? Se l’alternativa è il rifugio nel cielo di dubbie certezze identitarie e di lessici del già noto, quelli che scaldano i nostri cuori e consegnano alla marginalità politica, preferiamo il pericolo – duramente terreno – della sporcizia ideologica.


Annus horribilis?

La sinistra non è morta nelle ultime tornate elettorali: il suo decesso risale, almeno, alla fine degli anni ’70. Nel nome dell’interesse generale, cioè l’interesse capitalistico, scelsero l’autonomia del politico, sbattendo in galera la “seconda società”. Prima ancora, non capirono nulla delle trasformazioni del lavoro e delle soggettività, e fioccarono le accuse di diciannovismo, protofascismo, provocatori e compagnia cantando. Oggi – se almeno in questo caso un parallelismo storico ci è concesso – ci pare di scorgere tratti di similitudine. Niente affatto per il contesto sociale di allora e per la densità dell’antagonismo che si era espresso nei due decenni precedenti. La somiglianza può invece essere ravvisata nel medesimo crinale: allora come oggi, chi non coglie delle trasformazioni profonde e non si ripensa al loro interno, probabilmente non capirà più.

Il 2013 italiano non verrà consegnato agli annali della storia delle lotte, soprattutto di quelle che ci sarebbero piaciute o che abbiamo cercato di animare, ma certo alcune indicazioni importanti le ha fornite. Ne appuntiamo alcune, in modo rozzamente schematico.

– Un pezzo consistente del precariato cognitivo si è espresso politicamente attraverso la forma-M5s. Non ripetiamo qui analisi e considerazioni che abbiamo già svolto, sulle ambivalenze di questa forma di espressione, sul miscuglio di irrappresentabilità e verticalizzazione autoritaria, cooperazione reticolare e rinculo proprietario, rivendicazione di reddito e chiusura corporativa, ricerca della libertà e rancore giustizialista. Una parte di questi soggetti aveva già un background di mobilitazione attraverso o nelle vicinanze dei movimenti studenteschi a partire dall’Onda, altri si sono aggregati in modi per noi finora impensati. Con gradazioni e intensità molto diverse, caratteristiche e contraddizioni di questo tipo di espressione politica li possiamo trovare in altri movimenti nella crisi (per esempio gli indignados spagnoli).

– Il declassamento del ceto medio è ormai diventato percezione diffusa, tanto da orientare scelte e comportamenti. A partire dall’analisi della doppia crisi, quella dell’università e quella economica, abbiamo anticipato questa linea di tendenza; oggi, nel momento in cui diviene realtà, limitarsi a ribadirla serve a poco. Il 2013, fino ad arrivare al #9d e dintorni (lo prendiamo più volte in considerazione in quanto evento controverso e contraddittorio, estremamente diversificato, non massificato e probabilmente non paradigmatico, ma certamente sintomatico), ci consegna l’allungamento e la striatura dei processi di declassamento, con la loro differenziazione temporale e di prospettiva. Urge quindi fare un passo in avanti, capire chi è definitivamente proletarizzato o sottoproletarizzato, chi è in via di declassamento, chi sta lottando contro il declassamento, chi guadagna dal declassamento degli altri. Non è mera sociologia, per quanto abbiamo l’impressione che in questa fase storica si senta più il bisogno di buona conoscenza, anche solo descrittiva, che non di tanta filosofia politica. Il punto non è però “disciplinare”, ma interamente politico: di questi differenti soggetti si tratta di capire quali comportamenti esprimono o possono esprimere, dunque – per non restare prigionieri dell’incantesimo dell’eterogeneità – quali possano essere i possibili terreni comuni.

– Come già accaduto in alcuni lampi di lotte a partire dall’autunno 2010, la mobilitazione dei precari di seconda generazione si rivela decisiva per intensità, radicalità, scarto quantitativo e qualitativo. Si sta ormai consolidando all’interno dei movimenti degli studenti medi, in particolare attraverso i precari migranti di seconda generazione. Hanno fatto la differenza nel #9d torinese, espressione perlopiù di un proletariato delle periferie con cui difficilmente entriamo in contatto nei nostri ambienti militanti. La definizione di precari di seconda generazione connota coloro che sono immediatamente socializzati in un contesto definitivamente privato del futuro: anche questa categoria, in prima istanza utile e probabilmente azzeccata su un livello complessivo, va ora sviluppata e approfondita, pena diventare troppo generica per l’intervento militante. C’è una differenziazione nel modo in cui questi soggetti sono stati privati del futuro e in cui vivono l’eterno presente della precarietà, nelle possibilità di fuga verso un altrove più o meno mitico oppure nella consapevolezza della sua assenza, nel grado di cognitivizzazione di cui partecipano e in quello che possono saltuariamente rivendere sul mercato del lavoro.

– Non ci interessa riprendere i dibattiti, spesso ambigui, sull’emergere di una “questione settentrionale”. Ci interessa invece ragionare sulla rinnovata centralità politica dell’ex triangolo industriale, in forme completamente diverse e per certi versi rovesciate rispetto al passato. Mentre Milano riflette la crisi del capitalismo cognitivo, Torino e Genova, o meglio Piemonte e Liguria, sono oggi luoghi duramente colpiti dall’impoverimento e dal sostanziale fallimento della costruzione di un’economia post-industriale. A fianco all’apertura di nuovi “orizzonti meridiani”, è di questa geografia sociale e politica che dobbiamo tenere conto se vogliamo comprendere le forme di mobilitazione e conflittualità che scandiscono l’incedere della crisi in Italia.

– Spazi e tempi della metropoli si sono pienamente affermati come coordinate fondamentali dell’azione politica. Non è una novità, ma certo il dato si sta sempre più consolidando. Per restare agli avvenimenti recenti, si pensi ai lavoratori dei trasporti di Genova: la loro lotta contro l’aziendalizzazione dei servizi, in un processo in cui pubblico e privato sono ormai indistinguibili, pur partendo da una specificità settoriale ha immediatamente investito lo spazio urbano nel suo complesso. È facile prevedere come la battaglia intorno al welfare metropolitano, così come successo in Brasile, costituirà una caratteristica centrale delle lotte a venire. Chi poi ha interpretato tout court i cosiddetti “forconi” come una riedizione della Vandea, non si è reso conto dei comportamenti compiutamente metropolitani che almeno in alcune situazioni ne hanno caratterizzato la mobilitazione. E dicendo questo, pensiamo ovviamente anche all’utilizzo della rete e dei social media, ormai inseparabili dal tessuto relazionale e comunicativo che attraversa e compone gli spazi urbani. Dopo averne tanto parlato, una qualche forma di sciopero metropolitano si è finalmente data, ahinoi molto diversa da come ce l’eravamo immaginata o sognata. Invece che perdere tempo a dolercene, è meglio rimboccarsi le maniche e provare a sperimentare luoghi comuni metropolitani in grado di aggregare e comporre le figure del lavoro vivo e del conflitto urbano, tagliando e ricombinando appartenenze settoriali e frammentarietà biografiche.

Insomma, a noi pare che anche questo anno difficile che ci lasciamo alle spalle (difficile innanzitutto per noi e per le nostre incapacità) ci consegna non un’“anomalia” negativa del contesto italiano, una sorta di isolamento territoriale: ciò che abbiamo vissuto sono invece specifiche espressioni di una dimensione europea e transnazionale, anche quando comunicano con linguaggi e simboli nazionali. Il “tutti a casa” che accomuna le varie figure cui sopra abbiamo fatto cenno suona forse molto più “populista” dell’esotico “que se vayan todos” delle piazze argentine o del “dégage” delle insorgenze arabe, meno politicamente corretto del “non ci rappresenta nessuno” scandito nelle mobilitazioni studentesche o nelle acampadas spagnole. E tuttavia, forza, ambivalenze e ambiguità ci paiono avere molto in comune.


Tra passione dell’oggettivismo e oggettivismo delle passioni: la soggettività è un campo di battaglia

Con l’approfondirsi della crisi e del suo carattere permanente, nel dibattito teorico vicino o interno al movimento tende a rafforzarsi una polarizzazione alquanto problematica e talora un po’ stucchevole. Da una parte c’è chi spiega perché la composizione di classe, per come è fatta in Italia, non può che portare all’esito del M5s o dei “forconi”. Il risultato è una sostanziale inutilità dell’azione politica, ovvero la possibilità di salvezza viene da lontano, per esempio dagli operai di paesi che si presumono neo-taylorizzati. Dall’altra parte vi è chi, condividendo in pieno il carattere unilateralmente reazionario del M5s e dei “forconi”, ne dà una lettura apparentemente opposta, plasmata da una sorta di tassonomia delle passioni. Siccome il breviario spinoziano va molto di moda, a essere irrimediabilmente condannate sono le “passioni tristi”. Ma siamo sicuri che un soggetto che si dibatte nella triste vita dello sfruttamento e dell’impoverimento, possa avere per incanto solo passioni gioiose e lottare in nome di queste? Non si corre il rischio di chiamare passioni ciò che per gli ideologi armati di un altro breviario, quello del marxismo ortodosso, si chiamava coscienza di classe? Cambiando l’ordine dei fattori, comunque, tra i due poli il risultato non cambia: l’agire politico non si può mai dare nella trasformazione della soggettività, ovvero assumendola come campo di battaglia, ma solo a partire da soggettività già costituite come coscientemente classiste o puramente gioiose. E siccome le uniche soggettività coscienti e gioiose siamo noi stessi, è meglio rifugiarsi dentro famiglie tradizionali e piccole comunità in cui si condividono lessici e forme di vita, magari affidando a un altrove – dalla Cina all’Europa – le proprie speranze rivoluzionarie.

Questa polarizzazione va spiazzata e disarticolata. Che senso ha, infatti, parlare di una composizione rivoluzionaria o di una composizione reazionaria, come se questi attributi fossero oggettivamente inscritti nei corpi e nei modi di agire delle figure sociali? Facciamo qualche esempio concreto. Chi oggi apre un negozietto con alte probabilità di chiuderlo nel giro di qualche mese, è oggettivamente un reazionario? Chi si indebita fino al collo per comprare un furgone e lavora fino a venti ore al giorno per ripagarlo, come si può definire? Chi ha un banco al mercato ed è strangolato da tasse di cui non vede i frutti in termini di welfare e servizi, è un vandeano o potenziale evasore da mettere in galera? Un giovane delle periferie è per sua stessa natura portatore di un nichilismo triste e risentito? E attorno a un tema quale la corruzione, scivoloso eppure comune a tutti i movimenti nella crisi, è davvero così linearmente semplice stabilire il confine tra il rancore contro i corrotti e l’odio di classe per un sistema che produce esso stesso corruzione? Per ironia della sorte, dopo aver speso tanto tempo a criticare il diamat marxista e a combattere la sinistra, di fronte all’impasse teorica e politica tanti si scoprono marxisti e di sinistra. È anche per evitare questa grama fine che insistiamo sui processi di controsoggettivazione o soggettivazione autonoma, ovvero sull’imprescindibile necessità di rompere i processi di formazione capitalistica. O, per dirla altrimenti, insistiamo sul fatto che il capitale non ci consegna mai un soggetto già pronto per la rivoluzione, banalmente da attivare portando la coscienza di classe o alle cui gioiose passioni affidarsi misticamente. La dimensione spuria e bastarda delle lotte, che tende ad amplificarsi nella crisi, ha qui il suo nocciolo materiale.

Va bene, si dirà, ma questi sventolano le bandiere tricolori! Al netto di chi quel simbolo lo agita con consapevoli obiettivi politici ed è esplicitamente fascista, per tanti – tra cui vari migranti – la bandiera italiana è un oggetto di consumo come tanti altri. La sua specificità merceologica è di vendere identificazione: sono le stesse bandiere che tre anni fa “decoravano” i balconi delle periferie proletarie di Torino per il centocinquantesimo anniversario dell’unità italiana, allora benedette dalla sinistra e da Napolitano, padre-custode dell’amata costituzione. Diciamolo con una battuta, per giocare ancora con la storia: se la mutazione antropologica della prima guerra mondiale aveva trasformato il proletario in “ardito”, quello degli ultimi trent’anni poco gloriosi l’ha reso “uomo mediatizzato”. Utilizza cioè i media e ne viene utilizzato, si tratta ancora una volta di un campo di battaglia. I comportamenti sono conseguenti: limitarsi a blandirli e incoraggiarli è miope demagogia, ignorarli e condannarli è miope dogmatismo. È lo stesso sforzo che abbiamo fatto per capire cosa c’era dietro le bandiere brasiliane o turche, o quelle a stelle e strisce sventolate dai latinos nelle mobilitazioni del 2006, per il cui significato formale abbiamo la stessa mancanza di simpatia che nutriamo per i vessilli tricolori. Romano Alquati ci ricordava come, fuori dall’agiografia, i “più soldi e meno lavoro” servissero talora all’operaio massa per andare a giocare a Saint Vincent o dedicarsi a forme di consumo “distruttivo”, cioè per tutto ciò che faceva dire ai marxisti e alla sinistra che si trattava di provocatori o soggetti privi di coscienza, facili prede delle mene reazionarie. Significa che il problema non esiste? Niente affatto, ma sta dentro un problema più grande, appunto la produzione di soggettività da parte del capitale, a cui spesso prestiamo troppa poca attenzione.

Allo stesso modo non abbiamo simpatia per i sentimenti anti-euro, se li dobbiamo giudicare dal punto di vista della razionalità politica sono insensati e ne vediamo i tratti estremamente pericolosi. Tuttavia, il loro rovescio speculare, l’europeismo a prescindere, non solo non riesce a combattere le posizioni anti-europeiste, ma finisce per regalare a esse pezzi della composizione sociale in crisi. Sono entrambe scorciatoie, una trappola a cui sottrarsi, perché sfocia inevitabilmente nella dialettica tra veleno demagogico e autonomia del politico. Il punto è, allora, comprendere il livello su cui si muovono le razionalità dei soggetti in carne e ossa. Cosa significa per esempio l’Europa per un autotrasportatore in difficoltà, se non le norme che gli impediscono di utilizzare il camion per il cui acquisto si è indebitato? Non lo diciamo per compiacere e assecondare i comportamenti del lavoro vivo (più che populismo sarebbe stupidità), ma per capire come trasformarli e combinarli su un livello differente. Il tema dell’Europa andrebbe riaffermato in forma capovolta: non a partire dalla cattiva autonomia dei ceti politici, istituzionali o di movimento, bensì dalla buona autonomia delle esperienze di lotta e dei loro tratti comuni, strappandole così a problematici ripiegamenti territorialisti. Questo processo, però, si può fare solo dall’interno, o se si preferisce nell’immanenza alla composizione di classe storicamente determinata. E qui dentro individuare tendenze e centralità, linee di forza soggettiva, di rottura e rovesciamento costituente, di apertura ricompositiva contro la chiusura corporativa. C’è invece chi – e probabilmente aumenteranno nei prossimi tempi – si rifiuta di guardare, proponendo di mandare al rogo Galileo. Se la realtà non è come ci piace, basta non accostare l’occhio al cannocchiale e continuare a pensare che il mondo giri intorno a noi e alle nostre certezze.

Così facendo, però, finiamo per essere noi i veri reazionari – in senso tecnico, cioè in quanto difensori di un mondo di idee che non esiste più. Non è un caso, allora, che il 2013 ci consegni anche fratture dentro il movimento sulla questione della sinistra e dell’eredità di quel cadavere. Non è una semplice questione di autodenominazione, né di prospettive elettoralistiche (per quanto sia evidente che l’imminente tornata europea orienti opzioni e tonalità di discorso). Il punto è più profondo: in gioco vi è la scelta tra la difesa della propria identità in via di esaurimento, con il suo bagaglio di lessici, pratiche e categorie, oppure la costruzione di nuove forme della militanza, dell’agire politico e di attrezzi concettuali a esso adeguati. Conservazione o rivoluzione, dunque. Iniziamo a porre e a porci dei problemi: ci sembra già un ottimo proposito e forse una concreta proposta per l’anno che si apre. Facciamo allora uno sforzo compagne e compagni, non abbiamo da perdere che le catene delle nostre ideologie.

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