Print
Hits: 2846
Print Friendly, PDF & Email
gramsci oggi

I tabù della sinistra radicale

di Spartaco A. Puttini

4182755971Note sulla posta in gioco, a margine di una recensione

Aurélien Bernier, di Attac France, ha da poco pubblicato il suo libro sui tabù della sinistra radicale: La gauche radicale et ses tabous: pourquoi le Front de Gauche échoue face au Front national. Il libro non è stato ancora tradotto in italiano, forse non lo sarà mai. Appare per certi versi troppo legato alla dimensione politica transalpina per poter sperare di rompere la coltre di provincialismo che interessa la politica nostrana. Eppure parla anche a noi. Per questo vale la pena soffermarsi sul testo e sui suoi rilievi, perché può arrecare alcuni elementi di giudizio e riflessione anche alla sinistra italiana, che mai come ora procede a tentoni, a fari spenti nella nebbia.

Tratta dell’ascesa del Front national, del suo sfondamento nelle classi popolari e della modifica di indirizzo che, almeno apparentemente, ha impresso la nuova leadership di Marine Le Pen. Ma il soggetto vero dell’analisi e della ricostruzione di Bernier è la sinistra radicale francese. Con la sua ambizione di contenere l’estrema destra e intercettare il malcontento verso le politiche euro-liberali praticate dai socialisti e dagli esponenti della destra ex-gollista convertita al neoliberismo.

Bernier ricostruisce le varie fasi in cui, dal 1984 ad oggi, l’elettorato comunista e apparentato si è assottigliato, specie a seguito della mutation, il processo di allontanamento dalle proprie radici ideologiche e di cultura politica, mentre parallelamente cresceva la fiamma lepenista.

Sulle prime il Front national si è affermato presso i settori già collocati a destra dello spettro politico, in zone e milieu nei quali la sinistra comunista e anche i socialisti avevano tradizionalmente un forte insediamento e dove la destra tradizionale neogollista o giscardiana appariva più fragile. Successivamente, grazie alla progressiva perdita di credibilità presso le classi popolari dei socialisti, che con Mitterand aprono la parentesi della scelta neoliberista per non chiuderla mai più, il FN comincia la penetrazione anche tra le fila delle classi lavoratrici deluse dall’esperimento socialista, disegnando una prospettiva inquietante. Anche il PCF subisce un drastico calo di consensi, per avere, all’inizio, seguito i socialisti nella politica del rigore.

Ma in prospettiva è ben altro il terreno della disfida che si profila. Il vero punto di svolta è visto dall’autore nel cambiamento di indirizzo che Le Pen impartisce alla sua creatura nel corso della campagna contro l’Europa di Maastricht. Se, fino ad allora, Le Pen si era caratterizzato come un esponente della vecchia destra anti-repubblicana e vichyssoise1 che mostrava ammirazione per Reagan, fastidio per l’invadenza dello Stato, e riservava le sue premurose attenzioni per il mondo delle imprese, specie piccole, che dipingeva come tartassate dal fisco, dopo Maastricht cambia tutto. O quasi. Il FN diviene il vessillifero della lotta contro il mondialismo della globalizzazione neoliberista e contro l’integrazione europea, che ne è lo strumento per soggiogare i popoli europei, cancellare le nazioni e soprattutto la Francia. Con questa nuova postura, integrata dalla campagna per la sicurezza e contro l’immigrazione, la crescita della fiamma è continua e costante e gli score che Le Pen fa registrare alle presidenziali paiono crescenti e aprono all’estrema destra ben altre prospettive.

Ma sulle prime la bandiera della questione nazionale e della lotta contro l’europeismo non viene lasciata in esclusiva al FN. In occasione del referendum del 1995 per chiedere ai francesi la loro sanzione del Trattato di Maastricht tutte le principali famiglie politiche si spaccano trasversalmente. Del resto, come hanno sostenuto Hix e Lord2 di fronte al processo d’integrazione europeo le forze politiche non si polarizzano solamente in senso orizzontale lungo la dicotomia destra-sinistra ma anche in senso verticale, lungo la dicotomia difesa della sovranità-devoluzione dei poteri all’unione. Così alla campagna contro Maastricht dell’estrema destra fa da contraltare quella del Partito comunista francese, custode della sovranità e dell’idea di Nazione declinata a sinistra, sulla scorta del precedente della rivoluzione giacobina e della Resistenza. Durante la campagna referendaria del 1995 per la ratifica del Trattato a sinistra si aggiunge ai “no” Jean-Pierre Chevènement, a destra si schierano contro Maastricht Philippe Séguin e Charles Pasqua. I principali partiti (socialisti, RPR e UDF3) sostengono il sì che la spunterà nelle urne, ma di pochissimo. Il risultato mostra tutta la potenzialità della critica radicale all’integrazione liberista europea. La strada sarebbe aperta per la costruzione di una vera alternativa di sinistra, sovranista e di classe. Invece viene fatto all’estrema destra un insperato regalo.

Lo scivolamento dei comunisti: da euroscettici a eurocostruttivi

Purtroppo di lì a poco il PCF, con la segreteria di Robert Hue, imboccherà la strada della mutation e cercherà di riportare i comunisti all’intesa con i socialisti e con i verdi in quello che sarà il governo della “sinistra plurale”, che di plurale avrà solo la composizione ministeriale, l’indirizzo restando fermamente fissato sulla politica liberale scelta anni addietro dal PS. Nel giro di qualche mese Hue e i dirigenti che gli si stringono attorno cambiano discorso sull’Europa e si convertono al fumoso, inconcludente, ingenuo e poco credibile refrain dell’altra Europa possibile. Hue stesso si definisce “eurocostruttivo”. C’è chi, non senza ragione, lamenta una conversione vera e propria. Alle elezioni europee del 1999 il PCF si camuffa dietro l’insegna di una lista alter-europeista e i suoi massimi dirigenti sostengono ormai che per cambiare in Francia occorra cambiare l’Europa, vaneggiando di una possibile Europa sociale. L’inversione dei fattori è ormai fatta, e in questo caso cambia il risultato; la svolta del PCF è smaccatamente bocciata dalle urne, la lista della sinistra radicale (che aveva imbarcato anche esponenti favorevoli all’aggressione alla Jugoslavia) prende meno di quanto aveva raccolto il solo PCF nella tornata precedente e appare per quello che è: un insperato regalo all’estrema destra.

Al discredito per essere rimasto nel governo Jospin, a rimorchio del PS senza riuscire ad incidere in alcun modo, il PCF somma allora l’errore della metamorfosi che imprime al suo discorso sull’Europa. Dal fermo, patriottico e sociale al contempo, “no” della gestione Marchais, paladina della difesa della sovranità nazionale fino allo slogan “produciamo francese”, si passa alla versione euro-critica e alter-europeista. Sulla scia di un movimento alter-mondialista di cui oggi non si ha più nemmeno il ricordo (ma che in quegli anni veniva dipinto da molti come la superpotenza del futuro) si inizia a sostenere la litania: “Un’altra Europa è possibile”, ma curandosi bene dal poter indicare come arrivarci.

Bernier fa notare che il discorso del PCF in mutazione si assimila progressivamente e velocemente alla rimozione della questione nazionale, della questione della difesa della sovranità come spazio di esercizio della democrazia e strumento per la difesa e l’avanzata delle rivendicazioni di classe. Nella sinistra radicale inizia a prevalere la visione strabica e ottusa dei gruppi trotzkisti, che ripudiano la questione nazionale come destrorsa, abbandonandola nelle mani della demagogia lepenista. E’ questo passaggio a rendere possibile l’accordo di governo tra il PCF e i socialisti di Jospin nel 1997. Al sì dei socialisti per l’adozione della moneta unica si contrapponeva fermamente il no dei comunisti all’euro. Dietro la coltre dell’impegno (verbale) a cercare di cambiare questa concreta Unione europea, tante cose sarebbero passate in fanteria nell’arco di una breve stagione.

Successivamente, un altro referendum, quello del 4 marzo 2005 per ratificare il Trattato Costituzionale Europeo, segnerà la vittoria dei “no” all’integrazione e mostrerà come i cittadini francesi abbiano saputo scorgere nel processo d’integrazione europeo un chiaro attacco alla loro sovranità, ai loro diritti, al loro tenore di vita. In breve tempo il Front national resta l’unico partito organizzato in campo a sostenere una netta linea euroscettica e cerca di affermarsi come autentica forza anti-mondialista e anti-sistema. Chevènement continua, beninteso, a sostenere la sue ragioni, ma da una posizione sempre più isolata, come un profeta nel deserto della sinistra legata al carrozzone liberal-europeista del Ps. A destra Séguin viene marginalizzato e riassorbito da Chirac, mentre Pasqua tenta per una breve stagione la strada di una propria forza autonoma e sovranista di destra; il tentativo riscuote un certo successo sulle prime ma poi si sgonfia per varie ragioni. Il discorso del PCF continua ad essere confuso, pur restando il partito ancorato saldamente sulla linea del “no” nel referendum del 2005.

L’esplosione del FN è rallentata da scissioni interne e dalla scelta del vecchio leader di cavalcare la tigre della lotta all’immigrazione e l’islamofobia, strade che gli vengono ben presto sbarrate dalla deriva impressa da Sarkozy alla destra tradizionale francese. Ma i nodi prima o poi vengono al pettine e la crisi scopre i guasti causati dall’euro e dalla scelta europea presso un pubblico via via più largo. Il Front national è ben appostato per approfittarne. La sinistra radicale si ritrova a dover ripensare tutta la propria strategia.

Con la nascita del Front de Gauche, che tiene assieme il PCF, l’ex sinistra socialista di Mélenchon e un’altra formazione di origine trotzkista, una certa radicalità sembra ritrovata. Durante l’ultima campagna per le presidenziali Mélenchon sosteneva l’idea di disobbedire ai trattati europei. Una posizione che però manca al fondo di chiarezza, circa le eventuali caratteristiche, conseguenze e implicazioni di simile parola d’ordine. Se alle presidenziali, per la prima volta dall’era Marchais, il candidato dei comunisti e della sinistra radicale raccoglie più del 10%, alle politiche il Front viene un po’ ridimensionato (sotto il 7%).

Eppure la sfida per la sinistra transalpina, e in prospettiva non solo transalpina, è chiara: la lotta per l’egemonia nella società e per rispondere ai bisogni delle classi popolari è ingaggiata, o la vinceranno i comunisti con quanti alleati di sinistra riusciranno ad aggregare attorno a un loro progetto, o la vincerà il Front national4.

La posta in gioco, oggi, in Europa

Per coltivare la possibilità della vittoria, Bernier mette al centro delle sue riflessioni la necessità che la sinistra radicale abbandoni tre tabù che caratterizzano il suo discorso sull’Europa e auspica il ritorno alla radicalità con la quale il PCF combatteva la sua battaglia sovranista da sinistra (un riconoscimento e un invito significativo da parte di chi non proviene, per filiazione ideologica, dall’ortodossia marxista-leninista).

I tre tabù sono: il protezionismo (che viene oggi rifiutato in favore della scelta liberoscambista), la sovranità nazionale (dipinta come di destra o non considerata, e su questo si potrebbe scrivere un libro); l’Europa (a cui si guarda come ad un feticcio che non ci si può rifiutare di idolatrare, pena il rischio di essere additati come nazionalisti). Quanto di questo discorso riguarda anche noi!

Non mettere in discussione il liberoscambismo e la libera circolazione dei capitali porta inevitabilmente ad ingessare sul nascere qualsiasi ipotetica politica alternativa di sinistra. Non affrontare il nodo ha ricadute evidenti. Supponiamo che un esecutivo di sinistra voglia rivedere il peso dei carichi fiscali, redistribuendo le imposte in senso progressivo. I maggiorenti potranno spostare i capitali all’estero, e la fuga dei capitali metterebbe in panne la politica economica del governo. Se si volesse difendere il mondo del lavoro dal dumping salariale e dalla concorrenza al ribasso dei diritti, poi, non ci si potrebbe che scontrare con la possibilità delle imprese di delocalizzare e con l’effetto di induzione alla svalutazione interna svolto dalla moneta unica. Occorre tenere in considerazione che l’architettura delle politiche neoliberiste (che costituisce la base e l’essenza dell’Unione europea) funziona anche come un impedimento all’implementazione di politiche espansive e redistributive ispirate ai principi della democrazia sociale. Ma non ditelo a Barbara Spinelli e ai suoi accoliti…

Per questo acquisisce un significato strategico la questione dell’appropriazione della bandiera della sovranità nazionale da parte della sinistra di classe. Bernier ci dice che ultimamente il Front de Gauche si sta riposizionando, nonostante gli errori dell’era Hue, e nonostante la crisi che attraversano le relazioni tra le sue componenti. Ma per riuscire ad adottare una postura potenzialmente vincente che possa mettere la sinistra radicale francese in grado di contrastare il montare dell’estrema destra è necessario rompere gli ultimi tabù e passare dalla protesta alla proposta; e l’unica proposta possibile è quella di propendere per la rottura unilaterale dei trattati in modo da riconquistare la sovranità, conditio sine qua non di ogni cambiamento progressivo.

La prospettiva scelta da Bernier è certo particolare. Molte altre sarebbero le considerazioni da fare sulla crisi della sinistra radicale (in Francia e in Europa) e sulla crescita del Front national e di formazioni di estrema destra, dinamiche nelle quali giocano molteplici fattori. Ma la scelta operata dall’autore tiene conto della questione che oggi è indubbiamente la più rilevante in questa parte di mondo, anche se andrebbe in qualche modo sottolineato con maggior forza, a nostro personale giudizio, il parallelismo che corre tra l’abbandono della questione nazionale da parte dei partiti comunisti e la rottura con il loro bagaglio ideologico-strategico di matrice marxista-leninista. Più si allontanano dall’ortodossia, più rimuovono (quando non ripudiano) la questione nazionale.

Le ricadute e le conseguenze del discorso dell’autore e della sua ricostruzione sono chiare: solo impugnando l’arma della sovranità da riconquistare e rifiutando il discorso integrazionista e liberoscambista (cavalli di Troia del neoliberismo) sarà possibile proporre in modo credibile politiche che possano invertire l’attuale tendenza reazionaria e difendere gli interessi delle classi popolari, impedendo al contempo alla demagogia dell’estrema destra di approfittare della legittimazione che le viene dall’avere il sostanziale monopolio della questione nazionale, seppur malamente declinata, e dall’apparire come l’unica forza radicalmente anti-sistema.

La scelta di porsi sullo scivoloso, angusto e poco credibile (perché non fattibile) terreno della riforma della costruzione europea, dell’accettazione della moneta unica e della promozione di una futuribile “altra Europa possibile” lascia la sinistra radicale disarmata e pertanto incapace di incanalare il disagio delle classi popolari e di fette crescenti della popolazione che vengono spinte verso l’astensionismo o sono attratte da formazioni demagogiche.

La scelta che occorre avere il coraggio di operare è cercare di recuperare consenso nell’astensione e nella disaffezione promuovendo una politica più coraggiosa, radicale e realista, anziché limitarsi a cercare di raccogliere le schegge perse dalle formazioni socialdemocratiche nella loro continua marcia verso destra, magari in vista di un nuovo accomodamento, che sul breve periodo può premiare con qualche eletto ma che sul medio periodo lascia la sinistra radicale in mutande

E in Italia? Anche in Italia… (Consiglio ai sordi)

Sono considerazioni che si stanno facendo strada un po’ ovunque, in Francia come in Italia. Da questo punto di vista un certo parallelismo è già percepibile. Con tutte le differenze del caso, sia chiaro. Intanto perché in Francia c’è un Front de Gauche (anche se malandato) costruito attorno a un Partito comunista, anche se debilitato da una mutazione con la quale non riesce a chiudere i conti in modo convincente, passaggio obbligato per rilanciarsi abbeverandosi alle proprie salde radici, patriottiche e internazionaliste. Al Front de Gauche stesso l’autore chiede, in modo convincente, più coraggio nel rompere i tre tabù che menzionavamo. In Italia, invece, non manca solamente un fronte di sinistra degno di questo nome. Come prendere seriamente formazioni costruite attorno a guru che credevano che non fosse più centrale il conflitto capitale-lavoro o che non esistesse più l’imperialismo? Come pretendere di sostituire l’attività strutturata delle vecchie sezioni con il salotto di Barbara Spinelli? (anche al netto delle riflessioni che si possono e devono fare circa le strampalate sciocchezze che da quel luogo provengono). Ma soprattutto in Italia manca un partito comunista che voglia davvero essere tale.

Nel contesto attuale la sua costruzione è certamente possibile. Ma per rendere il progetto vitale occorrerebbe risultare in grado di dare una speranza e una prospettiva di cambiamento anzitutto alle giovani generazioni, le più schiacciate dalla crisi. Per questo oggi, in Italia, i comunisti dovrebbero anzitutto costruire a partire dalla risposta da dare alle due questioni cruciali del nostro tempo: la questione sociale e la questione nazionale. E dovrebbero farlo a partire dalle risposte che dovrebbero dare all’attuale crisi europea, che rappresenta il nodo gordiano da tagliare. Da questo punto di vista, analogamente alle riflessioni svolte da Bernier sul panorama politico francese, i comunisti italiani non possono sostenere le stesse traballanti castronerie della sinistra radicale alter-europeista e dovrebbero caratterizzarsi come i veri difensori e sostenitori del ritorno alla sovranità nazionale, in tutte le sue dimensioni, ivi compresa quella monetaria. Chi si trincera dietro la presunta impossibilità dell’esercizio della sovranità è già fuori dalla storia, fuori dal campo di contesa politico. Chi rifiuta di dare fiducia al proprio popolo non può chiederla. Chi pretende che l’Italia non ce la possa fare si è già arreso, come può essere un interlocutore, un punto di riferimento?

In Italia vi sarebbe, tra l’altro, il vantaggio che lo spazio della critica alla Ue e all’euro non è ancora egemonizzato da alcuna formazione demagogica e di destra (affine al liberismo), a differenza che in Francia, dove il FN ha occupato abilmente quel vuoto. E’ vero che determinate formazioni demagogiche e di destra anche in Italia cercano di posizionarsi in tal senso. Ma sono all’inizio e godono, al momento, di una credibilità limitata, a causa dei loro trascorsi nei governi Berlusconi, dove non hanno dato affatto buona prova di sé.

A maggior ragione i comunisti dovrebbero porsi con urgenza l’obiettivo di presidiare questo spazio, evitando di cadere nella trappola illogica per cui se alcune formazioni di destra sostengono (a parole e a modo loro) determinate battaglie, bisogna negarne a priori l’eventuale validità. La Terra resta sferica e l’euro resta una trappola anche se lo dicono il Front national o la Lega Nord. Una ragione in più per non abbandonare determinate parole d’ordine.

Una delle parole d’ordine che la sinistra nostrana ha abbandonato da tempo è quella relativa alla difesa della sovranità nazionale. Se è vero che né il movimento socialista né la nuova sinistra avevano mai compreso la valenza e la portata della questione nazionale, per il movimento comunista valgono tutt’altre riflessioni (si pensi alla Resistenza, per non citare che un passaggio). La rimozione di questa radice dal proprio DNA è andata di pari passo con lo snaturamento e la mutazione. Passaggi che hanno condotto i comunisti al lumicino in cui ora si trovano. Per uscire da questo stato di minorità occorre tornare se stessi.

Il passaggio delle prossime elezioni europee rappresentava un’ottima occasione per mettere in campo il progetto di costruzione di una sinistra patriottica e di classe e i comunisti italiani avrebbero dovuto posizionarsi per agire in quest’ottica. Invece hanno preferito accodarsi, in base ad una logica suicida, alla costruzione di una lista che difende la solita aria fritta alter-europeista, la lista Tsipras, che di fatto è la lista Spinelli. Tale lista ha risucchiato tutta la sinistra radicale. Persino la componente del Prc che si definisce comunista ha applaudito all’operazione. Segno che da quelle parti, ormai, ci si pone ben pochi problemi in merito alla direzione di marcia. Coloro che sbeffeggiavano Bertinotti ieri, oggi gli danno ragione, scimmiottandone le gesta.

I risultati della scelta di pilotare i comunisti italiani nella lista Tsipras-Spinelli sono sotto gli occhi di tutti, erano scontati e prevedibili. Tutto si può rimproverare ai promotori della lista, tranne che non siano stati chiari sin dal principio. Ora basterebbe aprire gli occhi, e dirsi con franchezza che un conto è lavorare ad un progetto unitario, un altro è lavorare ad un aggregato confusamente di sinistra. Almeno ora, si dovrebbe scegliere con chiarezza di riconquistare ai comunisti la questione della sovranità nazionale, di riconquistare se stessi. Lavorando per costruire un fronte della sinistra sovranista e di classe in vista delle prossime elezioni politiche. Occorre scegliere, altri lo hanno fatto. Che si dimostri di voler fare sul serio. All’Italia e ai lavoratori italiani, ai tantissimi giovani senza futuro, serve ben altra offerta politica… e gli stessi militanti e simpatizzanti della sinistra comunista meritano di meglio.



NOTE
1Vichysta”, sostenitrice ed erede del regime collaborazionista di Vichy.
2 S. Hix, C. Lord, Political Parties in the European Union; Londra, MacMillan 1997, p.50. Cit. in: M. PierMattei, Partiti d’Europa. Integrazione e federazioni transnazionali; in: “Memoria e Ricerca”, n.24 2007.
3 RPR, Rassemblement pour la République era la formazione neogollista guidata da Jacques Chirac, l’UDF, Union pour la démocratie française, era il partito composto dal centro destra democristiano e liberale degli eredi di Valéry Giscard d’Estaing.
4 “Noi abbiamo l’impressione di trovarci impegnati in una corsa contro il tempo con l’estrema destra. Il popolo che rigetta il sistema sceglierà tra la nostra proposta e la loro”; dichiarazione di Mélenchon a “Sud-Ouest”, 23 marzo 2013
Web Analytics