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Due parole su Expo e il 1° Maggio milanese

latocIl rapido sgonfiarsi delle velleità di Syriza e un timido accenno di ripresa economica in USA ed Unione Europea – ripresa ben reale, ma dettata soprattutto dall'abbassamento del prezzo del petrolio e dalla svalutazione dell'Euro – permettono ai buffoni di corte di gridare nuovamente al miracolo: l'uscita dalla crisi sarebbe dietro l'angolo. In verità, il break non è che momentaneo: il buon Michael Roberts, nelle sue Predictions for 20151, preconizza un'ultima altalena (ripresa-recessione-ripresa) prima che il ciclo di Kondrat'ev2 tocchi il suo punto più basso verosimilmente nel 2018. Ciò che è perfettamente plausibile. Intanto, nell'immediato, i tempi restano movimentati da improvvise fiammate: in primis, le rivolte del proletariato nero negli Stati Uniti (Ferguson e Baltimora) e di quello ebraico-etiopico in Israele. Qui ci occuperemo però del corteo del 1° Maggio a Milano, non fosse che per evidenti ragioni di prossimità geografica. Le letture fatte a caldo da protagonisti e osservatori partecipi della manifestazione milanese, sono state numerose e variegate (cfr. l'Appendice): abbiamo tentato di effettuarne una sintesi... di parte.

Le componenti politiche e sindacali della manifestazione milanese più apparentate alle modalità del (defunto) movimento operaio, hanno deplorato –a denti stretti, per la maggior parte – la piega presa dalla giornata sotto l'azione dei più scalmanati, come un'occasione mancata per proseguire o rilanciare, attraverso o a partire dal No Expo, un movimento di più ampio respiro e portata.

I milioni di voti ottenuti da Syriza e Podemos evidentemente fanno gola a molti, e l'Italia – anche se meglio posizionata rispetto agli altri –rientra comunque nei cosiddetti PIIGS, ciò che lascia intuitivamente supporre una certa comunità di destino e la possibilità di traiettorie politiche similari ed «esportabili»3 . Ma la giornata di Milano è stata soprattutto la presa d'atto che il 1999 e il 2001 (gli anni d'oro dell'altermondialismo) sono lontani anni-luce. (Quanto ad una nuova configurazione alla greca o alla spagnola, di fatto non ci siamo ancora – ? – nemmeno a medio termine). Tutto concorre a dimostrarlo: non solo lo «spirito», invero decisamente più cupo rispetto alle sfilate colorate del passato, ma in primo luogo i numeri; che non sono stati trascurabili (30.000 persone), ma nemmeno colossali. E lo dice anche il rapporto di forza instauratosi tra «buoni» e «cattivi», che nessun osservatore o partecipante – in buona o malafede – ha potuto evitare di cogliere, e che è legato tanto all'aumento relativo dei «cattivi» che alla diminuzione assoluta dei «buoni».

Per le componenti che potremmo definire «di rottura», designate giornalisticamente come «i black bloc», l'esito del May Day sembra essere più positivo. Ma non tutto è oro quel che luccica: non soltanto una gestione piuttosto oculata della piazza da parte della polizia, è riuscita a circoscriverle in una sorta di area sgambamento manifestanti «violenti», tenendole a distanza dal centro storico e limitando ad un minimo i danni. Ma, a ben vedere, gli scontri di piazza hanno coinvolto in via quasi esclusiva alcune aree politiche o ideologiche ben delimitate e identificabili e, viceversa, poco o nulla di quel proletariato più o meno «marginale» e «razzializzato» che esiste a Milano come in pressoché ogni grande metropoli europea (quel proletariato, per intenderci, che fu protagonista delle rivolte svedesi del 2013 e di quelle inglesi del 2011). D'altra parte, se pure è vero che per la maggior parte di questi militanti la giusta strada non risiede nella crescita graduale del movimento o nella conquista di consenso, lo schema resta in realtà altrettanto quantitativo e gradualista, salvo che all'azione rivendicativa quotidiana e senza emozioni del vecchio sindacalista, viene sostituita la moltiplicazione di focolai di rivolta che non avrebbero che da estendersi nel tempo e nello spazio, fino alla... Grande-Rivolta-Senza-Fine. Come ciò possa avvenire in una città nella quale – centro o «zona rossa» a parte – tutto funziona as usual, trasporti compresi (circostanza che non dispiace affatto al rivoltoso di passaggio quando gli gira di tornarsene a casa), non è dato sapere. Il fatto che «ciò che è legato nonché reale solo nella sua connessione con altro» possa acquisire «una propria esistenza determinata e una sua distinta libertà», Hegel lo celebrava come l'«immane potenza del negativo», «l'energia del pensare del puro Io» (Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2000, p. 85); ma per questa «distinta libertà» esiste un limite oltre il quale la «connessione con altro» (la sua stessa ragion d'essere) torna a far valere i propri diritti. A buon intenditor, poche parole.

In ogni caso, questa riproposizione a rapporti di forza invertiti, di una vecchia polarizzazione – intravista, di recente, anche al Blockupy di Francoforte del 18 marzo (con numeri inferiori a quelli di Milano: 10.000 manifestanti) – è sintomatica di qualche cosa. Azzardiamo che si tratti di una difficoltà, più che di una radicalizzazione. Il ritorno in auge della parola d'ordine «riprendiamoci la città», la dice lunga al riguardo. Lanciato da LottaContinua dopo l'Autunno Caldo del 1969, lo slogan in questione spopolò nel brutto periodo dei «gruppuscoli» che fece seguito al riflusso delle lotte dure nelle fabbriche, ed andò a suggellare – consapevolmente o meno – il fatto che in quest'ultimo ambito le cose cominciassero a buttar male. Da qui, l'illusione di poter spostare a proprio piacimento il baricentro delle lotte, convincendosi che un simile spostamento costituirebbe un passo in avanti, se non una vittoria! Salvo che – piaccia o meno – il «baricentro» non lo si determina soggettivamente: è un fatto oggettivo, inerente la struttura del capitale.

Oggi, le cose appaiono paradossalmente rovesciate, nel senso che, per lo più, il limite non è stato ancora varcato: «il segreto laboratorio della produzione sulla cui soglia sta scritto no admittance except on business», rimane complessivamente poco toccato da agitazioni di qualche sorta. Un discorso a parte andrebbe fatto per il settore della logistica4, ma prendiamo atto di questo: né l'abolizione dell'Articolo 18, né l'approvazione del Jobs Act hanno suscitato un ampio e massivo movimento di rifiuto. Il senso stesso dell'opposizione all'Expo di Milano, ovvero ad un'auto-celebrazione della merce, risiede appunto in una critica della merce, cioè della sfera della circolazione – ciò che il May Day milanese, nelle sue «pratiche» di lotta (quantomeno quelle più appariscenti) è in effetti stato. Ma la critica della merce non è ipso facto una critica del capitale5.

Attenzione: non intendiamo qui fare una critica dei discorsi o delle pratiche che caratterizzano la mobilitazione No Expo sulla base di ciò che essa «dovrebbe essere», facendo riferimento ad una «giusta direzione strategica» o ad un qualsivoglia modello di «radicalità». Stiamo soltanto evidenziando un tratto caratteristico della fase attuale, tratto che peraltro mette in luce l'azzardo di paragoni – sostenuti a più riprese e da più parti – tra giornate come quella del May Day di quest'anno (o anche del 15 ottobre 2011 a Roma)e le rivolte di Genova (1960) o di Piazza Statuto (1962). No, nessuna nostalgia. Ma è pur vero che oggi esiste una divaricazione tra la «piazza» e i luoghi di lavoro (o, come si diceva una tempo: tra «la fabbrica e la società») che va compresa come un problema, e non certo celebrata. Salvo immaginare rivoluzioni da fantascienza compiute dallo studentame o, nel migliore dei casi, dall'esercito industriale di riserva, mentre l'esercito industriale attivo continua a farsi i fatti propri.

Per coloro che immaginano una sorta di «lunga marcia», fatta di tanti piccoli passi – per cui oggi siamo 1.000, domani saremo 1.010, tra un anno 2.000 e così via – c'è effettivamente di che disperarsi. Mai come oggi, nell'impossibilità strutturale e manifesta di un tragitto progressivo dalla lotte quotidiane alla rivoluzione, acquistano un senso nuovo le parole di Rosa Luxemburg all'indomani del ristabilimento dell'ordine a Berlino: «[...] la rivoluzione è l'unica forma di “guerra” – anche questa è una sua particolare legge di vita – in cui la vittoria finale possa essere preparata solo attraverso una serie di “sconfitte”» (Rosa Luxemburg, Scritti scelti, a cura di L. Amodio, Einaudi, Torino 1975, pp. 675-82). Parole che vanno meditate a fondo. Certo, i partigiani dell'apprendistato rivoluzionario attraverso le «piccole vittorie» – siano essi ex-stalinisti democratizzati o incappucciati spaccavetrine – potranno risponderci: ma come volete che cambino le cose, così, dall'oggi al domani? Tutto si fa gradualmente! Ci si prenda pure per pazzi: le porte del «segreto laboratorio» non si spalancheranno poco per volta: quando è un piede di porco a forzare la serratura, la porta non si apre dolcemente, ma di schianto.

Quanto all'«evento-Expo», a più di due settimane dall'inizio della kermesse, poco ci è dato di sapere sul volume degli ingressi.. Ad ogni modo, i 50 milioni di visitatori dell’Esposizione Universale di Parigi del 1900 (o di quella di Osaka del 1970) sono verosimilmente fuori portata. Ma, al di là di questo, è importante cogliere il cambiamento concernente la natura stessa dell'evento:

«Esposizione Universale del 1867: il padronato invita i delegati dei corpi di mestiere a farsi meravigliare dallo spettacolo delle macchine. Sulla scena, la magia meccanica propone l'immagine di un potere miracolato dai sortilegi della macchina a vapore: produrre velocemente,  a buon mercato e senza sforzo sarebbe ormai possibile. Il padronato – non senza malizia, come rimarcato dai delegati degli edili – desidera incantare gli operai: allo spettacolare delle macchine, essi contrappongono “l'esposizione permanente della miseria materiale e morale” degli operai. La festa del capitale che espone le “sue” macchine si iscrive sullo sfondo di una sconfitta operaia; la magia del progresso tecnico si risolve senza misteri negli effetti di un potere padronale le cui nuove forme di asservimento passano per la meccanizzazione. Di conseguenza, spettacolo di uno spossessamento: le macchine sono proprietà del padronato, nuovo avatar del capitale; la meccanizzazione della produzione dequalifica il lavoro attraverso la sua intensificata divisione e tende a privare i lavoratori della leva pratica per ottenere il diritto a disporre del prodotto del proprio lavoro.» (Jacques Rancière & Patrick Vauday, En allant à l'Expo, in «Les révoltes logiques», n. 1, inverno 1975, p. 8).

«Le esposizioni universali sono i centri di pellegrinaggio della merce feticcio. “L'Europa si è mobilitata per guardare delle merci” dice Taine nel 1855. Le esposizioni universali hanno avuto come precursori le esposizioni nazionali dell'industria, la prima delle quali ebbe luogo nel 1798 sul Campo di Marte. Essa nacque dal desiderio di “divertire le classi operaie e di divent[are] per loro una festa di emancipazione”. I lavoratori furono per essa una prima clientela. L'ambito dell'industria del divertimento non c'era ancora. Un tale quadro, fu la festa popolare a fornirlo. Il celebre discorso di Chaptal apre questa esposizione. I saintsimoniani, che progettano l'industrializzazione del pianeta, si impadroniscono dell'idea dell'esposizione universale. Chevalier, il primo specialista in questo ambito, è un discepolo di Enfantin, e redattore del giornale saint-simoniano Le Globe. I saintsimoniani hanno previsto lo sviluppo dell'industria mondiale; ma non hanno previsto la lotta di classe». (Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo. I “passages” di Parigi, a cura di Rolf Tiedmann, Einaudi, Torino 1982, p. 240).

Le Esposizioni Universali di cui parlano questi autori appartenevano ad un mondo in cui l'accesso della «classe pericolosa» al perimetro della polis moderna – e dunque l'accesso del movimento operaio allo Stato, del proletariato alle cabine elettorali della Repubblica democratica, del consumo operaio al ciclo del plusvalore relativo – non era ancora stato sancito. Oggi, Expo Milano 2015 corrisponde simbolicamente al processo esattamente inverso: all'espulsione dallo Stato di tutti i residui di stalinismo e di socialdemocrazia (da Rifondazione Comunista fino ad arrivare, oggi, perfino ai D'Alema e ai Bersani); alla riformulazione del voto operaio in termini di astensionismo e/o populismo; all'erosione sistematica del salario diretto e indiretto. E – quantomeno alla scala di una città: Milano – ne costituisce la ratifica. Per rendersene conto basti pensare alla sorte riservata ai tranvieri e ai macchinisti milanesi che alla metà del mese di maggio avevano indetto uno sciopero: precettati6. Siamo alla negazione aperta del diritto di sciopero in nome degli «interessi generali del paese», presuntivamente rappresentati da Expo. Per carità, non nutriamo illusioni rispetto ai «diritti», ma anche questo è un segno dei tempi.

L'Esposizione Universale parigina del 1900 fu il simbolo di quella Belle Époque tramutatasi di lì a poco nel massacro imperialista della Prima Guerra mondiale, quando nel giro di pochi mesi il sogno progressista del capitale (che includeva l'armonia fra capitale e lavoro) sprofondò nel fango delle trincee. Evocheremo solo di passaggio ciò che ne seguì – l'Ottobre russo (1917) e il Novembre tedesco (1918) – soltanto per sottolineare come, nello spazio di pochi anni, si possa passare per rovesciamenti successivi, dalla prosperità relativa alla guerra, e dalla guerra alla rivoluzione. Se finirà nella stessa maniera anche l'ultima (in ordine di tempo) delle Belle Époque, che va sotto il nome di «condizione post-moderna», non è dato sapere. Quel che è certo è che, come dicevamo più sopra, il sogno è nato già morto. Nelle forme e nei contenuti, l'Expo di oggi non conserva nulla di quell'opera di seduzione sociale che fu in passato. In materia economica e politico-giuridica, così come in ambito sociale e culturale, non si tratta oggi di cooptare la classe operaia, ma di fare in modo che essa non appaia. Che sia – come nel linguaggio delle pagelle calcistiche – N.P., non pervenuta. In una parola: invisibile.

Quanto alla gravità della situazione economica e sociale attuale, in Italia o in Europa, non bisogna lasciarsi ingannare: ci sono ancora margini per comprimere ed erodere ulteriormente salari e condizioni di lavoro e di vita. Non solo quelli degli operai meno qualificati, ma soprattutto quelli degli strati più «privilegiati» del lavoro salariato (nel settore pubblico, in particolare). Ma tali margini non sono infiniti; e a forza di comprimere, l'esplosione diverrà inevitabile. La violenza apparsa a Milano, la stessa che ha suscitato reazioni isteriche a destra e a manca – tanto fra coloro che, molto borghesemente, la esecrano come devastazione folle e incontrollata, quanto fra chi, incapace di vedere al di là del proprio naso, la celebra come «violenza insurrezionale» (!) – apparirà allora come un'azzuffata da bar. Come già mostrano in vitro i metodi utilizzati contro i lavoratori della logistica in lotta, la classe capitalista non va tanto per il sottile quando la si tocca nel vivo, foss'anche lievemente – ovvero quando si tocca la base del suo potere: l'impresa7 . E quando lo Stato mostra veramente i denti, è là che casca anche lo specialista della barricata. Chi pensa che i 30.000 morti della Comune, i cannoni di Bava-Beccaris, i Freikorps etc., siano cose d'altri tempi, avrà modo di ricredersi.

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Piccola antologia semiseria della letteratura
sul 1° Maggio milanese

La cognizione del dolore

«A proposito. Analisti e dietrologi se ne facciano una ragione. I cosiddetti “black bloc” non vengono da Marte, non si sono “infiltrati” nel corteo e non sono nemmeno al soldo della spectre. Ci sono, sono un problema e bisognerà tenerne conto. Erano nel corteo, dentro, nemmeno in fondo. Gli spezzoni della manifestazione hanno dovuto giocoforza tollerarli e cercare di tutelare il corteo da una reazione della polizia che a un certo punto sembrava scontata.»(Luca Fazio, Milano, i riot che asfaltano il movimento, in «Il Manifesto», 2-5-2015; qui e nelle citazioni seguenti i corsivi sono sempre nostri)

«Banalmente: questa stessa piazza, dieci anni fa, sarebbero state due. I cattivi dietro a prenderle, gli altri davanti con le loro buone ragioni. Gli “altri”, adesso, devono fare i conti con la realtà. D’ora in poi, come governare la piazza, ammesso che ci siano altre occasioni altrettanto importanti, diventerà un problema quasi insormontabile. Perché la giornata di ieri significa che nessuno a Milano, e anche altrove, ha più l’autorevolezza di poter decidere come si deve stare in un corteo.» (ibid.)

«Un’altra nota, non marginale. Quella di ieri, al netto di tutti i dispositivi di protezione che il corteo stesso ha messo in atto, era una piazza pericolosa. Eppure lì dentro hanno trovato posto ragazzini e ragazzine smarriti alla prima manifestazione, persone assolutamente non violente, decine di bande musicali che hanno continuato a suonare a festa. Si sono viste anche le solite vecchie volpi con la coda tra le gambe che non parlano più la stessa lingua delle piazze. Ma è come se inconsciamente ci si stesse abituando a considerare che ormai è nelle cose aspettarsi un conflitto sempre più aspro e con accenti disperati, senza obiettivi e tanto meno prospettive.» (ibid.)

 

Alla ricerca del tempo perduto

«Oltre all’Expo trionfalmente aperta, il primo maggio lascia dietro di sé l’immagine plastica di un movimento che, nonostante sia riuscito a mobilitare 30.000 persone per la Mayday, si scopre politicamente impotente. Alla fine è successo quello che tutti prevedevano, anche se molti avevano detto di volerlo evitare: la logica dell’evento si è imposta su quella del processo, della costruzione, dell’accumulazione e della condivisione di forza. [...] Ciò che è successo non può essere risolto grazie a un’estetica del riot che non riesce a coprire i limiti collettivi di progettualità politica, anche perché la definizione corrente di riot si avvicina sempre più pericolosamente a quella di una rivolta magari intensa, ma istantanea e destinata a essere riassorbita senza particolari problemi dall’oggettiva e dispotica supremazia militare e simbolica dello Stato. Se il riot esiste solo nel giorno in cui avviene, a cosa serve il riot?[...] Qui non si tratta di dividere i buoni dai cattivi e nemmeno gli arrabbiati dai pavidi. Qui si tratta di evidenziare, e in caso discutere, una specifica differenza di prospettiva politica. Qui si tratta di dire chiaramente che c’è chi pensa che sia necessario costruire quotidianamente connessioni dentro le lotte e le molteplici figure che in esse si esprimono, anziché replicare attivamente l’individualizzazione altrimenti imposta. Qui si tratta di stabilire collegamenti non tra la propria singolare quotidianità e il riot di un giorno, ma tra le molteplici e disomogenee singolarità che ogni giorno sono costrette dentro e contro il lavoro precario operaio e migrante.» (∫connessioni precarie, Questioni di prospettiva. Un giudizio politico su Expo, Mayday e dintorni, disponibile su internet)

 

Che tu sia per me il coltello

«[...] quello spezzone di corteo che oggi viene sintetizzato e banalizzato nella formula del “blocco nero” – che raccoglieva invece composizioni politiche e sociali anche molto differenti e stratificate –, piaccia o meno, era il più numeroso dell’intero corteo. A chi oggi pretenderebbe di negare questa evidenza, chiediamo di tornare con lo sguardo all’imbocco di via De Amicis dove si poteva osservare l’ingrossarsi delle file e lo sciamare di moltissimi giovani da altri punti del corteo in quello spezzone lì. [...] A partire da una premessa: quella rabbia, quella composizione, quei soggetti sono affare nostro e vogliamo averci a che fare, con tutte le difficoltà del caso. Chi se ne tira fuori – per calcolo, paura o presunta superiorità politico-morale – sta tracciando un solco tra gli alfabetizzati della politica e gli impoveriti ed arrabbiati che in alcune occasioni si presentano sulla scena. Istituisce una gerarchia di apartheid politico tra rappresentabili e non.» (Infoaut, Non a tutti piace Expo, disponibile in rete)

 

Candido, o dell'ottimismo

«Questo primo maggio milanese è stato una giornata scomoda. È scomoda per i rivoluzionari perché il dato centrale – quello della partecipazione, della determinazione, dell’organizzazione, dell’esistenza di una forza rivoluzionaria capace di mettere in atto il proprio rifiuto del divieto di prendersi il centro – viene messo in secondo piano dalla narrazione maggioritaria». (Autonomia Diffusa, 15 Tesi “partigiane” sul primo maggio, disponibile in rete)

 

I dolori del giovane Werther

«[...] questa “internazionale” di compagni e compagne che lottano quotidianamente sui territori, che si incontrano in giro per l’Europa e sulle barricate, vuole sbarazzarsi proprio di tutta questa melma politica.[...] E così, tutti quelli che erano in piazza a Milano, determinati ad abbellire un degradato arredo urbano e pronti a scontrarsi con la polizia (autonomi o anarchici che siano) dovrebbero aver capito di essere in questo momento l'unica forza reale, radicale e dirompente in questo paese di fascisti, infami, delatori e democristiani. [...] le relazioni, che in questa “internazionale” sono tutto, condensano anni e anni di lotte comuni. [...] La verità è che giornate così non possono essere capitalizzate politicamente, non esprimono la rabbia dei precari o della plebe (o come la si voglia chiamare), non esibiscono nessuna potenza, non producono e non vengono da un preciso soggetto politico. [...] E chi ci verrà a parlare dei motivi della protesta contro expo diciamo solo una cosa: a noi di expo ce ne frega poco o niente. [...] Il corteo noexpo era un’occasione, domani sarà un'altra». (Anonimo, Un po' di possibile, altrimenti soffochiamo..., disponibile in rete).

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Note
1 https://thenextrecession.wordpress.com/2014/12/30/predictions-for-2015/
2 I cicli maggiori o «onde lunghe» sono, secondo la teoria dell'economista russo Nikolaj Kondrat'ev, cicli economici della durata di 50-60 anni, caratterizzati da una fase ascendente ed una discendente. Una corretta integrazione dei cicli di Kondrat'ev alla teoria marxiana dell'accumulazione è reperibile, fra gli altri, in un intervento di Lev Trotsky, intitolato La curva dello sviluppo capitalistico (e disponibile in rete) che nulla ha a che vedere con la successiva e sciocca teoria della «decadenza del capitalismo». La teoria della decadenza è oggi ripresa qua e là – per lo più a loro insaputa – da diversi anticapitalisti, secondo i quali il ristagno delle forze produttive sarebbe cominciato negli anni '70 del secolo scorso (anziché nel 1914 o nel 1929). Con tutta evidenza, il fatto di spostare il cursore sulla linea del tempo non cambia la sostanza di una teoria sciagurata: finché il capitale esiste, ovvero finché c'è accumulazione (anche minima) ossia riproduzione allargata, le forze produttive non «ristagnano» mai.
3 Rispetto a Syriza e Podemos, è quanto meno enigmatico che questo tipo di riformismo prenda piede proprio nei paesi europei dove la crisi è più avvertita, e dove in effetti i margini di manovra per non meglio identificate «riforme» sono anche i più risicati. Detto a chiarelettere, la questione è di sapere se Syriza e Podemos hanno potuto effettivamente «capitalizzare» le lotte in Grecia e in Spagna, o se il loro successo si è fondato sull'esaurimento di quelle stesse lotte. Posto che non possiamo, per ora, fornire una risposta precisa a questo interrogativo, è essenziale comprendere e affermare che le analisi che vogliono spiegare tutto in termini di «illusioni» o di « recupero», in realtà non spiegano nulla.
4 Cfr. l'opuscolo Anzola è il mondo?, disponibile sul nostro blog.
5 Lo stesso vale per la speculazione edilizia e per la ristrutturazione dei quartieri proletari. La cosiddetta gentrification – fenomeno vecchio quanto il capitalismo stesso (cfr. gli articoli su La questione delle abitazioni di Engels) – si iscrive nella dinamica della rendita fondiaria in contesto urbano. Marx ha definito il rapporto d'esplicazione tra capitale e rendita fondiarianell'Introduzione del 1857 a “Per la critica dell'economia politica”, affermando a chiare lettere: «La rendita fondiaria non può essere intesa senza il capitale, ma il capitale può ben essere inteso senza la rendita fondiaria. Il capitale è la potenza economica della società borghese che domina tutto. Esso deve costituire il punto di partenza così come il punto di arrivo, e deve essere trattato prima della proprietà fondiaria.» (Karl Marx, Il Capitale, vol. II: Appendici al Primo Libro, Einaudi, Torino 1975).
6 http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/15_maggio_15/sciopero-trasporti-blocco-830-no milano-macchinisti-precettati-83928cbe-fac7-11e4-92e0-2199ef8c8ae2.shtml
7 Naturalmente, anche i negozi (più o meno di lusso) dei centri cittadini sono imprese, ma si situano al livello della circolazione del plusvalore. Per quanto sia essenziale al processo di riproduzione complessiva del capitale (giacché il plusvalore prodotto deve pur essere realizzato tramite la vendita), rimane che la sfera della circolazione non è la sorgente da cui il plusvalore sgorga. Non è qui che il meccanismo può essere inceppato.

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