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Forza e violenza: nodo del conflitto sociale

di Giovanna Cracco

“Si dura una gran fatica per comprendere la violenza proletaria quando si cerca di ragionare secondo le idee che la filosofia borghese ha diffuso nel mondo; secondo questa filosofia, la violenza sarebbe un residuo della barbarie e sarebbe destinata a scomparire con la progressiva influenza dei lumi.” George Sorel, Riflessioni sulla violenza

violenzacraccoRileggere oggi Riflessioni sulla violenza di Sorel, pubblicato nel 1908, è un buon esercizio intellettuale. Aiuta a tenere vigile la capacità critica, che il canto delle sirene della retorica democratica, della civile società pacificata, pone continuamente sotto minaccia di assopimento. Il testo colpisce per l’attualità di alcune analisi, accanto a considerazioni oggi decisamente fuori tempo.

Sorel – che può essere inscritto nel filone del ‘sindacalismo rivoluzionario’ – individuava nel mito dello sciopero generale l’unicaleva in grado di innescare una rivoluzione socialista, che avrebbe abbattuto lo Stato democratico borghese e creato i presupposti per la nascita di una nuova società. Non si poneva il problema della progettualità politica della futura società, solo di abbattere quella esistente; ciò che sarebbe venuto dopo, si sarebbe immaginato dopo.

Considerava la via parlamentare, intrapresa dai socialisti progressisti, una presa in giro: un bieco opportunismo da politicante, un “pantano democratico”, il vicolo cieco che avrebbe portato il socialismo alla morte. I “socialisti cosiddetti rivoluzionari del Parlamento” si erano venduti alla filosofia borghese, divenendo sostenitori del sistema capitalistico. Da qui, la necessità di una netta separazione tra le classi sociali, per mantenere l’autonomia culturale e politica della classe subalterna e contrastare l’imborghesimento che già si affacciava anche tra i lavoratori.

Dietro il riformismo, dietro “le persone per bene, i democratici devoti alla causa dei Diritti dell’Uomo”(1), dietro i “fabbricanti di pace sociale”, Sorel individuava l’uso strumentale degli astratti valori dell’Illuminismo – imposti culturalmente agli operai per impedire loro di ribellarsi con la violenza allo sfruttamento – divenuti sovrastruttura di quello che oggi definiremmo pensiero unico: la falsa contrapposizione parlamentare destra/sinistra che tiene in piedi il sistema capitalistico. Di questo gioco delle parti, lo Stato borghese democratico si faceva garante, dun-que non era, per sua natura, riformabile; occorreva abbatterlo. E non c’era altra via che l’uso della violenza.

Sorel si rifiuta di porre il tema sul piano morale; ne fa una questione di prassi. O meglio: il problema è politico. Per Sorel infatti la morale non è quella del singolo individuo ma quella di una società. Dunque:

“Non si tratta qui di giustificare i violenti, ma di sapere quale è nel socialismo contemporaneo il compito della violenza delle masse operaie. […] Non bisogna esaminare gli effetti della violenza partendo dai risultati immediati che essa può produrre, ma dalle sue conseguenze lontane. Non bisogna chiedersi se essa possa recare agli operai di oggi più o meno vantaggi immediati di quanti ne comporterebbe una accorta diplomazia, ma chiedersi quale è il risultato della introduzione della violenza nei rapporti tra il proletariato e la società”.

Si tratta anche della distinzione tra ‘forza’ e ‘violenza’:

“I termini forza e violenza vengono adoperati allo stesso modo sia per le azioni delle autorità che per quelle dei rivoltosi.È chiaro che i due casi danno luogo a conseguenze ben diverse. Io sono del parere che sarebbe tanto di guadagnato adottare una terminologia che non desse luogo a nessuna ambiguità, e che bisognerebbe riservare il termine violenza per la seconda accezione; diremo dunque che la forza ha per oggetto di imporre la organizzazione di un certo ordine sociale nel quale governa una minoranza, mentre la violenza tende alla distruzione di questo ordine. La borghesia ha fat-to uso della forza sino agli inizi dei tempi moderni, mentre il proletariato reagisce adesso con la violenza contro di essa e contro lo Stato”.

La violenza quindi, praticata all’interno degli scioperi, esercitata fuori dal controllo “di chi per professione fa della politica parlamentare”, radicalizza la lotta di classe – che i riformisti tendono invece a epurare del concetto di violenza – e riporta nella società quel conflitto necessario ad abbatterla.

Il primo maggio scorso, a Milano, sono scese in piazza entrambe le posizioni politiche: quella riformista, convinta che le cose possano essere cambiate per via democratica, parlamentare e pacifica, e quella che non lo ritiene possibile, e utilizza la violenza per opporsi all’attuale sistema politico ed economico. Le due prassi si sono plasticamente confrontate non tanto nel corteo del Mayday No Expo – dove hanno certamente condiviso spazio e temporalità, essendo entrambe presenti – quanto nell’inaugurazione dell’Expo inscenata la mattina dal centro sociale Sos Fornace presso i tornelli di ingresso dell’Esposizione, e la violenza messa in atto nel pomeriggio dai black bloc durante la manifestazione.

La prima ha utilizzato il registro del sarcasmo per comunicare e denunciare la precarietà, lo sfruttamento, la corruzione e il malaffare che hanno costruito e tuttora sostengono Expo. Un piccolo gruppo di una trentina di attivisti, a viso scoperto, travestiti da hostess e lavoratori volontari di Expo, ha messo in piedi una scenetta di dieci minuti con tanto di taglio del nastro, coriandoli e stelle filanti, e megafono alla mano ha espresso la propria opinione politica:

“Oggi, 1° maggio 2015, all’apertura dei cancelli di Expo, i precari della metropoli danno il benvenuto alla grande Esposizione Universale […] entrando nel grande sito di Expo 2015 potrete osservare da vicino la biodiversità precaria, straordinari esempi di precarie e precari di varie specie e affascinanti caratteristiche: si comincia da 340 apprendisti fino a 29 anni, 195 stagisti con un semplice rimborso spese e tirocinanti non pagati” (2).

La Fornace, centro sociale di Rho, è una delle realtà più attive tra le diverse che hanno cercato di contrastare l’organizzazione di Expo fin dalla candidatura di Milano del 2006, con manifestazioni, dibattiti, cercando di creare una rete con il territorio, di informare e coinvolgere i cittadini, di confrontarsi con le istituzioni.

La seconda prassi, quella dei black bloc, si è espressa per le strade di Milano, a volto coperto: ha distrutto vetrine, dato fuoco ad alcune auto e cercato di sfondare i blocchi della polizia posti lungo il percorso della manifestazione. Se analizziamo il corteo dal punto di vista dei suoi spezzoni – i centri sociali, i comitati, le organizzazioni, le associazioni – è indubbio che quello dei black bloc era tra i più numerosi: a occhio e croce, tra 800 e 1.000 persone (su 30.000 totali, secondo le stime ufficiali). Compatte, organizzate e determinate.

Non è facile analizzare la galassia internazionale black bloc: non comunica, e ancora meno dialoga, con i cittadini e le istituzioni; si pone in posizione altra rispetto alla società, operando una separazione netta. Non esiste un manifesto politico né portavoce o referenti; i militanti proteggono il proprio anonimato (posizione comprensibile, dato che compiono atti illegali a termini di legge) ed è nota la loro avversione per la stampa (difficile dargli torto, visto il livello di collusione/servilismo dell’informazione ufficiale con il potere politico ed economico). Gli unici documenti pubblici sono interviste rilasciate da alcuni attivisti, sotto anonimato, che parlano a titolo personale.

Mettendole insieme, si può tentare di fare una sintesi del pensiero politico: il black bloc non è un movimento né una organizzazione, è una prassi, un metodo di lotta che si caratterizza per l’utilizzo della violenza durante le proteste a carattere internazionale (contro la Bce, il Fmi, la Bm, il Wto, il G8 ecc.); non esiste quindi una struttura, né alcuna gerarchia, non ci sono riunioni di vertice; è la riconoscibilità della pratica politica, l’uso della violenza, che li aggrega e li rende compatti; l’ideologia sottostante la prassi è quella no global e anticapitalista; la violenza va esercitata solo sulle cose, non sulle persone – anche lo scontro con le forze dell’ordine va evitato, quando possibile – ed è una violenza mirata contro le sedi delle multinazionali, delle banche, e in generale contro i simboli del capitalismo globale; il fine è abbattere il sistema, politico ed economico, giudicato non riformabile, e non esiste un progetto sul tipo di società da costruire dopo; l’obiettivo è il piano simbolico: i black bloc sanno bene che mandare in pezzi anche cento vetrine, anche dieci volte l’anno (ragionando per eccesso), non mette in crisi il sistema: è il campo dell’immaginario che vogliono incrinare, quello del brand, della globalizzazione; infine, l’uso sistematico della violenza mira a riportare all’interno della società la pratica conflittuale come fenomeno diffuso e allargato – la logica non è dun-que quella dell’avanguardia dei gruppi armati degli anni Settanta (i black bloc non sono armati e non vogliono entrare in clandestinità). Si può quindi dire, ma questa è una conclusione di chi scrive, che mirano a innescare una rivoluzione.

Anche se vi sono evidenti similitudini con il pensiero di Sorel, non si intende qui fare un parallelismo – improponibile per ragioni politiche, economiche, sociali, ideologiche – tra i black bloc e il sindacalismo rivoluzionario dei primi del Novecento – sconfitto, tra l’altro, dalla storia: la rivoluzione socialista non c’è stata, e ancora meno la dinamica dello sciopero generale l’ha mai innescata. Il richiamo a Sorel vuole solo essere funzionale a mostrare quanto la stigmatizzazione della violenza politica – senza se e senza ma, recita oggi il conformismo benpensante – impedisca di fare analisi articolate.

Dopo ogni azione dei black bloc si assiste alla corsa alla condanna della pratica violenta, sia da parte dei divulgatori del pensiero unico – ed è comprensibile quanto scontato – che del mondo ‘antagonista’ – ed è già meno comprensibile. L’ideologia pacifista – che fatica a fermare il pensiero sul concetto di violenza, al punto da non riuscire a operare una differenza fra quella sulle cose e quella sulle persone, né a chiedersi se, per tornare a Sorel, sia più violenta la forza dello Stato, con le sue pratiche neoliberiste, o la violenza dei black bloc – attiva automaticamente una serie di dispositivi delegittimanti per non riconoscere una soggettività politica alla realtà black bloc: sono poliziotti travestiti, sono infiltrati dalle forze dell’ordine, sono manovrati dai servizi segreti, sono d’accordo con i servizi segreti. Sono uno strumento – è la valutazione conseguente – più o meno consapevole del potere, che li utilizza per giustificare la repressione di un movimento politico di opposizione pacifico e democratico; e per silenziarlo, perché la violenza cancella le motivazioni della protesta, e dalla sera stessa sui media si discute solo degli atti vandalici e non delle ragioni per cui migliaia di persone sono scese in piazza.

Se non sono tutto questo, sono nulla più che teppisti delinquenti.

Tentativi di infiltrazione sono facilmente ipotizzabili – è una consueta pratica del potere per cercare di gestire le opposizioni sociali – così come non è da escludere la presenza di persone apolitiche, semplicemente frustrate e disadattate (come ci si può adattare a questa società?); che poi durante la fase della violenza, ci rimetta anche la vetrina di una pasticceria, o qualche auto, fa parte della dinamica della rabbia che esplode. Ma tutto questo non significa che il black bloc non sia un soggetto politico.

Il punto è che riconoscerlo come tale, significa doversi confrontare; il pensiero unico non intende farlo, quindi è ovvia la manovra di delegittimazione; ma che abbia lo stesso atteggiamento quella sinistra sociale che si oppone alle politiche neoliberiste, è avvilente.

Se il ‘movimento politico di opposizione pacifico e democratico’ volesse fare un’analisi articolata, dovrebbe essere drammaticamente più onesto con se stesso: che cosa ha ottenuto fino a ora? Nulla. L’Expo è qui, a macinare utili per le multinazionali sulle spalle di lavoratori precari, volontari, sfruttati, privi di diritti e tutele, dopo aver ingrassato mafie e pratiche corruttive; anni di proteste pacifiche non hanno scalfito la globalizzazione, le politiche neoliberiste, l’attacco al mondo del lavoro. L’approccio dialogante con le istituzioni e il tentativo di coinvolgere i cittadini non hanno portato alcun cambiamento. La scenetta organizzata dalla Fornace, così come la manifestazione del pomeriggio (la parte allegra, colorata, musicale, piena di striscioni), si sono svolte nella più totale indifferenza del potere politico ed economico. E non perché l’attenzione si sia focalizzata sulla violenza dei black bloc. Siamo onesti: senza quella, i telegiornali avrebbero dedicato trenta secondi alla manifestazione, e i quotidiani un articoletto nelle pagine interne.

Anche la prassi dei black bloc, in questi anni, ha ottenuto nulla.

Dunque entrambe, la via riformista e quella violenta, così come fino a oggi sono state praticate, non hanno raggiunto risultati concreti.

Occorre dunque riflettere. E come primo passo, ricostruire un’autonomia culturale. Operare una cesura, diventare altro, decolonizzare l’immaginario e il pensiero dalla filosofia dei ‘fabbricanti di pace sociale’, e ricominciare a ragionare sul concetto di conflitto. Quando, sul piano teorico, siamo tutti concordi sul fatto che la dignità di una persona vale più della dignità della vetrina di una banca, che cosa significa? In che cosa si trasforma, sulpiano concreto? È dignitoso lavorare per 800 euro al mese, quando l’affitto di un monolocale di 27 metri quadri a Milano ne costa 500? Che cosa è violenza? Cosa significa morale?E legittimo?E legale?

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Note
1) Corsivo nel testo. Se non diversamente indicato, in tutto l’articolo i corsivi inseriti nellecitazioni da Sorel sono contenuti nel testo originale: G. Sorel, Scritti politici. Riflessioni sullaviolenza, Le illusioni del progresso, La decomposizione del marxismo, Utet.
2) Per il testo completo: Expo 2015. SOS Fornace contesta l’inaugurazione, www.rivista paginauno.it
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