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Violenza/non-violenza

di Elisabetta Teghil

E' in atto una semplificazione, voluta e fuorviante, dei termini violenza e non-violenza che sono diventati meta-concetti, privi di specificazione e collocazione.

Ai fini di queste note conviene dare una definizione stretta  di violenza.

Si intende per violenza l'atto o l'insieme di atti con cui un soggetto privato, sociale, istituzionale interviene nella possibilità di un altro soggetto, anche questo privato, sociale, politico, impedendogli un comportamento spontaneamente realizzabile ed imponendogli un ruolo ed una collocazione.

Dalla definizione di violenza nasce la correlazione tra la stessa e la forza che permette alla prima di realizzarsi.

 
In questa società la legittimità dei mezzi garantisce la giustezza dei fini.

La legalità è legittimità riconosciuta, la violenza legale è, pertanto, l'unica violenza legittima.


La violenza legale, oggi, è così diffusa e permea la società così tanto che non si può ricorrere ad un’ analisi che la legga  come un'inevitabile anomalia che appare ogni tanto in un corpo socialmente sano.

Questa violenza, così generalizzata, così insistente, ci parla del male che affligge la nostra società. Così il discorso sulla violenza finisce col mostrare la verità dell'attuale condizione umana, il vero volto di una società che produce oppressi/e e ingiustizie.

La violenza è, sì, frutto delle lacerazioni che rendono insopportabile la vita quotidiana da parte di milioni di oppressi/e di fronte alla ricchezza spropositata e separata delle cose, è ,sì, figlia del divario tra la miseria soggettiva e la ricchezza oggettiva, ma nasce  dalla volontà di una minoranza di perpetuare questo stato di cose.



Infatti, la violenza viene praticata in e nei confronti di un'area sociale che non coincide con quella dei detentori del potere. E lo sforzo è tutto teso affinché questo uso della forza e i relativi comportamenti violenti siano accettati e interiorizzati nel costume dei più.

 
Le elaborazioni teoriche e le campagne mediatiche sul non uso della violenza hanno come obiettivo, esclusivamente, i destinatari della violenza stessa. E chi le fa è consapevole dei rapporti di forza e di chi esercita la violenza in regime di monopolio. Quando, in maniera occasionale, gli oppressi/e la manifestano, vanno incontro a conseguenze molto severe senza intaccare minimamente l'ordine costituito.

Allora si capisce che il vero destinatario di queste martellanti campagne contro la violenza  non è il/la manifestante, ma sono le azioni e quanto queste sono testimonianza .

Quello che il dominio vuole sconfitto e rimosso è la semplice esistenza di tutto ciò che suscita l'ammirazione degli oppressi che vivono un sentimento comune: l'avversione nei confronti della legalità, causa e garante della loro oppressione.

Nella sua impudenza non vuole la sconfitta delle rivolte, che dà per scontata, dati i rapporti di forza, ma pretende addirittura che non si faccia il "tifo" per le stesse.

E' questo il ruolo, nella divisione capitalista del lavoro, delle missionarie e dei missionari della non-violenza.

Pertanto, l'intelligenza cede all'interesse e spesso, questo, è inconfessabile e pertanto meschino e vile.

Noi viviamo in questa stagione dove l'interesse di una minoranza si impone in una logica di guerra nei confronti delle/dei più, minoranza  che pretende di schierare dietro le sue bandiere mortifere tutte/i quelle/i che si prestano a portare un contributo alla sua causa, dando loro in cambio premi e promozioni sociali. E che sia una guerra non lo dicono solo le cifre della repressione, ma il fatto che vogliano la resa senza condizioni degli oppressi/e.

Questo è il senso del neoliberismo e non vogliono neanche fare prigioniere/i. Infatti, non tollerano neanche il silenzio.

L'iper-borghesia ha dichiarato guerra ai cittadini e alle cittadine di questo paese e ai popoli tutti e, come quando si va in guerra, ha chiamato alla mobilitazione. Questo è il senso del perché alcune/i si prestino a confondere l'aggredito con l'aggressore, l'oppresso con l'oppressore,  e a fare l'equazione non omologate/i uguale violente/i che è indirizzata a chi si ribella, ma i veri destinatari sono gli oppresse/i tutte/i.

I teorici della non violenza il nemico lo generano all’interno degli oppressi e secernono ogni sorta di metastasi disumana, dove la non violenza diventa la violenza di un sistema che perseguita ogni forma di singolarità, che vieta il conflitto, che lavora per instaurare un mondo che omette ogni differente ordine del corpo, del sesso, della nascita, della morte.

E’ una violenza virale che tende a distruggere, a poco a poco, tutte le nostre immunità e le nostre capacità di resistenza.

La religione della non violenza è una potenza globale, non meno integralista di quella religiosa, tutte le forme diverse e singolari sono eresie e, quindi, volenti o nolenti destinate a scomparire.

L’obiettivo è colonizzare ogni zona refrattaria e addomesticare tutti gli spazi selvaggi sia sul piano geografico che politico che nell’universo mentale.

E’ una cultura dalle forme sacrificali che affronta l’altro come l’ ”infedele” da convertire o eliminare. Pertanto, chi porta avanti la conflittualità sociale, comunque si manifesti, al di fuori del rito della messa, è male oggettivo, e, pertanto, va scomunicato ed estirpato.

L’etichetta di violenza politica non è altro che uno strumento per delegittimare segmenti della società e movimenti e le loro rivendicazioni.

Attraverso la riformulazione interessata del tema violenza/non-violenza si rimuovono le cause di fondo della effettiva povertà economica, culturale e politica in cui, oggi, versano la quasi totalità dei cittadini/e, logorati/e politicamente e socialmente da decenni di riforme neoliberiste, suscitando, al loro interno, artificialmente, linee di frattura che rendono ancora più ardua la conquista collettiva di un futuro migliore.

Paradossalmente, il richiamo a prescindere alla non violenza e la condanna, comunque, della violenza, contribuiscono ,da una parte, all’abolizione di tutte le leggi, tranne quella del più forte, e, dall’altra, distruggono i simboli che sono dell’essere umano nel suo percorso sociale, in particolare quelli legati alla lotta di classe e alle lotte di liberazione.


Il neoliberismo tende a distruggere le istanze collettive costruite da lungo tempo, sindacati, forme politiche, cultura… e, pertanto, non può lasciare intatto l’individuo- soggetto. Queste erano in rapporto con la violenza/non violenza, anche se con una modalità di disparità delle forze. Quasi sempre la violenza la subivano, alcune volte la esercitavano, in un rapporto dialettico. Questo perché la storia dell’essere umano è la storia del soggetto subjectus. La storia è un susseguirsi di sottomissioni e, nel corso dei secoli, sono stati messi a punto testi e grammatiche culturali e repressive, ma, contemporaneamente, l’eretico, da hereo, colui che sceglie, ha sempre tentato la fuga.

La teoria della non violenza tout court è la declinazione della teoria della fine della storia.


Come la teoria della fine della storia, l’enfasi posta oggi sulla non violenza, da contrapporre alla violenza politica, è il segno dell’attuale neo analfabetismo, introdotto dal neoliberismo, che taglia la trasmissione generazionale e esercita la “damnatio memoriae” nei confronti della storia dell’essere umano.

Questo fenomeno è legato alla trasformazione della condizione del soggetto nelle democrazie di mercato. Come il neoliberismo sta all’economia, la non violenza sta alla cultura politica . L’essere , quale che sia, non ha mai cessato di incardinarsi nella storia umana e pertanto nella lotta di classe. E’ questa costruzione storico politica, questa ontologia che è l’obiettivo della teoria della non-violenza.

Lo scopo è la destituzione del soggetto. Da qui il moltiplicarsi nella società delle tecniche per agire su di sé, vere e proprie protesi identitarie. Questo è il senso dell’apparente stato di libertà promosso dal neoliberismo che omette che non esiste libertà senza liberazione. Il risultato è che la stessa psiche umana è disturbata, sconvolta. Si moltiplicano le depressioni, i disturbi dell’identità, i suicidi. Al mercato non interessa l’essere umano in quanto tale e non ha remore di nessun tipo, neanche culturali e ambientali, nei confronti di qualsiasi cosa che possa ostacolare la sua autoespansione. Non esiste niente al di fuori della merce e del suo puro e semplice valore mercantile.

Gli esseri umani devono sbarazzarsi di tutto quello di più culturale e simbolico che un tempo garantiva i loro rapporti: sono spinti a godere senza desiderare, la sola salvezza possibile si trova nelle merci. Distrutte tutte le connotazioni identitarie, non “esisterebbero” classi, generi, etnie, oppressi e oppressori.

E’ chiaro, allora, che la teoria della non-violenza si risolve in una riconfigurazione di elementi e nella soppressione dei simboli e delle modalità con cui il soggetto si esprime. Di mira non è più solo il corpo da assoggettare, ma anche la mente.


La base di ogni dominio è il desiderio di questo dell’assenza di una controparte.

E’ questo il senso dell’ossessione delle manifestazioni non violente per cui si dà per scontato che non si otterrà mai niente, ma, soprattutto, ed è l’aspetto più grave, che se si dovesse ottenere qualche cosa è un dono unilaterale e, in definitiva, un atto di potere.

E’ l’ ”impero del bene”, la “violenza del bene” che sta, per l’appunto, in questo dare unilaterale occupando la posizione di dio o del padrone che fa salva la vita dello schiavo in cambio del suo lavoro.

Qui entra in gioco la teoria della non-violenza che deve rimuovere concettualmente l’ipotesi di una reazione violenta a questa vita in cattività. A questa esistenza protetta e avvilita.

A noi è riservato il destino che il Grande Inquisitore prevedeva per le masse addomesticate.

Il neoliberismo è un’ideologia e, pertanto, metabolismo sociale e entra in ogni anfratto ed interstizio della vita della gente e, al di là delle ingiustizie e della violenza è connotato di una sua assurdità e di una mancanza di senso nel voler rimuovere gli sforzi concomitanti per sfuggire a questa realtà che è il verdetto di condanna che ha pronunciato su se stesso.


La teoria della non-violenza è una modalità del marketing, un vero e proprio strumento di controllo sociale e come il marketing non ha la funzione di liberare il tempo individuale, ma ,al contrario, di controllarlo per massificarlo al massimo, così la non-violenza è lo strumento di una nuova servitù volontaria.

Tutto questo è una minaccia alle capacità, intellettuali, affettive ed estetiche dell’umanità.


L’attività politica , così come l’istruzione, la cultura, la salute, non diversamente dai detersivi e dai profumi, deve diventare consumabile L’umanità è trasformata in gregge, afflitta dal male di esistere e dal male di divenire, cioè dalla mancanza di un futuro.

Con un’operazione chirurgica si rimuove il principio che l’individuo sia un processo in quanto non cessa mai di divenire. Alla base c’è l’idea errata che l’individuo sia contrapposto al gruppo, dimenticando che il capitalismo poggia sul controllo simultaneo della produzione e del consumo e, a ricaduta, su tutte le attività sociali umane.

Questa miseria simbolica si traduce in miseria politica ed è questo il senso della teoria della non-violenza e di tutte le elaborazioni teoriche socialdemocratiche.


E’ ossessivo il ricordare che la rivoluzione riposa nel cimitero della storia, ma questo continuo ritorno sul tema , sia pure per sottolinearne l’inattuabilità, conferma come sia un tarlo ed un fantasma per la borghesia. Ma, nonostante la repressione, le guerre neocoloniali, le campagne mediatiche ed accademiche e, perché no, gli scongiuri, l’immensa speranza che un giorno tutto possa cambiare non è venuta meno. Questo filo conduttore che si dipana attraverso i secoli e i continenti non è stato mai tagliato.

Movimento operaio, liberazioni nazionali, liberazione delle donne e di tutti gli oppressi….. c’è un nuovo capitolo che attende di essere scritto.

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