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"Coscienza illusoria di sè"*

di Elisabetta Teghil

Uno dei nodi del nostro impegno come femministe è lo scardinamento dei ruoli.

Lottare solo contro l’ideologia, la mentalità, la cultura patriarcale senza mettere in discussione i meccanismi che la producono, è insufficiente se non fuorviante.

Non trasformando i rapporti di produzione capitalistici iscritti nei processi di lavoro, questi riproducono continuamente tutti i ruoli della divisione sociale capitalistica, tutti i ruoli degli apparati politici e ideologici patriarcali.

Disoccupazione, inquinamento, controllo, lavoro sempre più monotono ,noioso, sempre più disumano…….. qualsiasi condizione, situazione, fisica, mentale, affettiva….. trasformata in occasione di profitto, è qui il carattere propriamente tragico degli anni che viviamo.

Ma, questa condizione non si realizza a partire dall’automatismo in sé, non dipende dalle nostre possibilità o capacità, ma ha le radici dentro le condizioni sociali cioè nella natura della società e può essere dissolta soltanto dalla prassi consapevole di soggetti che intendono liberarsi.

Pertanto, la liberazione di noi tutte non è un programma per il futuro ma l’inventario del presente, l’insieme delle potenzialità incorporate nel sapere sociale.


Nell’inventario del presente bisogna scrivere la possibilità di una grande trasformazione nei rapporti di produzione e di scambio fra gli esseri umani e, questo, a dispetto di tutte le culture che danno per scontata ed inevitabile questa società, sia che lo facciano per interesse, sia che lo facciano per ignoranza, perché l’uno e l’altra non comportano innocenza.

Infatti, hanno ripudiato, oltre il materialismo storico e quello dialettico, anche la lotta di classe che è diventata monopolio dell’iper-borghesia e sono approdate al “liberalismo umanitario” che è una spietata apologia del darwinismo politico-sociale e, attraverso questo, santificano lo stato delle cose presenti.

Passando attraverso la criminalizzazione e la demonizzazione delle parole.

Una generazione, per anni, si è riconosciuta chiamandosi compagna e la parola suggellava un patto di appartenenza e solidarietà, qualche cosa ben oltre i gruppi politici e i loro programmi, qualcosa di difficilmente verbalizzabile proprio per la ricchezza della sua estensibilità.

Compagna e femminista, ancor ieri provocavano vibrazioni che penetravano fin dentro gli abissi del disagio e della solitudine che pure c’erano anche allora.

Ma, se sono le parole che fanno le cose, disfare quelle parole che sono, allo stesso tempo, categorie di rappresentazione e strumenti di mobilitazione, ha contribuito alla smobilitazione di quello che, un tempo, si chiamava femminismo.

Il potere è la guerra. La guerra, continuata con altri mezzi, è iscrivere e riscrivere le disuguaglianze economiche, etniche e di genere fin nei corpi e, da qui, la gravità di quelle che si sono arruolate nelle Istituzioni che, di questa guerra fatta alle più, sono l’esercito.

Da qui lo sdoganamento della violenza che pervade tutta la società , la recrudescenza del femminicidio in una società patriarcale che ha legittimato il razzismo da parte di chi si ritiene superiore ad un altro /a.

E’ la banalizzazione della morte, l’introduzione della pena di morte extra-legem, la distruzione di tutti gli equilibri di cui si facevano forti piccola e media borghesia, lavoratrici e lavoratori cognitivi e liberi professionisti.

E’ in questo contesto che si assiste alla riproduzione amico/a-nemico/a, costruita artificialmente attraverso il richiamo ad un gruppo sociale, di volta in volta criminalizzato, che permetta di veicolare il concetto che siamo in guerra.

E, quando si è in guerra, si usa l’esercito e il fine giustifica i mezzi.

Ma, nessuna società può tollerare questo deprezzamento del valore della vita. Il valore della vita non solo si è deprezzato, è praticamente nullo.

E’ una società in corto circuito e la pretesa avallata e ripetuta come un “mantra” dalla socialdemocrazia, che da questa società non si può uscire e non si può cambiare, non le permette di sopravvivere se non al prezzo della repressione, della forza, del sangue.

Ed è per questo che lo Stato è in guerra contro le cittadine e i cittadini e chiama continuamente alla mobilitazione ed è disposto a cooptare chi si presta a concorrere all’oppressione delle/dei più.

Si delinea, così, uno Stato che colonizza il territorio e, amministrativamente, la vita privata, l’esperienza individuale e collettiva.

Il neoliberismo non riguarda più la conquista al mercato di tutti i territori e la riduzione a merce di tutto, ma, nella sua necessità autoespansiva, vuole impossessarsi anche degli aspetti più propriamente privati (soggettivazione-sessuazione).

Il neoliberismo fagocita nell’universo mercantile tutto, il lavoro, la natura, la sostanza vivente e, pertanto, anche l’immaginario e la mente.

La donna merce è donna incarcerata tra sbarre di segni ideologici e culturali della società patriarcale e borghese, è donna che inizia ad essere programmata sin dalla nascita, facendosi riproduttrice di merce e, quindi, anche di se stessa come merce.

Ogni donna realizza, inconsapevolmente, un programma che in lei è stato introdotto.

La sua “normalità” è così il dramma sociale dell’esecuzione automatica, inconscia , della propria programmazione fabbricata per lei dal capitale, espressione attuale del patriarcato.

La donna merce è senza “coscienza per sé”, è coscienza del capitale che opera per il suo tramite. Dominio reale del capitale significa assoggettamento della coscienza individuale delle donne ai programmi di comportamento patriarcali, è il trionfo della “coscienza illusoria di sé”, una catena che va spezzata e si può spezzare solo ponendo le proprie pratiche sociali in rapporto antagonistico con l’intera società borghese patriarcale.

Il capitalismo è metabolismo sociale e investe tutti i rapporti sociali e, pertanto, l’alienazione della coscienza sociale individuale è generale e la si recupera con la rimozione di quei rapporti sociali di produzione che l’hanno generata.

Pertanto il movimento espansivo della materia sociale è, necessariamente, connesso ad un processo sociale di accumulazione di informazione extragenetica con ciò intendendo tutta quell’informazione non riferita all’essere umano, come creatura biologica, e, cioè, non trasmessa con il patrimonio genetico/cromosomico.

L’accumulazione di informazioni è un processo essenziale e costitutivo della produzione e riproduzione sociale e, di conseguenza, anche dell’esistenza stessa dell‘umanità.

La cultura è il processo sociale generale di questa accumulazione.

La cultura è il movimento dell’informazione ed il processo di memoria dei collettivi umani: classe, genere, etnia….

Il processo sociale di informazione è un processo semiotico e ideologico, semiotico perché si avvale di segni, è produzione/scambio di segni, ideologico perché l’informazione è un microtesto che cristallizza la dialettica vivente nei rapporti sociali che lo hanno prodotto. E’, quindi, una traduzione ideologica.

Pertanto la donna viene inserita in un programma che, poi, automaticamente, sia pure inconsciamente, ne determinerà il comportamento per l’intera durata della vita.

Quindi, nella formazione sociale borghese-patriarcale codici, funzioni e canali della comunicazione culturale sono controllati dalla classe dominante e dal maschio che ne detengono la proprietà “privata”.

Dato il controllo che la borghesia ed il maschio esercitano sui codici, sui canali di comunicazione, sulle modalità di decodificazione e interpretazione del messaggio, sulla cultura tutta, la donna si trova spesso nella condizione di essere letta e parlata dalle sue stesse parole, di essere portavoce di una realtà e di valori di cui non comprende il fine e la funzione.

Affermare il carattere storicamente contestualizzato e segnico di tutte le zone della coscienza e della cultura tutta, significa ribadirne necessariamente il carattere ideologico.

Pertanto si rivela l’inconsistenza di tutte le teorie innatiste e idealiste, non solo la cultura, ma anche l’inconscio esiste come realtà materiale nella società e nella memoria collettiva.

E’ il luogo dove quello che è rifiutato dall’ideologia dominante viene privato di parole, posto nell’impossibilità di comunicare.

E, all’ingiunzione di regole di comportamento dettate dall’ideologia vincente si accompagnano sempre precisi divieti, stigma e punizioni.

Per questo, il divieto e la paura di infrangerlo (con relative conseguenze), soffoca il nostro presente ed il nostro futuro.

Da qui, la necessità di una pratica sociale antagonista che ha arricchito il movimento femminista nel corso della sua ormai lunga, diversificata e contradditoria esperienza nella consapevolezza che il privato è politico e che il sociale è il privato.

Di fronte all’ideologia dominante noi non scappiamo intimorite e ne lasciamo alla borghesia il monopolio, ma abbiamo la ricchezza del materialismo storico dialettico.

Strumento rivoluzionario perché consente e promuove un processo incessante di presa di coscienza delle stesse leggi di formazione della coscienza.

Il risultato è una pratica sociale trasgressiva e comunicata. Significa pratica sociale orientata al soddisfacimento dei nostri bisogni materiali, delle nostre aspirazioni, ma anche al raggiungimento della felicità e della gioia.

E’ un trasformarsi trasformando la società, è prassi politica, ma, contemporaneamente, prassi sociale. Significa guardare il presente con gli occhi del futuro.

Liberazione dal capitale e dal patriarcato significa produzione di festa e di autorealizzazione e diversa qualità del tempo e della vita.

Tempo e vita sottratti alla tirannia del plusvalore e al dominio patriarcale.

Qui acquista importanza la produzione della memoria sociale, di fronte alla pretesa del capitale di avere il monopolio della produzione e della circolazione dei meccanismi di funzionamento della memoria collettiva.

L’area della comunicazione sociale è l’area della vita sociale: come la sua espansione è misura di ricchezza, così il suo controllo, da parte della borghesia, è una forma di pauperismo culturale.

L’uso borghese patriarcale della memoria sociale produce un’informazione sempre più avvelenata che passa attraverso l’imposizione dell’oblio, la censura e la simulazione dei fatti. Accompagnata dalla selezione dei fatti stessi.

Il monopolio della lettura della memoria collettiva è una strategia di controllo sociale che passa dalla censura alla falsificazione dei segni ideologici e, per far questo, usa strumenti diversi compresa la socialdemocrazia ed il riformismo che, nelle reti della comunicazione quotidiana fanno guerra semiotica alla memoria e all’identità del movimento femminista.

Tutto ciò attraverso la produzione di falsificazioni e di segni ideologici che, mentre simulano eventi sociali reali, presenti e passati, ne propongono una “modellizzazione” menzognera.

La socialdemocrazia attua forme di dissimulazione per giungere, attraverso l’intossicazione e la manipolazione della memoria femminista, al controllo preventivo dei comportamenti potenzialmente antagonistici.

Poiché l’esperienza passata condiziona quella futura, si configura come codice dell’attività riproduttrice dei rapporti sociali. E, perciò, si capisce perché la declinazione della memoria collettiva assume una così grande importanza per la borghesia neoliberista e patriarcale. E, pertanto, concepisce il futuro come un semplice prolungamento dell’adesso.

Da qui, la necessità, per il movimento femminista, di conquistare una memoria autonoma e collettiva della lotta di liberazione delle donne.

La socialdemocrazia è incardinata sul principio di ricordare per conservare, mentre, noi femministe ricordiamo per trasformare.

La nostra memoria è, necessariamente, determinata da molteplici e contraddittorie accentuazioni.

All’interno di queste, come complesse trame su un ordito, si svolgono intrecci complicati di specifiche memorie, più o meno organizzati, più o meno frammentari, ma, il risultato finale è completamente unitario.

E’ un inno, un anelito alla nostra liberazione.

Le informazioni, la cultura, non sono affatto neutre, buone per tutti i generi, le classi, le etnie….La veicolazione della memoria collettiva, nella formazione semiotica ideologica borghese patriarcale, è esteriorizzazione di sapere che si realizza sotto il dominio del capitale.

Da qui, la necessità di rigettare i codici linguistici del potere che costituiscono la rete essenziale del controllo sociale.

Da qui, la necessità di costruire un nostro linguaggio, una nostra prassi che investa tutti gli aspetti della vita, dall’apprendimento del lavoro, dai linguaggi quotidiani, dall’eros, dalla capacità di sognare.

Finalmente potremmo avere per oggetto e scopo la nostra vita: il corpo, il piacere, le passioni, le emozioni…. insomma, la realizzazione di noi come universo illimitato di desideri.

La felicità è originata dall’autorealizzazione ed è la misura della civiltà.

In breve e insieme, rivoluzione sociale e culturale, rivoluzione totale fuori e dentro di noi.

*Relazione tenuta all'all'Incontro Nazionale Separato organizzato a Roma il 2 e 3 giugno "Il personale è politico, il sociale è il privato" contro la violenza maschile sulle donne, nello spazio sociale occupato dell'Ex51 in via Bacciarini 12 (metro A- Valle Aurelia).

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