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L’esclusione ovunque

Una rivisitazione del paradigma foucaultiano

di Emilio Quadrelli

I borghesi hanno ottime ragioni per attribuire al lavoro una soprannaturale forza creativa, poiché proprio dalla natura condizionata del lavoro risulta che l’uomo, possessore soltanto della propria forza – lavoro, deve essere, in tutte le condizioni sociali e culturali, schiavo di altri uomini che si sono resi proprietari delle materiali condizioni di lavoro. (K. Marx, Critica al programma di Gotha)

Intorno al carcere, alla sua storia e funzione, sono state scritte intere biblioteche. È  immaginabile che il lettore di questo sito ne abbia una conoscenza abbastanza ampia. Diamo quindi per scontato gran parte di ciò che ci sta alle spalle e proviamo a tracciare alcune linee di ricerca e intervento a partire dal presente. Il carcere non è, come certa letteratura di genere (prendiamo su tutti i romanzi di Edward Bunker) ama mostrare, un mondo a sé con regole e retoriche diverse e distanti dai mondi sociali esterni bensì la sintesi, portata sino alle estreme conseguenze, del mondo che lo circonda. Il carcere è esattamente lo specchio, neppure troppo deformato, del mondo cosiddetto normale. Questo, chiaramente, non significa che tra dentro e fuori non esistano differenze ma, più realisticamente, che le regole e i modelli della prigione sono i medesimi della società circostante. Parlare del carcere, quindi, significa parlare dei modelli sociali nei quali siamo immessi. Ciò è vero sia per quanto riguarda la società ufficiale e legittima, ossia quella che utilizza e gestisce il carcere, sia per quanto riguarda la parte deputata a subirlo e ad abitarlo. Il carcere, non diversamente da qualunque altro ambito sociale, non può che essere l’effetto di una condizione storicamente determinata.

Credo che sia importante, per iniziare a comprendere il mondo della prigione di oggi, prendere sommariamente in esame il modo in cui è mutuata negli ultimi anni la “questione sicurezza”. Penso sia noto a tutti come, solo pochi anni addietro, le retoriche relative alla sicurezza insieme a tutte le autentiche ossessioni che si portavano appresso fossero una delle argomentazioni politiche di maggior rilievo.

Su di queste, indipendentemente dagli schieramenti politici, sono state costruite intere fortune pubbliche. Specialmente in prossimità di un qualche evento elettorale ogni candidato non faceva mancare la sua proposta finalizzata alla messa in sicurezza delle città e, in contemporanea, ogni governo o amministrazione in carica, in prossimità della scadenza del mandato, proprio sulla “questione sicurezza” veniva messa alla berlina dalle forze all’opposizione. Organi di stampa e media, nel frattempo, facevano a gara per mostrare e documentare l’insicurezza e la paura che attanagliava il cittadino medio. Repentinamente, l’insieme di queste argomentazioni sono scomparse dal dibattito pubblico e la “questione sicurezza” è pressoché stata espunta dal dibattito politico. In contemporanea è venuta meno quell’ansia di militarizzazione generalizzata delle città mentre, per altro verso, si è assistito a un intensificarsi della presenza delle forze dell’ordine coadiuvate dall’esercito in determinati comparti urbani strategici. Non solo simbolicamente, questo significa il ritiro dello Stato da alcuni ambiti e la sua accentuazione su altri. In altre parole ciò a cui assistiamo è il venir meno di quello che Foucault ha chiamato lo stato di popolazione  che nel binomio Stato/Nazione aveva trovato la sua sintesi migliore. Ma con ciò si inverte anche quel modello di “governamentalità” che a tale epoca aveva fatto da sfondo, ossia il far vivere e il lasciar morire. Cosa significava nello stato di popolazione il far vivere e il lasciar morire se non un’attenzione continua e costante al “benessere della popolazione”? Non era forse sulla popolazione, sulla sua salute, efficacia, efficienza e attitudine alla disciplina che si forgiavano i destini degli Stati/Nazione? E perché ciò fosse possibile non era forse necessario che il potere statuale si adoperasse per far vivere il maggior numero di individui mentre a essere lasciato morire doveva essere solo quella quota di popolazione “insana” che, in virtù di ciò, rappresentava un pericolo di infezione per il corpo sano della Nazione? In tale ottica lo Stato non poteva far altro che essere continuamente presente dentro e tra la popolazione al fine di attivare il più possibile i meccanismi dell’inclusione sociale. Di tutto ciò oggi si è perso completamente traccia e l’asserzione foucaultiana va esattamente rovesciata poiché il potere agisce esattamente al contrario: lasciar morire e far vivere. In tutto questo cosa c’entra la prigione? Molto, poiché è proprio all’interno di questa istituzione che si esemplifica al meglio il lasciar morire divenuto oggi il modello di governo delle nostre società. Proprio nella prigione si assiste al radicale mutamento di paradigma che a lungo aveva fatto da sfondo alle nostre società e che, sempre facendo ricorso a Foucault, possiamo identificare come “modello disciplinare”. Ora, perché esista una governamentalità disciplinare occorre che vi sia un modello omogeneo a cui il soggetto deve uniformarsi e tale modello è forgiato dagli ordini discorsivi dominanti i quali, questo il punto, hanno pretese universalizzanti. La costruzione del cittadino è un’operazione di ingegneria sociale al cui realizzo sono chiamati diversi specialisti e molteplici saperi. Per questa tipologia di potere è impensabile che una qualunque cosa sfugga al suo controllo ma non solo. Questo tipo di potere è forgiato sui saperi del dettaglio, sull’attenta osservazione di tutti i comportamenti dell’individuo. La società disciplinare non può che essere una società permanentemente educativa e correttiva perché tutto deve essere omogeneizzato. In ciò si sostanzia il far vivere. Fuori da ciò vi è solo la dimensione del margine del malato e dell’anormale. Figure nei confronti delle quali il potere conduce, o almeno ha condotto, una battaglia in permanenza. La volontà di sapere ne è stata la migliore esemplificazione.

Di tutto ciò, oggi, obiettivamente rimane ben poco. Anche in questo caso è bene fare mente locale sull’insieme di ordini discorsivi presenti fino a poco tempo addietro nei nostri mondi. Tutti avranno a mente come, a lungo, il termine devianza con gli immancabili corollari quali disagio e malessere sociale, abbiano svolto un ruolo egemone nei nostri mondi. Il mestiere di “acchiappa devianti” sembrava essere uno dei più sicuri e intoccabili e con questo un processo permanentemente espansivo di medicalizzazione della società. Anche in questo caso, come per la “questione della sicurezza”, repentinamente se ne sono perse le tracce. Le nostre società, dall’oggi al domani, hanno visto sparire devianza, disagio e malessere sociale. Quella sorta di accanimento terapeutico finalizzata al far vivere si è velocemente eclissato. Nell’affermarsi del lasciar morire la medicalizzazione della società non ha ragione di esistere. L’insieme di retoriche che hanno fatto da sfondo a un’intera epoca con tutti i saperi da questa messi in forma sono posti velocemente in soffitta. Ma che cosa implica, concretamente, tutto ciò? Significa che il potere ha cessato di agire in maniera dispotica sulle sorti dei singoli, oppure siamo di fronte alla messa in circolo di un dispotismo con diverse caratteristiche? Credo che la seconda sia la risposta esatta. Ma di quale potere stiamo parlando? Ed è esattamente qua che, a mio avviso, entra prepotentemente in ballo la “forma CIE”.

A un primo sguardo i CIE o ex CPT appaiono come la grande aporia che, all’improvviso, compare all’interno dei nostri mondi poiché pongono tra parentesi i cardini stessi dello stato di diritto. A uno sguardo solo un poco più attento, al contrario, questi si mostrano, in quanto dispositivi, come l’elemento al contempo normativo e paradigmatico delle nostre società. Il loro carattere eccezionale va colto per intero nel significato proprio a cui il termine eccezione rimanda e al conseguente affermarsi di una sovranità in grado di esercitare il tratto propriamente politico della decisione ovvero: Sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione.  Ma in che cosa consiste il grado di eccezione dei CIE?  Perché, per la loro messa in opera, occorre chiamare in causa proprio l’esercizio del potere sovrano e il suo potere decisionale? Perché un tale richiamo sia legittimo è necessario che il passaggio a cui si fa riferimento sia il prodotto di una crisi la quale, per definizione, implica una mutazione radicale di quanto normalmente e normativamente era operante e consuetudinario un attimo prima. Le parole hanno un peso e, pertanto, non possono e non vanno utilizzate con leggerezza. Ciò è tanto più vero quando si tirano in ballo argomentazioni le cui ricadute hanno conseguenze pratiche e ad ampio raggio non secondarie. Come è sufficientemente noto i CIE rappresentano un autentico mostro giuridico poiché sono un luogo in cui la legge è sospesa. Al suo interno non sono rinchiusi individui accusati di un qualche reato ma masse senza volto che sono soggette a una forma particolare di detenzione proprio perché prive di individualità.

Una forma di potere che nulla ha a che vedere con il mondo delle discipline ma che, piuttosto, riporta alla mente il mondo coloniale, il mondo dei grandi raggruppamenti, il mondo delle deportazioni di massa, del filo spinato dove il lasciar morire era il modello di governo delle potenze conquistatrici. L’indigeno è privo di individualità ed è trattato e governato niente più e niente meno come il branco animale. Questo mondo, oggi, è in qualche modo rimesso in circolo dentro le nostre metropoli. Perché? Che cosa rende possibile la reintroduzione di modelli che richiamano alla mente per intero l’epopea coloniale? Non dobbiamo mai dimenticare che il potere non agisce, se non di fronte a una minaccia di natura politica, in termini repressivi, bensì sempre in termini produttivi. Il potere non è interessato alla repressione bensì alla produzione: cioè alla messa al lavoro dei corpi e alla quantità di ricchezza che da questi è possibile estrarne. Il potere, in poche parole, è interessato al plusvalore. La sua organizzazione sociale è direttamente legata al modo di produzione e alle forme che questa assume. È dentro la produzione, pertanto, che dobbiamo andare a cercare il “segreto” di questo passaggio. È nel modo in cui si è ridefinito il rapporto tra capitale e forza lavoro salariata che, allora, possiamo comprendere il senso del passaggio in atto di cui, il carcere attuale e i CIE, sono, al contempo, lo specchio e la sintesi. È cogliendo questa generalizzazione della condizione di massa senza volto che diventa comprensibile il primeggiare del far morire dei nostri mondi.

Ecco così che i mondi della prigione cominciano a essere più familiari di quanto, in apparenza, potrebbero sembrare. Chi, oggi, è deputato ad abitarli? Chi, oggi, non può che essere continuamente oggetto del “sistema della penalità”? Non occorrono inchieste sociologiche particolarmente raffinate per cogliere nel segno. Oggi il mondo della prigione è, né più e né meno, che la discarica sociale entro la quale sono parcheggiati gli attori sociali più deboli e privi di una qualche forma di protezione sociale ed economica. Si dirà: questa è un po’ la scoperta del’acqua calda e, in effetti, così potrebbe apparire. Ma, all’interno di questa costante storica propria del mondo della prigione, vi è una novità per nulla secondaria intorno alla quale è bene ragionare. Classicamente, e anche in questo caso il richiamo al Foucault di Sorvegliare e punire pare particolarmente centrato, il mondo della prigione è il luogo del crimine che, sotto il profilo sociale, è rappresentato da determinate classi o meglio ex classi sociali. Su questo aspetto Foucault non si discosta molto da Marx, poiché i mondi del crimine sono quelli propri dei marginali i quali precipitano in tale condizione in quanto appartenenti a gruppi e classi sociali frantumate dai processi di modernizzazione. Il marginale, classicamente, può essere considerato una vittima della storia. I marginali, per lo più, sono sempre ex qualcosa. Ex artigiani soppiantati dal lavoro di fabbrica, ex operai specializzati soppiantati dal lavoro meccanico, ex domestici lasciati liberi da nobili ormai decaduti, ex commercianti caduti in disgrazia, ex contadini espropriati dalla concentrazione capitalista della proprietà terriera insomma, sotto qualunque spoglia si osservi il marginale troveremo sempre un mestiere, una professione per arrivare a uno status sociale che il moto storico ha reso superfluo e inutile. Una condizione che ha sempre riguardato una parte ampiamente minoritaria dei mondi sociali. Una parte, questo è l’aspetto che va tenuto fortemente a mente, che fuoriesce completamente dal ciclo produttivo. La linea di confine di tale condizione è un po’ sempre stata quella del disoccupato. Fino a quando costui rimane entro le file dell’esercito industriale di riserva  la sua identità sociale non viene intaccata più di tanto ma, nel momento in cui la sua condizione si cronicizza, ossia è estromesso definitivamente dal ciclo produttivo, il suo status sociale rapidamente cade in frantumi. Da operaio in potenza si trasforma in marginale a tutti gli effetti finendo repentinamente con il perdere quell’insieme di legami e rapporti sociali tipici della sua classe. Di qua l’approdo ai mondi dell’esclusione con tutto ciò che questi si portano appresso.

È proprio nella natura di questa condizione che, oggi, mi pare siano intervenute trasformazioni decisamente radicali. La condizione di margine e di marginalità oggi si è estesa a quote sempre più ampie di popolazione. Ciò che oggi si intravvede è come l’essere marginale sia una condizione normale per le nostre società. Al proposito credo sia del tutto inutile, in questo contesto, dilungarsi sulla condizione di invisibilità e oggettiva esclusione e marginalizzazione in cui versano quote sempre più ampie e corpose di forza – lavoro. Se, per un intera arcata storica, i meccanismi produttivi e militari potevano funzionare solo attraverso la costante inclusione sociale dei più – di qua il prodursi del modello disciplinare -  oggi sembra sensato affermare che il meccanismo funziona esattamente in maniera opposta. Qua si apre un capitolo che sicuramente non può essere risolto in poche battute ma solamente introdotto, ossia le modifiche intervenute nella forma guerra nei nostri ordinamenti politici, economici e sociali.

In ogni caso possiamo affermare che l’inclusione sociale è sempre stata la condizione propria, almeno sin dalle guerre napoleoniche, della potenza degli Stati/Nazione. Il potere e la forza di uno stato, e successivamente di un gruppo di stati, andando al sodo poggiava per intero sulla sua capacità produttiva industriale, quindi sulla quantità di salariati messi soddisfacentemente al lavoro, e sulla quantità e qualità delle masse proletarie deputate a indossare la divisa. In altre parole ecco il senso del far vivere. In un mondo che si regge su questo modello la marginalità e l’esclusione sociale non posso che essere l’altro e l’indicibile della norma sociale ed ecco il senso del lasciar morire. Ma se, tutto ciò, viene a decadere  se, cioè, forza e potenza nel mondo attuale si esprimono in maniera diversa dal passato non diventa forse superfluo, per il potere, dedicare tempo e risorse al far vivere? Non diventa forse più economico il lasciar morire. Ecco che allora l’aporia e la mostruosità giuridica del CIE assume contorni diversi poiché la condizione di massa senza volto diventa esattamente ciò di cui il potere necessita. Questo mi sembra il nodo centrale intorno al quale teoria e prassi politica sono chiamati oggi a misurarsi. La logica che sottende il CIE, è oggi reiterabile nei confronti di qualunque blocco e ambito sociale. Nessuno, la cui condizione rimandi a quella del subalterno, sembra esserne in potenza esente. Pertanto, per comprendere il mutamento di paradigma che attraversa le nostre società, occorre calarsi per intero dentro le modifiche “strutturali” che hanno attraversato e scompaginato radicalmente i nostri mondi.

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