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C'era una volta la governance

Marco Bascetta

Il declino dei dispositivi che dovevano garantire la partecipazione della società civile all'interno del rispetto dei vincoli imposti dal capitalismo. E nel vuoto creato dalla sua scomparsa, crescono il populismo e il nazionalismo

marat assassinatoTra le numerose vittime della crisi che stiamo vivendo ve ne è una il cui cadavere, pur sotto gli occhi di tutti, ci si sforza in ogni modo di occultare. Si tratta della «governance», quella parola magica che nell'ultimo ventennio interveniva in ogni occasione a delegittimare e soffocare il conflitto sociale, proponendosi come versione tecnicamente efficiente e socialmente aperta della «partecipazione democratica». Priva cioè di quegli elementi caotici e imprevedibili che accompagnano ogni esercizio di democrazia non riassorbito nella rappresentanza. In poche parole, il volto gentile ma non per questo meno disciplinante della politica «postnovecentesca». Qualcosa di cui, forse tra breve, non sentiremo più parlare.

Il termine di «governance», onnipresente, sfumato nei suoi contorni, soggetto alle più diverse interpretazioni e mutevole nei suoi significati, secondo gli ambiti cui veniva applicato (economico, politico, sociale, manageriale), comprende tuttavia un certo numero di caratteristiche che la gestione della crisi ha manifestamente spazzato via, altre che si sono invece rivelate ben diverse dalle virtù relazionali che prometteva. La prima tra queste caratteristiche è l'articolazione dei poteri e delle sedi negoziali, nonché la moltiplicazione degli interlocutori coinvolti nei processi decisionali, in contrapposizione alla natura verticale e centralistica del governo dello stato.

Tra gli esempi canonici degli strumenti della governance «subnazionale» e della sua capacità di aderire alla complessità delle società contemporanee interagendo con i molteplici soggetti che le popolano si citavano con soddisfazione i poteri sempre maggiori conferiti a regioni, province, comuni, municipi e la loro articolazione sempre più capillare sul territorio. Oggi il processo è completamente invertito: si aboliscono le province, si riduce la capacità di azione delle regioni, si accorpano municipi, e il tutto viene sottoposto a un rigido controllo non dal basso, ma dall'alto. È un fenomeno che non riguarda solo le sedi politico-istituzionali. Dove si può, si abolisce, si accorpa e si concentra (lo ha tentato il ministro Profumo con centri e istituti di ricerca, salvo parziale marcia indietro), dove non si può si istituiscono agenzie centralistiche di valutazione e di controllo attraverso le quali una burocrazia tecnocratica, sovente fuori dal mondo, detta le regole e emette le sue sentenze. Che costano posti di lavoro, diritti e servizi e spesso regressione culturale. Torna la pianificazione, questa volta al servizio dei «mercati».


L'inganno dell'interdipendenza


La seconda caratteristica della governance, infinitamente decantata per le sue innumerevoli virtù, è l'interdipendenza, anzi l'intreccio tra pubblico e privato. Non più antagonismo, non più competizione, non più separatezza, ma una formidabile cooperazione a favore dell'innovazione e dello sviluppo. Si implorano gli imprenditori di entrare nelle università, ridisegnate a loro uso e consumo, si punta sulla sanità privata, si foraggia la scuola non statale, si invoca il pragmatismo «efficiente» dell'interesse privato nella gestione dei servizi pubblici, dai trasporti allo smaltimento dei rifiuti, alla gestione delle reti idriche. Il tutto benedetto dal fantasma, ai più invisibile, della concorrenza (vedi Italo e Trenitalia). Questo aspetto della «governance» non è beninteso messo in questione, semmai la sua esaltazione si fa sempre più enfatica, ma i risultati, dopo un congruo numero di anni di indefessa fede, sono sotto gli occhi di tutti, dallo stato in cui versano la scuola e l'università o il sistema sanitario, all'erosione di redditi e diritti. Ci vorrebbe un bel coraggio a definire «governance» la circonvenzione di incapaci esercitata con successo da Sergio Marchionne. In breve, l'intreccio tra pubblico e privato resta, ma senza nessuna capacità, e probabilmente nessuna intenzione, di sciogliere i nodi della «società complessa» e governarne le contraddizioni, scendendo a un qualche compromesso reale, aldilà dal ricatto e da un decisionismo di stampo oligarchico.


La comprevendita del consenso


Una terza decantata caratteristica della «governance» è il coinvolgimento delle associazioni e delle comunità nella gestione del territorio e delle politiche sociali. A quest'ultimo proposito, al netto dei tagli di risorse e delle normative dirigiste che si sono abbattute su diversi soggetti della cosìddetta «società civile», basteranno due semplici esempi. Da una parte il manganello dell'interesse nazionale, anzi «europeo», (alquanto privo, è il meno che si possa dire, di solide argomentazioni) che si è abbattuto sulle teste degli abitanti della Val di Susa, dall'altra i favoritismi e la manica larga di cui si è giovata la Compagnia delle opere nei suoi torbidi traffici e nella edificazione di un vasto sistema di potere.

Queste tre caratteristiche della «governance» ci dicono che essa è il contrario esatto della trasparenza di cui si fregia, ma soprattutto che essa si è data nella forma della corruzione. Né altrimenti potrebbe darsi un processo politico volto a conservare lo stato di cose esistente, i rapporti di forze e le gerarchie sociali. Date queste premesse la «governance» non è che la corruzione, non come anomalia o devianza ma come strumento di governo. Il che spiega, fra l'altro, l'indifferenza quando non la soddisfazione popolare per la messa in mora dei sistemi politici locali. Nel primo caso, quello delle istituzioni decentrate, troviamo gli appetiti delle clientele e le grottesche ruberie dei rappresentanti politici, o il delirio di onnipotenza dei sindaci sceriffi, nel secondo l'intreccio sempre più spregiudicato di politica e affari, ben oltre l'antica pratica delle tangenti, nel terzo i sistematici rapporti di scambio (ideologico, politico ed economico ad un tempo) con le reti di potere confessionali e non.

A differenza dalla prima tangentopoli scatenata dalla crisi del sistema dei partiti consolidatosi nel dopoguerra e mantenuto in vita dagli equilibri della guerra fredda, questa seconda tangentopoli (che tali sono le dimensioni che va assumendo) è prodotta dalla fine della governance. Ci si libera insomma del dispendioso sottobosco incaricato di comprare, tra promesse e favori, il consenso popolare. La parola passa infatti ai due soggetti che meno di ogni altro hanno a che fare con una articolazione multilivello delle decisioni politiche e amministrative, con la capacità di adattarsi alla contingenza e alla molteplicità delle situazioni, con la «partecipazione democratica» di più soggetti. E cioè il «governo tecnico» e la magistratura. Lo spread, come la legge (sebbene tutti sappiano che non è affatto vero) sono «uguali per tutti». Il pareggio di bilancio entra nelle Costituzioni. I tribunali si moltiplicano e ampliano la loro sfera di azione.

A segnare il destino della governance subnazionale è quella sovranazionale, investita dalla crisi che essa stessa ha prodotto. L'Europa, essendosi dotata di una governance di natura essenzialmente finanziaria, il cui interlocutore principale è costituito dalla rendita, e la cui missione è conservare e riprodurre gli attuali rapporti di forza tra gli stati così come tra i soggetti sociali, sospinge i governi degli stati membri a rendersi efficaci articolazioni di questi imperativi, rinunciando a tutto ciò che li ostacola e dunque ad assumere senza esitazione vesti dirigiste, pur nell'ambito invalicabile del dogma liberista. La richiesta tedesca di istituire un supercommissario all'euro con il potere di bocciare o promuovere i bilanci nazionali, muove esattamente nella direzione di una «governance» che si fa «governo». Non quel governo politico di cui si invoca retoricamente la necessità di una legittimazione democratica, sempre rinviata alle calende greche, ma un «governo tecnico», che altro non è se non il governo pienamente politico delle oligarchie. I cui appetiti non incontrano nella dottrina e nella pratica economica europea, né in quella dei singoli stati membri, argine alcuno.


Oltre la società del controllo


La defunta «governance» corrotta e corruttrice, mistificante e censoria di ogni conflitto non merita certamente alcun rimpianto. Del resto ben poche sono le fessure che ha lasciato aprire nella catena del comando, diversamente da quanto alcuni avevano sperato. E tuttavia una centralizzazione tecnocratica del potere che progressivamente vi si sostituisca è destinata a sfociare in un dispotismo tutt'altro che illuminato e dedito al terrorismo finanziario. Con gli elevatissimi costi sociali che abbiamo visto nell'Europa meridionale, ma non solo. Fra le due lame di questa tenaglia lo spazio è decisamente stretto. Tanto più che populismi e nazionalismi di natura spesso apertamente neofascista tentano insistentemente di occuparlo. È solo investendo direttamente, in una prospettiva rigorosamente europeista e in tutti i paesi del continente la natura oligarchica e conservatrice delle politiche europee che forse si riuscirebbe a ostacolare seriamente quella «società del controllo» e quella furia disciplinare che si sta affermando nel vecchio continente, impedendo, al tempo stesso, il ritorno di sovranità corrotte. Un movimento continentale capace di minacciare concretamente l'aristocrazia del denaro e il suo clero. Di cui, tuttavia, conviene ammetterlo, si vede oggi solo qualche pallido embrione.

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