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Il separatismo

Forza, garanzia di riconoscimento, necessità della lotta femminista

di Elisabetta Teghil

Il separatismo è una pratica politica di sottrazione che permette ad un insieme oppresso di riconoscersi, di riconoscere l’oppressore e di elaborare in autonomia.

Non appartiene solamente al movimento femminista, ma a molti altri ambiti di lotta come, ad esempio, la lotta contro le discriminazioni razziste o contro quelle basate sull’etnia o sulla religione.


E’ caratterizzato da due elementi:

- appartiene ad ambiti oppressi che hanno delle componenti trasversali ed interclassiste di oppressione;

- consiste nel rifiutare ogni pratica di analisi e costruzione politica con coloro che vengono ritenuti soggetti oppressori.



Un esempio conosciuto, oltre a quello all’interno della lotta di liberazione delle donne, è il separatismo attuato dalle nere e dai neri, nelle loro lotte di liberazione negli Stati Uniti.


Per alcune il separatismo è anche scelta di vita, come nel caso di alcuni settori del movimento lesbico.


Il separatismo femminista e lesbico adotta la sottrazione dalle relazioni politiche e di analisi con i maschi, ritenendo che sia impossibile analizzare la propria oppressione insieme a chi ne è portatore. Che alcuni maschi dichiarino di essere consapevoli e di volersi sottrarre al ruolo di dominatore, nulla toglie al fatto che la società patriarcale sia strutturalmente impostata sul dominio maschile e, quindi, che sia impossibile costruire la propria analisi con chi è portatore, comunque, di strutture di dominio.

Il separatismo, allo stesso tempo, non è isolamento e autoreferenzialità, ma è costruzione autonoma, per cui percorre una strada parallela alle altre lotte di liberazione e condivide spesso percorsi di piazza e di lotta.

Esistono quindi molti modi di intendere il separatismo……..


La pratica del separatismo è molto importante perché le oppressioni che sono trasversali alle classi e ai tempi storici, se ridotte nella lotta di classe, provocano forti contraddizioni che rischiano di regalare la lotta al sistema di potere.

Un esempio: anche le donne cattoliche e/o borghesi ecc. sono oppresse, ma la configurazione ideologica in cui sono collocate impedisce loro di liberarsi dal meccanismo di oppressione e, anzi, sono le prime che lo perpetuano. L’analisi di tutto ciò in ambito separato permette di sviscerare il meccanismo e di non liquidarlo con posizioni del tipo “sono borghesi e , quindi, non ci interessano” perché immediatamente le borghesi ce lo rovescerebbero contro dicendo che la lotta di classe è parziale e inadeguata.

Che la lettura di classe, da sola ,non sia sufficiente a leggere la società, e, in particolare la specificità delle questioni di genere, non solo è condivisibile, ma è patrimonio del movimento femminista, ma allo stesso tempo è un elemento imprescindibile nell’agenda politica delle nostre lotte. Nell’analisi, quindi dell’intreccio delle oppressioni di razza, genere e classe il separatismo è una modalità estremamente importante.


Lo stesso succede anche con le lotte che hanno componenti antirazziste, perché anche il razzismo attraversa le classi.


Il Black Power è stato un esempio molto importante di separatismo nero.

I nei/e americani si sono resi/e conto che per discernere le loro oppressioni e analizzarle era necessario sviscerarle in ambito separato perché i bianchi/e, per quanto “radicals” erano sempre portatori strutturalmente delle oppressioni dell’uomo bianco.

Bastava la loro presenza in una assemblea perché si instaurassero gerarchie e difficoltà di comunicazione e di analisi.

Le Black Panthers, attraverso la lotta separata e l’autodifesa sono arrivate al marxismo, evidenziando, anche all’interno della nazione nera, le componenti di classe. Ma ,questo, se lo potevano dire solo i neri/e con i neri/e.


Anche il Black Feminism degli anni ’80 ha operato la scelta separatista nei confronti del femminismo bianco, perché le strutture dell’oppressione razziale e di classe permanevano, più o meno consapevolmente, anche nei rapporti tra femministe.


Da alcune il separatismo è visto come pratica negativa in quanto identitaria al pari dei nazionalismi e, da altre, negativa in quanto riferita ad un’identità biologica. Questa critica viene soprattutto dagli ambiti Queer.

Ma non è l’identità o l’identità biologica che identifica l’oppressione, ma l’oppressione stessa.

E’ il riconoscimento dell’oppressione che permette all’insieme delle oppresse, per esempio le donne, di riconoscersi fra simili.


Nonostante il separatismo femminista abbia degli esempi anche più lontani nel tempo, se non altro come consapevolezza della difficoltà in ambiti misti, in Italia ed in Europa è stato rivendicato fortemente negli anni ’70 con modalità estremamente diverse e in un panorama estremamente variegato che andava dal rifiuto di qualsiasi rapporto con i maschi fino alla doppia militanza attuata da alcuni gruppi di compagne.

La pratica separatista è stata anche strumentalizzata, in quegli anni, dalle componenti “femministe” socialdemocratiche, propagandando l’idea del separatismo come qualcosa di avulso ed, anzi, contrario, alla lotta di classe, contribuendo, così, alla mistificante propaganda “contro tutte le ideologie” che ha portato alla deriva attuale per cui il separatismo ed il femminismo stesso sono percepiti come frenanti rispetto alle lotte di tutti gli oppressi e ai processi di liberazione perché, in definitiva, corporativi.

“Ma il separatismo non è passato di moda. Tutt’altro. Quando è stato inventato, nel 1970,quello del Movimento di liberazione delle donne (Mfl) ha scioccato l’intera società, comprese le femministe della generazione precedente. Perché il separatismo è nato da una rottura teorica che rimette in discussione le precedenti analisi sulla subordinazione delle donne: non si parla più di una 'condizione femminile' di cui tutti, uomini e donne, patiremmo allo stesso modo, ma dell’oppressione delle donne”( Christine Delphy- Ritrovare lo slancio del femminismo- Le monde diplomatique-maggio 2004).



Attualmente, ci sono forti pressioni che spingono per il “superamento” del separatismo come pratica di lotta femminista e lesbica.

L’attuale stagione neoliberista, dietro una facciata “riformista e modernizzatrice” propugna e attua, in tutti i campi, l’annullamento delle conquiste degli anni ’70 ed un ritorno agli anni ’50, con il tentativo di assopimento della conflittualità sociale attraverso  appelli al buonismo, all’accordo fra le parti sociali , alla “convivenza civile”, panacea dei conflitti di genere e di classe, appelli peraltro sempre e solo rivolti alle oppresse e agli oppressi.

Gli oppressi/e non sono più presentati/e con una loro caratterizzazione costituita dalla collocazione lavorativa e sociale, ma come un indistinto , spesso fatto percepire come criminale e fuori dalle regole.

La conflittualità nel mondo del lavoro, secondo questa impostazione, dovrebbe trovare la composizione in un vicendevole riconoscimento della naturalità e ineluttabilità dei ruoli e delle parti, e nella necessità di uno sforzo comune per il “bene del paese”.

La conflittualità sociale dovrebbe trovare uno sbocco “costruttivo” nel “confronto democratico” dove i dissidenti e le dissidenti, le valsusine e i valsusini, le refrattarie e i refrattari ,a qualsiasi titolo, nei riguardi di questa società, dovrebbero convincersi dei loro errori e rimettersi nelle mani dello Stato che decide  “eticamente” e “per il bene di tutte e tutti.”.

 

In questo progetto si inserisce il tentativo di trascinamento dal femminismo al femminile e di riduzione della lotta delle donne ad una generica conflittualità tra i sessi, facendo dimenticare completamente la natura strutturale dell’oppressione di genere e della violenza dei maschi sulle donne, conflittualità che dovrebbe essere risolta ,secondo la visione riformista/neoliberista, attraverso un sereno e collaborativo confronto tra maschi e femmine in cui ognuna delle parti dovrebbe portare le proprie ragioni  e insieme si dovrebbero risolvere i contrasti, con buona pace della famiglia.

E’ questo il senso delle iniziative femminili socialdemocratiche e riformiste. La donna a cui si rivolgono, viene descritta come casa e cura, madre, moglie, figlia, con la tessera di qualche partito, non importa quale, sindacalista, imprenditrice, volontaria, che sa mediare il lavoro  di cura e il lavoro all’esterno. Vengono assolutamente annullate le differenze politiche e i ruoli nella società e, a cascata, si auspica e si attua il superamento della discriminante antifascista.

Si danno per scontate questa società, “civile ed accogliente”, la famiglia, e si fa appello ad una moralità che tutte ci dovrebbe unire all’insegna della nazione-patria.

Vengono completamente cassati anni di lotte e di repressione e dimenticata una struttura sociale basata sullo sfruttamento, sull’ingiustizia, sulla disperazione della stragrande maggioranza della gente e, in particolare, delle donne.

Repubblichine e partigiane, donne borghesi indifferenti a tutto e forti dei loro privilegi e donne sfruttate e avvilite, donne in carriera che licenziano e donne licenziate, vengono tutte accomunate, in un ruolo indistintamente femminile, e dovrebbero tutte concorrere alla costruzione di questa società.

E’ la riproposizione di dio/patria/famiglia.

E  assertore di questa impostazione non è il centro-destra, che pure ribadisce continuamente, secondo i suoi principi, il ruolo subalterno e di servizio della donna in questa società, bensì il centro-sinistra, i riformisti e socialdemocratici, che sono i maggiori sponsor dei principi neoliberisti.

Da qui il proliferare di associazioni femminili che trattano le donne come le popolazioni del terzo mondo. Come le Ong non mettono in discussione le guerre neocoloniali e l'oppressione dei popoli indigeni, così  queste associazioni perpetuano il ruolo subalterno delle donne in cambio di finanziamenti e promozioni individuali. E l'ultima stagione di questa deriva sono le lodi al governo Monti.

E’ in questo contesto che quelle stesse componenti socialdemocratiche che, negli anni ’70, hanno usato il separatismo per snaturare e stravolgere la dimensione di classe della lotta di genere, oggi chiedono, a gran voce, il superamento del separatismo nella lotta delle donne.

Quella volta, obtorto collo, dovendo fare i conti con il movimento femminista, hanno usato il separatismo per appropriarsene e togliere ogni valenza di classe, oggi, nella stagione neoliberista, arrivano all’impudenza di chiedere il superamento del femminismo, perché, dietro la parola “superamento del separatismo”, questo c’è.

 
Ma , il separatismo, è uno strumento, è una necessità di tutte/i coloro che portano avanti una lotta contro le oppressioni che hanno delle componenti trasversali, come lo è stato per il Black Panther Party, perché è una difesa, una zona franca, una garanzia di riconoscimento, una forza.

Soltanto in ambito separato è possibile sviscerare ,comprendere , razionalizzare le contraddizioni che la lotta femminista e lesbica si trova a dover affrontare nell’intreccio delle oppressioni di genere/razza /classe.

Contemporaneamente ,siamo consapevoli della necessità di collegarci con le altre realtà che lottano contro le oppressioni che esprime questa configurazione sociale, perché non esistono percorsi di liberazione che siano corporativi.

Per questo, oggi come non mai, è necessario salvaguardare e difendere il separatismo, creare e difendere spazi separati e autorganizzati.

Come, nella società, non è sufficiente, per scardinarne la struttura, l’endemico conflitto capitale/lavoro, ma è necessaria la presa di coscienza di classe, così la lotta di liberazione delle donne passa, necessariamente, attraverso la presa di coscienza di genere.

Il separatismo, oggi, è la dimensione di classe della lotta femminista.

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