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Ricordare/Trasformare/Uscire da qui

di Elisabetta Teghil

L’esperienza passata condiziona quella futura, per questo è necessario conquistare una memoria autonoma e collettiva del movimento femminista.

La memoria è l’occasione per produrre nuove possibilità e dare un senso agli eventi presenti e futuri.


Il femminismo è nato dalla prassi consapevole di soggetti che intendevano liberarsi e la liberazione di noi tutte è il programma del passato, del presente e del futuro.


C’è stato un momento magico in cui le donne hanno pensato di potersi riappropriare del proprio corpo, della propria sessualità, della propria vita.

E’ durato un anno? qualche anno? un mese? qualche mese? per ognuna è stato un tempo diverso, ma è bastato per prendere su di sé una consapevolezza che è potenza, che è l’aver assunto la certezza che la liberazione può essere, che non è utopia, mito, sogno o follia, ma autonomia e autodeterminazione.

La conoscenza del nostro corpo, dai primissimi timidi tentativi, si è aperta poi a ventaglio, è stata la scoperta della fisicità, la gestione della salute, della sessualità, dei desideri, della mente fino ad una grande e positiva sensazione di onnipotenza, sensazione di poter finalmente decidere di sé e per sé.

Ma, anche, consapevolezza della costruzione sociale del nostro essere e del corpo, per cui esistevano tante immagini esterne della femminilità e del corpo stesso, quante erano e sono le classi e le frazioni di classe.

Quindi, compenetrazione di conoscenze di sé e di conoscenze del “fuori”.


Ma mentre cercavamo di portare avanti questo percorso di consapevolezza e di utilizzare politicamente le correlazioni che avevamo messo in atto per spezzare l’organizzazione e l’ordine sociale classista e sessista, la risposta del femminismo socialdemocratico è stata ricostruzione dei ruoli e puntello di questo ordine sociale.

E questo processo è stato attuato attraverso appositi grimaldelli: il gratuito, la delega, le esperte e gli esperti.

L’uso strumentale del gratuito ha offuscato e nascosto come in una nebbia la differenza che esiste tra il diritto ad avere i servizi gratuiti da parte dello Stato da cui non si può e non si deve prescindere e il delegare allo stesso i propri spazi di aggregazione e di crescita politica. Oltre all’enorme mistificazione passata attraverso il concetto del ”cambiare le Istituzioni dal di dentro”.

L’affidamento di nuovo agli esperti, anzi alle esperte, perché il numero di donne che fanno le psicologhe, le sessuologhe, le psichiatre, le specialiste in senso lato del comportamento ….è notevole, ha condotto alla medicalizzazione delle esistenze da un lato e, dall’altro alla perdita della capacità di conoscersi e di riconoscersi in autonomia.

Non esistono segni “ fisici” veri e propri. L’immagine sociale del proprio corpo, con cui ogni soggetto deve fare i conti, si ottiene attraverso l’applicazione di un sistema di classificazione sociale.

I segni costitutivi del corpo sono prodotti di una fabbricazione culturale vera e propria.

Dimenticare questo ha comportato devitalizzare l’impulso rivoluzionario del femminismo, deviandone la sensibilità, l’immaginazione e l’analisi verso forme di determinazione individuale e collettiva opposte alle premesse ideali.

 
I sentimenti umani di reciproco riconoscimento, di mutuo aiuto e di vicendevole costruzione delle proprie esistenze, sono stati tradotti in promozione individuale e sostituiti da meccanismi di promozione sociale, isolando le soggettività indisponibili a questa soluzione e le tante non coinvolte in questo processo, mettendole nella situazione di essere represse. Chi ha fatto queste scelte si è resa complice del razzismo istituzionale che rinchiude nei Cie per condizione, della discriminazione e persecuzione di comportamenti, etnie, nazioni o parti politiche della società.

 
La ricerca della felicità individuale e collettiva è stata capovolta in una realizzazione personale totalmente dimentica dell’originaria azione creativa e dialettica del femminismo, capovolgimento favorito attraverso l’indirizzo dei mezzi comunicativi e formativi di massa, per cui ogni riflessione e pratica eterodiretta rispetto alle pratiche dominanti, viene rinchiusa nella logica del negativo e del patologico, da reprimere, utilizzando le componenti socialdemocratiche riformiste come agenti controrivoluzionari.

La visione esclusivamente emancipatoria della condizione della donna, annulla l’idea e gli ideali di liberazione, rimuovendo l’orizzonte comune e collettivo della libertà.


Il femminismo, oggi, viene percepito nel comune sentire come qualcosa di opportunistico, con connotazioni negative e corporative, con lo stesso meccanismo con cui la sinistra socialdemocratica ha consegnato i giovani della periferia al fascismo.


La grande vittoria del patriarcato è di aver stravolto il carattere originario e originale del femminismo e di averlo fatto attraverso la componente socialdemocratica.

E la vittoria della componente socialdemocratica è passata attraverso l’area della comunicazione sociale, attraverso la produzione di falsificazioni, la manipolazione e l’intossicazione della memoria femminista con il controllo preventivo e la condanna dei comportamenti potenzialmente antagonistici.

Il femminismo è scardinamento dei ruoli e, proprio perché il personale è politico, è scardinamento dell’organizzazione sessuata della società.

Ma, dato che nessun ambito sociale vive di sé e per sé, è scardinamento e rifiuto dei ruoli organizzativi della società tutta.

La socialdemocrazia è impostata per conservare, mentre il femminismo è un programma che fa della memoria uno strumento di consapevolezza e di forza per uscire da questa società.

Il nostro impegno è piccolo e grande allo stesso tempo e non è merce di contrattazione.

L’obiettivo è la nostra liberazione.

L’inganno parte dall’idea , volutamente falsificata, che questa società abbia nel DNA la possibilità di potersi rinnovare e che il patriarcato sia qualcosa di altro rispetto all’involucro capitalista in cui in questa stagione si perpetua.

Ma può esistere il patriarcato senza capitalismo, ma non può esistere il capitalismo senza patriarcato.

La messa in discussione dell’organizzazione sessuata, mette necessariamente in discussione l’organizzazione gerarchica, autoritaria, verticistica da cui, il patriarcato per un verso ed il capitale per un altro, non possono prescindere.


Non è trasfigurando le istituzioni che migliora la nostra condizione di genere oppresso, ma attraverso la capacità di abbattere le costruite differenze tra il maschile e il femminile, smascherando la pretesa di trasformare la storia in natura e l'arbitrio culturale e politico in naturale.


L'approccio socialdemocratico ha sostituito il concetto stesso di lotta politica con quello di delega, ha lavorato in modo che il patriarcato e le strutture patriarcali fossero percepite come qualcosa di esterno, di altro, di sovrapposto rispetto a questa società e si è risolto nella promozione individuale di alcune a scapito della stragrande maggioranza delle donne tutte, trasformando il femminismo in un arcipelago di associazioni di categoria abilitate dalla controparte a parlare a nome delle donne, nella misura in cui le stesse si sono appiattite e hanno aderito ai valori e agli interessi patriarcali.

E' lo stesso approccio con cui le Ong e le Onlus affrontano il dramma del terzo mondo, dove non denunciano le guerre neocoloniali, non mettono in discussione la depredazione delle ricchezze di quei popoli, ma portano aiuti umanitari.

Ma quelli che fanno le guerre neocoloniali e a vario titolo partecipano, compresi gli stuoli di Ong e Onlus, forma attuale dei missonari di vecchia memoria, sono, al di là delle belle parole, contro i popoli del terzo mondo, così come le socialdemocratiche e riformiste, al di là delle belle parole, sono contro le donne ed il femminismo.


Da qui, l’oblio e la “damnatio” di tutti quei collettivi e gruppi femministi che hanno fatto scelte di azione “violenta”, per usare un termine semplicistico e corrente, e armata nei confronti del patriarcato.

La teoria della non-violenza è una modalità del marketing, un vero e proprio strumento di controllo sociale e come il marketing non ha la funzione di liberare il tempo individuale, ma, al contrario, di controllarlo per massificarlo al massimo, così la non-violenza è lo strumento di una nuova servitù volontaria.


E, infatti, i termini rivoluzione e ribellione, sono diventati per le componenti femminili socialdemocratiche alla stregua di un marchio commerciale con cui fare marketing e pubblicità. Questa epidemia di ribellione non impressiona né il capitale né le sue articolazioni repressive.

Non contente, tutte queste ribelli, si autorappresentano come “scomode” per questa società. E, buon ultimo, si definiscono “disubbidienti”. E usano il meccanismo del capitalismo mediatico.

Tutto si risolve nell’ “épater les bourgeois”.

Dobbiamo avere chiavi di lettura per distinguere tutte costoro dalle vere ribelli, disubbidienti e scomode?

Non ce n’è bisogno, questo già lo fa per noi il patriarcato.

Quelle di cui abbiamo parlato, hanno i riflettori puntati su di loro, se ne parla, vengono intervistate, vengono ospitate di qua e di là.

Le altre, quelle che lo sono veramente, sono avvolte dal silenzio e dall’oblio e, quando “esagerano”, vengono stigmatizzate, demonizzate, represse...

Contemporaneamente, il tabù del sesso viene largamente sfruttato da quando si è scoperta la correlazione e il legame tra desiderio sessuale e pratiche sessuali non usuali e malinteso concetto di rivoluzione e liberazione.

Allo stesso tempo, resta fermo lo stereotipo della donna che è oggetto di piacere o soggetto domestico che, anche quando è emancipata e lavora fuori casa, è lei stessa che sorveglia la sua abbronzatura, l’odore delle sue ascelle, i riflessi dei suoi capelli, la linea del suo reggiseno o il colore delle sue calze.

Vestire casual, comprare nei negozi equo-solidali, fare sesso fuori dal coro e dichiarare la “rivoluzione necessaria”, non assolve nessuna.

Facciamo pure quello che ci pare, perché quello che ci piace, proprio perché ci piace, è buono, ma lo è, naturalmente, per noi che lo facciamo e ci piace, ma non parliamo, per favore, di libertà, di rivoluzione, di cambiamento della società.

Questa configurazione sociale si caratterizza nella preminenza progressiva della merce su ogni altro elemento e nella mercificazione di tutti i rapporti, compresi quelli sociali e affettivi, nella cultura che viene ridotta a mode che si susseguono, con l’apparire esibizionistico che prende il posto dell’autonomia individuale, nell’appiattimento della storia stessa sull’evento immediato e l’informazione istantanea, nella fuga dal conflitto sociale e nella disaffezione dalla politica, nella strumentalizzazione delle lotte di liberazione e delle diversità.

Allora diventa urgente smascherare e denunciare il ruolo di missionarie del verbo patriarcale che le socialdemocratiche e riformiste assolvono, per recuperare lo spirito del femminismo che è antagonista e liberatorio, che vuole lo scardinamento dei ruoli e delle dinamiche di oppressione comprese quelle delle donne contro le donne.

Perché la visione, la lettura, la speranza di un cambiamento totale di questo mondo non è mai venuta meno.

L'ideologia neoliberista, forma compiuta ed attuale del divenire del capitale,
non vuole la liberazione degli esseri umani, ma pretende, addirittura, la fine
di ogni forma simbolica a vantaggio esclusivo del valore mercantile.
La violenza del neoliberismo si manifesta nella sua pretesa di vietare ogni
forma di conflitto, di differenza e di declinare tutto nel suo interesse e di
sacrificare tutto alla sua conservazione ed autoespansione.


Chiarezza politica, onestà intellettuale, coraggio civile, autonomia, autodeterminazione, autorganizzazione , coscienza di classe, coscienza di genere sono gli strumenti che dobbiamo usare per proseguire il nostro percorso di liberazione.

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