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Violenza, cuore segreto della società

di Diego Fusaro

Domenica 28 aprile si è verificato un grave episodio di violenza davanti a Palazzo Chigi. Disoccupato, divorziato e dipendente dai videopoker: è questo il tragico profilo di Luigi Preiti, il quarantanovenne di Rosarno, che ha premuto il grilletto. “Sono disperato”, ha affermato: non è certo una giustificazione, ma è indubbiamente un tema su cui è opportuno riflettere seriamente. Onde evitare ogni equivoco – e nell’epoca dell’odierna confusione globale è sempre bene essere chiari fino all’estremo – , lo diciamo subito: il gesto di Preiti dev’essere incondizionatamente condannato e punito secondo la legge. Non è nostra intenzione deresponsabilizzare gli individui. E, tuttavia, il gesto di Preiti offre lo spunto per svolgere alcune considerazioni sullo statuto della violenza nell’odierna società.

Nell’ordine della manipolazione organizzata di cui siamo abitatori, è invalsa la moda di pensare che la violenza in quanto tale sia una forma estinta, appartenente esclusivamente a un passato degno di essere ricordato con il solo obiettivo di guadarsi dai suoi errori. Si tratta di una maniera – tutto fuorché ideologicamente neutra – di innocentizzare il presente, creando la grandiosa illusione – la falsità organizzata – secondo cui l’oggi sarebbe esente dalla violenza. Questo modo di pensare è largamente maggioritario: esso, come si dice a Torino, “fa fine e non impegna”.

Infatti, esenta chi lo segue dalla fatica di spiegare le forme di violenza che, sia pure in maniere diverse da quelle del passato, attraversano carsicamente la società dei consumi. Sotto questo profilo, il messaggio dell’ideologia dominante è forte e chiaro: la violenza è solo del passato (in una indecente riduzione del Novecento a museo degli orrori, a semplice teatro delle “idee assassine”) o, quando esplode nel presente, è legata a singoli episodi di pazzia individuale, come nel caso del pazzo di Oslo, qualche anno fa, o come nel caso di Luigi Preiti, il 28 aprile 2013.

Un simile modo di impostare la questione è falso e, di più, ideologicamente connotato, perché cela il fatto che la violenza oggi è il cuore segreto della società, sia pure in una forma diversa a cui ci ha abituati il Novecento, con la sua terribile “estetica dei supplizi”, secondo la felice formula di Foucault. Oggi la violenza è invisibile, perché è economica. Il mancato rinnovo dei contratti di lavoro dovuti all’inflessibile ordo oeconomicus, così come l’innalzamento dell’età pensionabile, il taglio selvaggio degli stipendi, i sacrifici dei popoli in nome del mercato (nel  2011 è stato il turno di quello greco, immolato sull’altare di Monsieur le Capital), e, più in generale, l’esproprio forzato del futuro come dimensione progettuale per il nuovo “esercito industriale di riserva” dei giovani ridotti alla schiavitù formalmente libera del lavoro flessibile e precario: sono tutti segnali che rivelano in modo adamantino, se ancora ve ne fosse bisogno, non soltanto che la “mano invisibile” del mercato è tale perché non esiste, ma anche che l’economia è, insieme, politica e violenza.

Occorre, allora, congedarsi dall’idea, propria delle inguaribili anime belle di ogni tempo, secondo cui l’economia, di per sé, è neutra e la violenza è prerogativa esclusiva della politica: la realtà globalizzata ci mostra ogni giorno che la violenza esiste anche come “categoria economica immanente”, per riprendere la feconda espressione che usava Lukács nella sua Ontologia dell’essere sociale. Se per violenza intendiamo una forza senza misura che diventa potere se – come suggerito da Elias Canetti nel suo capolavoro, Massa e potere – si stabilizza nel tempo, coincidendo con la capacità di costringere altri a fare ciò che di per sé non farebbero (o impedendo loro di fare ciò che di per sé farebbero), ebbene il mancato riconoscimento del carattere eminentemente economico della violenza e del potere nel nostro tempo rientra a pieno titolo nelle molteplici forme dell’ideologia e della sua dinamica di santificazione dell’esistente. Difficile non percepire il carattere del potere economico – nel senso della violenza stabilizzata nel tempo – che oggi pervade ogni cellula della nostra società.

La retorica ideologica – questo il punto – ripete compulsivamente che la violenza è una categoria politica del passato, dei totalitarismi fortunatamente estinti, o, nel presente, di singoli individui impazziti, mai della società in quanto tale, delle perverse norme dell’economia che sacrifica impietosamente sul suo altare le vite umane. Rispetto ai totalitarismi del passato, che se non altro assegnavano un volto e un nome ai loro carnefici, quello del mercato opera nell’anonimato, occultato dall’invisibile coltre delle leggi silenziose dell’economia e della sua spettrale oggettività. Il fatto che la violenza non si veda non vuol dire, tuttavia, che non esista: basta recarsi in una delle tante stazioni italiane per sentire ogni settimana annunci di treni soppressi per suicidi sulla linea. E tali suicidi, quasi sempre, rimandano alla questione economica, alla violenza che non si vede e alle molteplici forme dell’asservimento invisibile che permea la società di mercato.

Di questi temi ci eravamo occupati in un saggio qualche anno fa, Karl Marx e la schiavitù salariata. Uno studio sul lato cattivo della storia (Il Prato, 2007, con prefazione di André Tosel): a distanza di ormai sei anni, le tesi di quel libro sembrano, per paradossale che possa apparire, tragicamente più attuali rispetto ad allora. La violenza esercitata dal potere sui corpi e sulle vite degli individui viene presentata come conseguenza naturale e fisiologica di quella ristrutturazione internazionalizzata dei sistemi produttivi, commerciali e finanziari che viene pudicamente definita globalizzazione e che, nei suoi tratti essenziali, è autoritariamente governata dall’alto ad opera delle politiche neoliberali. La riduzione generalizzata della spesa pubblica e dei servizi sociali, la coartazione economica che ottiene tramite la semplice distribuzione differenziata delle ricchezze (peraltro secondo dislivelli sempre più scandalosi) l’asservimento di individui formalmente liberi ed economicamente schiavi rispondono perfettamente alle politiche neoliberiste e, insieme, vengono sempre di nuovo imputati alle sacre leggi dell’inevitabilità sistemica: sono i segni di quella schiavitù economica che convive con la libertà formale e che è la cifra del nostro presente. È, se vogliamo, il “teorema di Marx”: nel primo libro del Capitale, Marx spiega che la differenza tra l’antico schiavo e il moderno salariato sta nel fatto che il primo era legato al suo padrone da catene, mentre il secondo è vincolato al capitale e al mercato da fila invisibili, da una violenza, appunto, che non si vede ma che, non di meno, è ben presente.

Se si fa eccezione per le nuove forme dell’imperialismo presentate con l’altisonante nome di “missioni di pace” o di “esportazione della democrazia”, tendenzialmente il dominio non si esercita più, oggi, nella tradizionale forma dell’imposizione autoritaria e della violenza politica. Si determina, invece, come soppressione della possibilità di alternative, in modo che l’adesione alle leggi sistemiche sia necessitato e, insieme, appaia libero. Da una diversa prospettiva, al soggetto non è autoritariamente imposto di agire in un determinato modo. Semplicemente, le leggi dell’economia lo pongono nella condizione di non poter fare altro, secondo la cifra stessa della violenza capitalistica che non si esibisce apertamente. Il controllo oggi non è coercitivo, perché preordina lo spazio delle possibilità d’azione e di pensiero. È in questo scenario, crediamo, che deve essere inquadrata e interpretata la vicenda di Preiti, il suo folle gesto in linea con la follia organizzata del sistema del mercato. Non si può condannare incondizionatamente – come noi facciamo – la violenza folle di Preiti senza condannare, in pari tempo, la violenza altrettanto folle della società di cui siamo abitatori. Condannare l’una e legittimare l’altra è una contraddizione, ed è bene sottolinearlo.

È giusto ricordare il passato e le sue violenze, ma non certo per restare ciechi di fronte a quelle del presente. Il nuovo Hitler non ha la svastica né i baffetti: parla un ottimo inglese, legge “The Economist” e identifica la libertà con la liberalizzazione integrale. Non impone di aderire ai suoi progetti criminali, ma disarticola alla base la possibilità di alternative rispetto ad essi. Non firma i suoi crimini, né ci mette la faccia: nasconde sempre le sue scelte esiziali dietro il teologumeno “ce lo chiede il mercato” (o, oggi sempre di più, “ce lo chiede l’Europa”). È pronto a condannare ogni forma di violenza che non sia quella, anonima e silenziosa, dei mercati.

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