Print Friendly, PDF & Email

Le multinazionali del bene e il welfare caritatevole

Domenico Chirico

Venti anni fa, quando in Italia prese piede l’idea che il welfare poteva essere delegato al terzo settore, secondo i principi della sussidiarietà e della prossimità ai bisogni, solo alcuni degli osservatori più attenti notarono che in un paese come il nostro questo percorso non sarebbe andato lontano. Si pensava, infatti, che lo Stato potesse rispondere meglio ai bisogni affidando i suoi servizi a enti no-profit, attraverso bandi pubblici. Poi sono finiti i soldi degli enti locali e stanno progressivamente scomparendo i servizi: quelli pubblici smantellati, quelli affidati al terzo settore non più finanziati. La destrutturazione del welfare è compiuta. Certo ci sono sempre stati molti sprechi nel pubblico in Italia, ma il privato, anche quello sociale, è sempre stato debole, compromesso con la politica, incapace spesso di immaginare e lavorare per la trasformazione sociale.

Alcuni episodi chiariscono meglio il quadro. Una cooperativa sociale in provincia di Caserta ha lavorato per anni con un comune dell’agro aversano, accumulando crediti per 300mila euro. Crediti coperti con esposizioni bancarie, in modo da continuare ad assicurare la fornitura di servizi a disabili, anziani, finché il comune non è andato in dissesto per la mala amministrazione ampiamente diffusa in tutta Italia. I commissari prefettizi propongono dunque una transazione alla cooperativa, offrendo la metà della cifra. La cooperativa, strozzata dai debiti, accetta. E chiude.

I debiti degli enti locali, soprattutto al Sud, vengono pagati con anni di ritardo, è nata addirittura una banca che compra questi debiti e paga il privato sociale, prendendosi in pegno beni dei comuni stessi. Il bene comune così si svende, assieme al fatto, ovvio, che nessuno può più offrire quei servizi. Quasi nessuno, in realtà, perché, come nel migliore dei mercati, anche nel sociale c’è ora chi offre di meno per vendere i suoi servizi. Così sono nate delle cooperative sociali che hanno sede, ad esempio, in una città del Nord e hanno  pochissimi addetti, ma partecipano a tutti i bandi di gara del sociale in Italia, offrendo prezzi super competitivi. Se vincono il bando, assumono nel comune dove hanno ottenuto l’appalto gli operatori sociali per svolgere il lavoro e per il solo tempo necessario al progetto. I costi così si riducono al minimo, finisce però contemporaneamente qualsiasi logica di prossimità e conoscenza dei territori. L’esperienza e la sapienza dei bravi operatori viene sostituita dalla migliore offerta e dal franchising del sociale. A discapito di ciò che resta dei servizi sociali.

E a discapito anche delle migliori esperienze che il settore sociale ha saputo e potuto realizzare negli anni, nonostante il mercato e le sue regole, diventate negli anni l’unico indice di qualità per giudicare i servizi. Un altro esempio utile è quello del 5 per mille. Nato come sistema sussidiario per incrementare le risorse delle associazioni e dei centri di ricerca, sembra oggi essere diventato l’unica risorsa effettivamente disponibile ogni anno, gestito in modo borbonico ed elettronico dallo Stato. I risultati dovrebbero essere pubblicati on line l’anno successivo alle dichiarazioni dei redditi. Invece vengono pubblicati con due anni di ritardo, senza che si possa sapere chi ha scelto di donare, un dono che viene erogato effettivamente anche tre anni dopo. Lo Stato peraltro non comunica il totale complessivo delle donazioni dei contribuenti e ogni anno decide, arbitrariamente, quanto dare. Nel 2013 numerose interrogazioni parlamentari hanno messo in luce lo scandalo: mentre gli italiani hanno donato circa 400 milioni, lo Stato ha deciso di darne solo 300, riducendo di fatto il 5 per mille a un 4 per mille. senza alcuna trasparenza da parte delle istituzioni. Ma l’aspetto peggiore è sicuramente la corsa all’accaparramento di questi fondi, anche da parte dei ministeri e degli enti locali, che sono stati ammessi al finanziamento da alcuni anni. Particolare sdegno ha causato la pubblicità del 5 per mille fatta dal ministero dei Beni Culturali su diversi giornali, con lo Stato direttamente in concorrenza con l’associazionismo e che spende soldi pubblici per stimolare donazioni private. Ormai è una guerra tra poveri in cui ogni ente pubblico, no profit, di ricerca, tenta di farsi strada per ottenere il 5 per mille dei contribuenti. Si è creata una piramide rovesciata di fondi. Tra i primi cento (con contributo dai 10 milioni di euro in giù) ci sono la fondazione dei notai, i quali hanno deciso di auto assegnarsi il loro cospicuo 5 per mille per non disperdere inutili risorse in beneficenza, e ci sono alcune delle grandi multinazionali del bene che ormai da anni hanno preso piede in Italia. In questa lista fanno eccezione solo alcune grandi organizzazioni sociali italiane che hanno ancora una forte base e un radicamento nei territori che permette loro di avere ancora un vasto consenso. Ma sono le multinazionali del bene che in realtà dettano le regole, perché le conoscono bene e agiscono come il mercato richiede.

Più di dieci anni fa, infatti, arrivarono in Italia alcune grandi organizzazioni, soprattutto inglesi e francesi, capendo che il terzo settore italiano era del tutto impreparato alle sfide del mercato: troppo legato alle logiche politiche e sociali del Novecento, aggrappato alla politica e ai partiti, incapace di comunicare il suo lavoro. Le multinazionali invece aprirono grosse sedi e cominciarono a lavorare esclusivamente sulla comunicazione. Decine di persone hanno lavorato per anni per imporre i loro marchi (branding si dice nel marketing) e oggi sono delle realtà ben conosciute all’opinione pubblica. Non hanno bisogno di mendicare spazi gratuiti sui giornali ma investono cospicue somme in pubblicità, su tutti i media. I loro responsabili hanno salari commisurati ai risultati economici conseguiti con le raccolte fondi. Sono del tutto indipendenti dal settore pubblico in termini economici, ma sono sempre presenti in tutti i tavoli istituzionali, dove spesso parlano una lingua che alle istituzioni piace: non vi chiediamo soldi, lasciate spazio alle imprese che si vogliono impegnare nel sociale, decidiamo insieme le politiche sociali e noi faremo la nostra parte mobilitando i fondi dei privati che sappiamo raccogliere.

Finisce l’epoca delle consultazioni tra parti sociali e comincia quella delle consultazioni con chi ha i soldi e imposta le priorità, in base a un mix tra bisogni, messaggi utili al mercato della raccolta fondi e priorità stabilite in cerchie ristrette. Del resto le grosse multinazionali del bene hanno il vantaggio di sedere in tutti i tavoli che contano a livello internazionale, dalle Nazioni unite alla Commissione europea. Ormai sostituiscono spesso nei processi di discussione anche le agenzie delle Nazioni unite, impostando così dall’alto le politiche, le normative, le priorità sulle quali poi si basano i bandi pubblici. Ed è un altro duro colpo a qualsiasi possibilità di reale prossimità con i bisogni delle persone e dei territori.

Da alcuni anni queste organizzazioni hanno iniziato a impegnarsi sempre più in Italia, entrando nei territori in virtù dei loro ricchi fondi a disposizione. Del resto, avendo investito molto in comunicazione e raccolta fondi, gli mancava in Italia la possibilità di costruire un discorso efficace sul sociale, in un momento di crisi per il paese in cui le persone pensano più spesso ai servizi tagliati che ai mali del mondo. Così hanno cominciato a dare piccoli finanziamenti a tutte quelle associazioni che in anni di duro lavoro si sono costruite una rete di rapporti a livello locale, e che hanno lavorato vicino alle persone, con molti sacrifici. La grande multinazionale comincia così ad assorbire nella sua sfera tante piccole organizzazioni che non hanno più finanziamenti pubblici e diventano antenne territoriali. A volte il meccanismo è utile, necessario alla sopravvivenza di esperienze importanti per i servizi sociali, ma si tratta di un meccanismo malato perché chi dà i fondi e imposta le priorità non è più il pubblico ma un soggetto privato, come le multinazionali del bene, che ragiona come un’azienda anche se è formalmente no-profit. Soggetti che non hanno una base sociale, come le associazioni, che non hanno delle regole democratiche di partecipazione interna ma solo un vertice aziendale. Soggetti che peraltro per stare sul mercato devono spettacolarizzare il dolore, il bisogno, devono comunicarlo e renderlo sempre visibile in modo da stimolare la carità privata. Ultimamente ha fatto scandalo ad esempio l’iniziativa della Rai di produrre un reality show inviando alcuni pseudo famosi nei campi profughi in Africa. Una spettacolarizzazione del dolore di cui la televisione pubblica italiana non si dovrebbe rendere complice mentre dovrebbe invece essere un po’ meno provinciale, producendo in modo costante buona informazione sui problemi italiani e internazionali. Invece si è scelto di mandare Al Bano in Mali, speriamo almeno canti la sua hit Felicità (“felicità è un bicchiere di vino / con un panino”) per la gioia dei rifugiati denutriti.

E' chiaro che questi meccanismi e queste organizzazioni sono solo uno specchio della realtà. Fanno anche bene, come quando forniscono servizi sanitari essenziali in luoghi dove lo stato è scomparso o non arriva nessuno. Ma con loro finisce il welfare come lo abbiamo conosciuto e per cui le generazioni del dopoguerra hanno lottato. Finisce l’utopia dell’impegno sociale come luogo di trasformazione. Inizia definitivamente l’epoca del welfare caritatevole, anzi ricomincia da dove era rimasta durante il primo capitalismo. Per l’Italia è un inizio, qui dove oltre la Chiesa non esiste nessuna impresa privata realmente attenta al territorio. Anzi di solito le imprese italiane, come a Taranto, lo deturpano e regalano specchietti e perline colorate agli indigeni. Non ci sono privati illuminati che investono nelle comunità, non c’è il pubblico. Sono comparse solo delle Fondazioni private, anche gestite dalla finanza internazionale, che solo in alcuni casi sono attente ai bisogni e ai diritti, mentre molto più spesso vogliono rendere le associazioni dei fornitori o dei dipendenti piuttosto che dei loro partner. Sul campo sembriamo destinati a essere dominati solo dalle grosse multinazionali informi che decidono se quest’anno va di moda il bimbo grasso da far dimagrire o il terremotato emiliano, che non esercitano un ruolo critico verso la politica e la società ma alleviano a volte il dolore, ineluttabile. Mentre una lunga cultura ed esperienza di intervento sociale ha sedimentato in Italia capacità e competenze che solo in tempi lunghi possono diventare efficaci vettori di trasformazione. Una volta Gesualdo Bufalino disse che in Sicilia era necessario mandare un esercito di maestri elementari, non di militari. In luoghi come Scampia o i campi profughi del Mali non servono reality o fiction, ma programmi di lungo periodo, cura e attenzione verso le persone.

Serve la denuncia dei meccanismi di potere che determinano il degrado. Servono sistemi di relazioni mutualistiche e solidali che per fortuna stanno rinascendo,  tra le macerie del sociale. Serve il lavoro degli artigiani, non dei supermercati.

Add comment

Submit