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Spettri di Marx all’Hotel Bauen

Una lettera da lontano

Pubblichiamo qui una missiva inviataci da un nostro “corrispondente” all’estero.

Carissimi,

forse avrete letto il breve servizio apparso qualche giorno fa sul sito del Corriere della Sera, a proposito dell’Hotel Bauen1, l’albergo a 4 stelle situato nel centro di Buenos Aires, che dal 2001 viene autogestito dagli ex-dipendenti. A questo proposito, vorrei condividere con voi qualche riflessione fatta a braccio, ed un po' di fantapolitica rivoluzionaria.

Innanzitutto, mi pare sintomatico che il Corriere e altri mezzi d’informazione (perfino Mediaset!), dopo aver taciuto per lungo tempo sull’argomento, tornino a parlarne proprio adesso. Con il catastrofico aggravarsi della crisi – che prevedibilmente subirà un'ulteriore accelerazione nel 2014-2015 (gli stessi analisti della Federal Reserve vedono già all'orizzonte una colossale bolla creditizia/immobiliare in arrivo dalla Cina) – forse l'inconscia speranza, da parte padronale, è che i proletari salvino il capitale rimettendolo in funzione per proprio conto, naturalmente senza rompere con lo scambio, il denaro, la merce, lo Stato etc. D’altra parte, stiamo parlando di un fenomeno che esiste realmente, e la cui dimensione non è trascurabile. Giusto per fornirvi alcuni dati che ho raccolto qua e là, in Argentina sarebbero oggi circa 10.000 coloro che lavorano nelle imprese “recuperate”; di queste se ne contano ufficialmente circa 320, ma sembra che in realtà siano molte di più.

Il governo Kirchner si è sforzato di disegnare un quadro giuridico che le agevoli. Pensate che il Ministero del Lavoro argentino, nel 2012, ha persino pubblicato una guida che le censisce2. Naturalmente si deve tenere conto della specificità del caso argentino, se non altro perché va messo in relazione al vasto movimento sociale iniziato nel 2001. Ma le imprese recuperadas non esistono solo Argentina: in Uruguay, ad esempio, sono circa una quarantina. Io, tra l’altro, credevo ingenuamente che una pubblicistica a riguardo non esistesse nemmeno, e invece mi sono dovuto ricredere… È interessante notare come gli studi condotti da ricercatori italiani, siano tutti comparsi ad almeno 10 anni di distanza dal crack del 2001, e questo mi pare ancora una volta sintomatico di un interesse rinfocolato dalla crisi attuale3. All’inverso, noi possiamo considerare l’Argentina del 2001-2005 – prima crisi sociale ad investire un grande paese, colpito da un crack economico inatteso dalla popolazione – come un “inizio debole” nel senso di Lenin: qualcosa che ci parla del futuro.

Ritornando al servizio del Corriere, penso sia illustrativo il passaggio in cui un membro della Cooperativa Bauen dice: «abbiamo investito 2 milioni di dollari nell'Hotel, denaro che avremmo potuto metterci in tasca». Che, in termini marxiani, significa che il punto di partenza è un capitale costante equivalente a zero. Dato che non c'è più un padrone che possa prodigarsi in materiali, infrastrutture, manutenzione etc., tutto quel che viene investito in quel senso, deriva da profitti senza investimenti, i quali, alla lunga, devono essere detratti dal salario. Mi pare che tutto questo non possa non tradursi, presto o tardi, in un ulteriore abbassamento del costo della forza-lavoro (anche a parità di salario, si tratta comunque di fare di necessità virtù: di lavorare di più etc.). Aggiungo che – in una situazione che si presentasse eventualmente ben più catastrofica di quella odierna – il mantenimento o l'estensione di imprese o interi settori autogestiti, si rivelerebbe indissociabile da misure protezionistiche se non addirittura di autarchia nazionale, finalizzate a tutelare i “liberi produttori associati” dalla concorrenza internazionale, che dal punto di vista politico-ideologico potrebbero andare a braccetto tanto con un autoritarismo nazionalista che con un discorso iper-democratico: a braccetto, dunque, sia con le destre populiste che con tutte le anime belle dell’estrema sinistra che vorrebbero più padroni responsabili e meno finanza, e che saluterebbero positivamente queste iniziative come la rifondazione dal basso di un capitalismo dal volto umano, relativamente de-globalizzato e ri-nazionalizzato. Quest’ultima è, effettivamente, una via d'uscita dalla crisi teoricamente possibile (non esiste, per il capitale, un situazione assolutamente senza vie d'uscita). Ma questo “volto umano” non si costruirebbe gratis, presupporrebbe anzi un abbassamento ulteriore e radicale del valore della forza-lavoro in USA e in Europa, un riequilibrio verso il basso dei livelli salariali tra le “officine del mondo” e i centri capitalistici, e una reindustrializzazione di questi ultimi; in altri termini, presupporrebbe un autentico schiacciamento del proletariato, una controrivoluzione vittoriosa che potrebbe assumere le fattezze tanto dell’autogestione che dei pogrom razzisti (di cui abbiamo avuto di recente qualche esempio in Russia), e che in ogni caso emanerebbe (come sempre) dal proletariato stesso, dai limiti delle sue lotte. Ben inteso, tutto questo è al di là del nostro orizzonte teorico, che è dato dalla situazione di oggi; ma ritornando su quel che avevamo scritto ne “Il Lato Cattivo” n.1, la Cina potenza numero uno mondiale non è cosa impossibile, è semplicemente una possibilità che presuppone il nostro massacro. Quindi – se mi perdonate lo humour nero – io me ne frego, tanto sarò già sotto terra…

Ritornando a noi, a mio avviso non si tratta di fare i moralisti con i lavoratori che intraprendono o intraprenderanno questo tipo di iniziative (i quali non sono stupidi, e sanno fare bene i loro conti), ma di cogliere di queste ultime i limiti e i possibili punti di rottura. Non si tratta di porre l’alternativa “prendere le fabbriche o prendere il potere”, come fece Bordiga polemizzando con Gramsci negli anni ’20 del secolo scorso, quasi ci fossero la rivoluzione da una parte e la controrivoluzione dall’altra. Le due sono sempre intrecciate, anche se noi speriamo che si separino… ma quando l’integralità della riproduzione sociale è giocoforza legata alle forze produttive del capitale, sarebbe incredibilmente ingenuo pensare che il processo rivoluzionario non sia un processo contraddittorio, in cui rivoluzione e controrivoluzione si separano e si ricongiungono senza posa. Come scriveva Marx nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte:

«Le rivoluzioni proletarie [...] criticano continuamente se stesse; interrompono ad ogni istante il loro proprio corso; ritornano su ciò che già sembrava compiuto per ricominciare daccapo, si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi; sembra che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte ad esse; si ritraggono continuamente, spaventate dall'infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: Hic Rhodus, hic salta!».


Insomma, ci vuole uno “stato nascente permanente”…

Per noi, comunque, si tratta di essere allo stesso tempo teorici e pragmatici. Si può dimostrare in maniera più o meno brillante che nessuna rottura con il modo di produzione capitalistico è possibile sulla base dell’autogestione delle imprese. Ciononostante, ai proletari non interessa un fico secco del segno astrattamente capitalista o “non sufficientemente anticapitalista” delle iniziative autogestionarie: guardano a cosa glie ne viene in tasca. Ancora una volta tocchiamo con mano che, concretamente, non si può contare su nessun programma o progetto politici, ma soltanto sulla critica pratica che si può sviluppare a partire da queste stesse iniziative, allorché vengono vissute come costrizione a lavorare di più, in condizioni intollerabili, che richiedono sempre più sacrifici per “mandare avanti la baracca”; ovvero, allorché vengono vissute, volta per volta, come forme di perpetuazione del capitalismo, o di riflusso del “movimento”, o ancora come forme di autogestione della miseria tout court. Noi possiamo individuare teoricamente i limiti dell’autogestione, possiamo figurarci in maniera estremamente approssimativa cosa accadrebbe nel caso in cui il suo “punto di esplosione” venisse raggiunto, ma fare della propaganda su queste basi non porta a nulla. Noi comunisti, del resto, viviamo nello stesso mondo in cui vivono gli altri proletari. La sola differenza fra “noi” e “loro” è – come dice il nostro amico Bernard Lyon – che noi viviamo coscientemente da schizofrenici: da un lato speriamo ardentemente nell’esplosione rivoluzionaria e, dall’altro – al solo pensiero del caos catastrofico che sarà – la respingiamo, e viviamo tutti senza eccezioni come se questo caos non dovesse mai avere luogo, perché non si può fare altrimenti ed è normale che sia così. Si può lavorare una vita intera all’Hotel Bauen, ma non si può vivere una vita intera al Grand Hotel dell’Abisso!

Penso all’autogestione di Port Said, in Egitto – alla faccia dei toni trionfalistici che sono stati usati da alcuni4 – e non posso non fare il parallelo. Penso egualmente a quello che hanno scritto i compagni greci di Blaumachen5 sulle pratiche di autorganizzazione in Grecia, dalle banche del tempo agli ambulatori autogestiti. Anche a loro – e a ragione, credo – interessa fare non una critica normativa di queste pratiche sulla base della santissima lotta di classe “da manuale”, ma una critica positiva che, per dirla ancora con Marx, «nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte » (Poscritto alla seconda edizione di “Il Capitale”) – insomma, una critica che includa nella messa in rilievo dei limiti di queste pratiche, anche il loro possibile superamento.

Integrare i disoccupati e gli altri senza riserve alla produzione comunitaria, produrre ciò che serve a vivere e lottare e non al mercato (ci sarà forse bisogno di riprendere la produzione di cibo, non certo quella di energia nucleare o di arbre-magique), disfare la separazione tra i luoghi e i tempi della produzione e il resto della vita, instaurare la gratuità nel dare e nel prendere, portare colpi contro ciò che fa materialmente l'unità della classe capitalista e lega ad essa delle classi medie sempre più precarizzate – in due parole le misure comunizzatrici, saranno una necessità della lotta e non il frutto di un progetto formulato a priori; esse saranno coscienti e quindi sapranno formulare il proprio progetto. Sia come sia, uno dei loro tratti distintivi sarà che i proletari usciranno finalmente dalle imprese invece di chiudervisi dentro per salvarle.

Come al solito sono pensieri spettinati, prendeteli per quello che sono.

A presto,
R. F.

1 http://www.corriere.it/inchieste/hotel-quattro-stelle-occupato-gestito-ex-dipendenti/be08eba4-4e0c-11e3-a50b-09fe1c737ba4.shtml

2 Disponibile qui : http://www.trabajo.gov.ar/downloads/otros/130426_guia_empresas_guia.pdf

3 Aldo Marchetti, Fabbriche aperte. L’esperienza delle imprese recuperate in Argentina, Il Mulino, Bologna 2013 ; Elvira Corona, Lavorare senza padroni. Viaggio nelle imprese “recuperadas” in Argentina, EMI, Bologna 2011; Francesco Vignarolo, Le imprese recuperate. Argentina: dal crac finanziario alla socializzazione dell’economia, Altreconomia, Milano 2011. Inutile dire che l’interesse di queste pubblicazioni è decisamente altalenante

4 Si veda, a titolo di esempio, l’articolo di InfoAut, “Egitto. L’autogestione di Port Said e le lotte operaie”, disponibile qui: http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/7001-egitto-lautogestione-di-port-said-e-le-lotte-operaie

5 http://illatocattivo.blogspot.it/2013/10/al-limite-lautorganizzazione-in-grecia.html

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